QUEI BAMBINI CHE NON DOBBIAMO VEDERE

Nelle operazioni di propaganda che caratterizzano le crisi dei nostri giorni i bambini hanno un ruolo fondamentale, in fondo lo hanno sempre avuto, per influenzare e spesso fuorviare la nostra percezione degli eventi e le decisioni da assumere in proposito.
Ci sono storie e immagini di bambini di cui media e politica ci fanno fare indigestione e altre che vengono quasi occultate come se non dovessimo assolutamente vederle.

Il bimbo curdo Aylan e altri piccoli sventurati affogati nel naufragio dei barconi e gommoni su cui li avevano imbarcati genitori pronti a tutto e trafficanti senza scrupoli rappresentano lo strumento propagandistico più efficace di un progetto politico teso a indurci ad accettare un’immigrazione illegale selvaggia, rigorosamente gestita dalla malavita. che solo nelle ultime settimane comincia a venire percepita nei suoi reali contorni, cioè come una minaccia globale alla sicurezza e alla stabilità sociale dell’Europa.

Nulla di nuovo per noi di Analisi Difesa, che queste cose le diciamo da anni, ma certo una sorpresa per i tanti buonisti nutriti a terzomondismo spicciolo, spot strappalacrime e fiction militar-umanitarie.

I bambini, specie se riversi privi di vita sulle spiagge servono a farci sentire in colpa per non averli accolti prima che affogassero, cioè prima ancora che salpassero dalle coste turche o africane, il che è un paradosso perché dovrebbero in realtà indurci a perseguire con rabbia i loro genitori (che hanno versato migliaia di euro ai trafficanti spesso legati al terrorismo islamici) e soprattutto a reprimere con la massima violenza, anche militare, scafisti e trafficanti che invece continuano a restare di fatto impuniti.

La nostra commozione indotta mostrandoci i cadaveri dei bambini ci porta invece, al contrario, ad accettare come “giusta” l’immigrazione illegale di massa che continua ad arricchire mafiosi e terroristi islamici ma anche tanti ambienti e lobbies molto vicini alla politica che in Italia incassano miliardi per assistere i clandestini.

L’altro paradosso è che le immagini riproposte dei bambini, morti o sopravvissuti, servono a coprire una realtà di cui pochi parlano. Quelli che molti continuano a definire furbescamente profughi, rifugiati o migranti (i tedeschi li chiamano più correttamente “fuggiaschi”) invece che immigrati clandestini non hanno nulla in comune con i profughi di guerra che in tutti i conflitti erano per lo più donne, vecchi , bambini e invalidi perché gli uomini validi sono sempre rimasti a combattere, da una parte o dall’altra, per il futuro della loro Nazione.

In queste ondate migratorie oltre il 70 per cento di coloro che arrivano sono uomini tra i 20 e i 40 anni, cioè proprio quelli in età “da soldato”. Per distrarci da questo curioso dettaglio ci vengono mostrate all’infinito le immagini dei bimbi morti.

Non tutti i bambini sono però telegenici, alcuni poi non dovremmo assolutamente vederli come nel caso delle “hitlerjugend” dello Stato Islamico addestrati a uccidere e giustiziare i prigionieri. C’è un video diffuso dallo Stato Islamico nel dicembre scorso che è un vero pugno nello stomaco.

Nessuna tv lo ha mai mostrato in Italia perché, come è noto, i nostri media non vogliono favorire la propaganda dell’Isis e quindi da tempo non ne mostrano più i videoclip.
Noi vi consigliamo di guardarlo se non  avete già visto sul web perché solo così si può comprendere perché politica e media non vorrebbero che lo guardassimo.

Si vedono sei bambini soldato arruolati dai jihadisti giustiziare “spie”, cioè membri delle forze di sicurezza siriane catturati dai jihadisti. Gli ostaggi sono posizionati legati in diverse aree delle rovine del castello di Deir az Zor. I primi cinque soldati sono uccisi a colpi di pistola, mentre l’ultimo viene decapitato secondo un rituale più volte visto in passato, dai sei bambini dell’Isis.

Intitolato “Per i figli degli Ebrei”, il video è assai curato nei dettagli, con una sceneggiatura e vari riferimenti che richiamano i più popolari videogiochi di azione e di guerra. Comincia mostrando decine di bambini, dell’età di circa 10 anni, intenti a studiare il Corano e apprendere l’arte della guerra e della lotta corpo a corpo. In un secondo momento, sei di questi ragazzini sono scelti dal loro istruttore per “mandare un messaggio” a quanti si oppongono allo Stato islamico, giustiziando secondo una sceneggiatura preparata con cura alcuni prigionieri.

Nel filmato ognuno dei sei ragazzi attraversa la fortezza alla ricerca del “suo” prigioniero da giustiziare, accompagnato in sottofondo da musiche e rumori di scena; ogni prigioniero aveva in precedenza fornito il nome, l’anno di nascita e descritto il suo ruolo all’interno delle forze di sicurezza o delle milizie filo-governative.

Stime dell’Osservatorio siriano per i diritti umani, gruppo con base a Londra vicino ai ribelli anti-Assad e sostenuto dagli anglo-americani, indicano che lo Stato Islamico ha reclutato oltre 1.100 bambini soldato dall’inizio del 2015, di cui 50 sono stati uccisi. Come ha ricordato un articolo dell’agenzia Asianews, i movimenti per i diritti umani internazionali sottolineano che, a differenza di altri gruppi o eserciti, i jihadisti “non nascondono” la pratica dei bambini soldato, ma tendono “a ostentarla” come segno distintivo. Il loro utilizzo, spiega un esperto, è parte della loro campagna internazionale di “indottrinamento”, per far capire al mondo “come saranno le nuove generazioni” nate e cresciute “sotto il Califfato”.

In effetti molte bande africane hanno utilizzato bambini soldato, Hamas ha utilizzato i bambini come scudi umani, i talebani per posizionare ordigni esplosivi lungo le strade e come kamikaze inconsapevoli  ma solo l’Isis finora li ha addestrati per le esecuzioni.

A nostro avviso questo video dovrebbe venire trasmesso nelle scuole e nei Tg di prima serata per mostrarci il vero volto del nemico che combattiamo, o che, per meglio dire, dovremmo combattere. Provate a guardarlo senza provare sdegno, disgusto e il desiderio di vedere sterminati coloro che hanno trasformato bambini di dieci anni in killer senza scrupoli nel nome di Allah.

Video del genere inducono a riflettere sulle differenza tra “noi” e “loro”, tra una società basata sui diritti e sulla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e una basata su soprusi, violenze, discriminazioni di ogni tipo, sulla “sottomissione”.

Una società dove i figli non sono persone ma proprietà dei padri e dove si può essere decapitati pure per il reato di stregoneria, come accade nelle terre in mano all’Isis ma anche in Arabia Saudita. Differenze per cui vale la pena combattere.

Meglio guardarlo attentamente questo video e farlo guardare ad amici e conoscenti non per macabro voyerismo ma per almeno due buoni motivi. Il primo è non darla vinta a chi ci propina bambini morti per muoverci a pietà ma ci nasconde i bambini killer per non farci arrabbiare.

Il secondo motivo è avere una maggiore consapevolezza della natura di coloro che ci minacciano e ci attaccano tenendo conto che i nostri militari, italiani o occidentali, se mai dovessero schierarsi su quel campo di battaglia incontreranno anche nemici di 10 anni, sempre che non vengano impiegati prima come terroristi in Europa. Saranno probabilmente tra gli avversari più spietati ma soprattutto non potremo permetterci il lusso di considerarli dei bambini.

@GianandreaGaian

Guarda il video “To the Sons of Jews”

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Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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