Il sostegno “insostenibile” dell’F-35

Gli Stati Uniti stanno accorgendosi che non si possono permettere l’F-35. La “scoperta” non è di oggi, ma ha trovato di recente nuove più concrete conferme, con segnali d’allarme anche tra gli acquirenti internazionali dello stealth da attacco di Lockheed Martin. Conclusa l’11 aprile con l’ultimo volo test la lunga fase di sviluppo (11 anni, 55 miliardi di dollari di spesa), il Joint Strike continua a costare troppo: dopo 300 esemplari prodotti, il prezzo non scende come vorrebbero Pentagono, partner e clienti.

E’ effettivamente eccezionale, un “game-changer”, come si sente dire, che tuttavia un giorno, come fatalmente succederà, sulla sua rotta incontrerà difese e contromisure anch’esse “game-changer”. Ha ancora alcune pecche anche gravi, che comunque verranno risolte. Ce n’è però una particolarmente grave che rischia di mandare tutto all’aria: sono i costi troppo alti del suo “sustainment”, l’insieme del supporto tecnico-logistico, delle attività operative e dei periodici aggiornamenti di hardware e software.

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Capitoli di spesa che da noi vanno sotto la voce “Esercizio”. Costa un’esagerazione usarlo, per dirla in due parole. E sono costi insostenibili, spiegano i rapporti del Pentagono.

C’è un primo elemento critico che non fa quadrare i conti, ammesso che sia possibile: costi elevati di sostegno non producono soddisfacenti livelli di prontezza operativa sulle linee di volo. Questo almeno dicono i consuntivi dei primi anni di attività operativa del velivolo. La colpa è di un sistema centralizzato di supporto (il famoso ALIS) non ancora del tutto affidabile, di scorte inadeguate di pezzi di ricambio, e delle differenze di configurazione fra gli esemplari dei primi lotti e quelli dei lotti più recenti.

Un lancio della Bloomberg alla vigilia di Pasqua diceva che l’Air Force potrebbe dover rinunciare a un terzo dei suoi aerei (590 su 1.763) se entro una decina d’anni non sarà riuscita a diminuire del 38 per cento i costi del loro sustainment.

Dieci anni sono un buon lasso di tempo, ma una riduzione di questa portata comporta tagli ripetuti per decine di miliardi di dollari. Al momento è solo un’ipotesi, ha dichiarato il capo in testa dell’Air Force generale David Goldfein, ma resta il fatto che la paventata diminuzione di ordini del maggiore cliente dell’F-35 eleverebbe ancora i costi del sustainment di tutti gli altri.

3. F-35C GBU-12 Drop

Né gioverebbe l’ipotesi, ricorsa anche di recente, di un semplice rallentamento degli ordini: la diminuzione dei costi industriali già raggiunta da Lockheed dopo ripetuti assessment (pagati dal Pentagono) delle proprie performance manifatturiere, e un’ulteriore riduzione ottenuta accorpando i lotti annuali 12, 13 e 14, andrebbero in fumo. Il prezzo dell’aereo risalirebbe, e si tornerebbe da capo.

Agli allarmi dei militari il 6 aprile Lockheed Martin attraverso la sua portavoce Carolyn Nelson ha replicato che la società “sta investendo in diverse iniziative per ridurre la componente industriale nelle stime di costo (del sustainment; ndr) e continua a collaborare con il Joint Program Office per ridurre complessivamente (il costo delle; ndr) operazioni”. Tra le iniziative c’è un accordo con una società di analisi dei costi che utilizzerà software dedicati, nella fattispecie, alla manutenzione “predittiva”, al management delle flotte, all’ottimizzazione delle catene di fornitori.

Ma altra benzina sul fuoco l’ha gettata solo dieci giorni dopo la nuova responsabile degli acquisiti del Dipartimento della Difesa Ellen Lord, quando ha fatto risalire la causa prima di uno stop all’accettazione di nuovi esemplari dell’F-35 (ci si era accorti che i rivetti che fissano i pannelli di composito alle strutture metalliche si corrodono facilmente) all’approccio un po’ “sonnolento” (“a bit of sloppiness”) dell’industria al tema del rispetto dei requisiti costruttivi.

 

Propaganda e realtà

La questione è molto seria. Così seria che l’Aeronautica statunitense ha avanzato una richiesta tanto perentoria quanto provocatoria: i costi del supporto del Joint Strike Fighter devono abbassarsi al livello di quelli dei caccia di quarta generazione che sostituirà, l’F-16 in testa. Missione assolutamente impossibile, almeno nel breve-medio termine – non fosse altro per la grande differenza nei volumi di produzione.

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L’obiettivo originario del programma JSF era di ottenere risparmi tangibili rispetto ai caccia cosiddetti “legacy”; uno studio del 2003 del Centro Militare di Studi Strategici italiano rimarcava come l’aereo fosse reclamizzato “anche per la sua facilità di manutenzione”.  Ma strada facendo il “sistema F-35” si è rivelato ben più complesso del previsto/promesso, facendo “scoprire” che supporto e ora di volo costavano molto di più – del 40 per cento rispetto all’F-18 per le due versioni navali. Con un colpo di spugna su 15 anni di aumenti costanti, l’Air Force americana adesso chiede di tornare ai livelli teorici (utopistici?) di allora. Come, è tutto da capire.

Nessuno rende mai pubbliche cifre circostanziate e/o veritiere su questi costi, figuriamoci con il Joint Strike Fighter. Sono costi “elastici”, nel senso che non c’è mai un mix univoco fra le voci di costo fisse e quelle variabili. Il generale Jerry Harris, vice-Capo di Stato Maggiore dell’USAF responsabile della pianificazione, ha dichiarato che un’ora di volo con la versione convenzionale dell’F-35 costa 50.000 dollari: è più del doppio di un F-16 e in ogni caso il 30-40 per cento in più di quello che era stato reso pubblico finora.

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C’è comunque un dato statistico che aiuta a capire: le stime del life-cycle cost dell’aereo sono cresciute costantemente del 23,9 per cento dal 2012 al 2016, e il trend non accenna a cambiare. Una crescita in qualche modo difficile da “tracciare” già al presente. Per dirne una: Lockheed Martin ha ricevuto alla fine di aprile un contratto di 1,4 miliardi di dollari per fornire nell’arco di un anno fiscale tutta un serie di servizi inerenti il sustainment. Secondo quanto riporta Defense-Aerospace.com, tutti gli operatori dell’F-35 si troverebbero ora tra capo e collo altri 5 milioni di dollari da sborsare per ogni aereo ricevuto finora (11 per l’Italia), aggiungendoli alle spese per manutenzione e quant’altro già contrattualizzate all’atto dell’acquisto.

Il Pentagono è deciso a prendere il toro per le corna, ma il “più grande programma militare della storia” non si farà domare tanto facilmente. A questo proposito vale la pena di rinfrescare un po’ la memoria:

  • Nel novembre 1996, quando Lockheed fu prescelta assieme a Boeing per competere nel programma, si stabilì che i costi di sviluppo e produzione del JSF ne avrebbero assorbito il 60 per cento, quelli operativi e di sostegno il restante 40. L’obiettivo era ambizioso, troppo ambizioso, ma era la miglior cartina di tornasole (e al tempo stesso il presupposto fondamentale per centrarlo) per convincere gli alleati a ordinare il nuovo aereo americano in gran numero, dopo aver contribuito al suo sviluppo.
  • Ancora dieci anni dopo un rapporto al Congresso riferiva le promesse del Pentagono di contenere i costi di manutenzione grazie alla grande “commonality” delle tre versioni dell’aereo, le quali ahinoi s’è “scoperto” essere invece molto differenti.

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  • Nel maggio 2010, il DoD tentò di sottoporre anche il programma JSF al piano di razionalizzazione infrastrutturale dell’Air Force, a sua volta parte di più generali “Pentagon Efficiency Initiatives”. Fu conseguito qualche risparmio, ma non si riuscì a fare previsioni per una riduzione dei costi del complesso apparato di supporto che le flotte di F-35 richiedevano.
  • Nel 2013 l’Ufficio di programma – che ha una responsabilità diretta nella gestione del sistema di sostegno logistico ALGS – aprì una “Cost War Room”, dandosi l’obiettivo di ridurre almeno 48 voci di costi del sustainement. Gli allarmi di cinque anni dopo fanno pensare che da quella stanza non siano usciti grandi risultati.
  • Nel 2014, con 115 aerei di serie in linea, il Government Accountability Office calcolò che le proporzioni del 1997 si erano più che ribaltate: sviluppo e produzione assorbivano il 27 per cento dei costi totali, quelli operativi e di sostegno il restante 73. Altri calcoli del GAO non lasciavano scampo: i costi di sostegno dell’F-35 risultavano superiori del 79 % a quelli dei caccia della precedente generazione. Quello stesso anno il Dipartimento della Difesa affermava che “si continua a siluppare e a mettere in linea un aereo senza sapere se le nostre forze armate potranno poi permetterselo”.
  • Anche per questo, sempre nel 2014, l’Ufficio di programma avviava 200 iniziative per rivedere e migliorare manutenzione e supporto in generale. Altra fatica frustrata.

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  • Nel 2015, l’allora capo del programma generale Chris Bogdan promise che si sarebbe rimediato ai falsi allarmi di avarie/parti da sostituire che il sistema informatico ALIS lanciava ormai da anni. Tre anni dopo i falsi allarmi continuano, come documenta l’ultimo rapporto del DOT&E. Il problema – che ha pesanti effetti a cascata – si spera verrà risolto con la versione 3.0 di ALIS attesa (e da cominciare ad acquistare) entro quest’anno.
  • Riguardo le questioni della produzione, all’inizio di quest’anno l’Ufficio di programma ha lanciato un’indagine fra le 100 maggiori industrie che con le loro forniture contribuiscono per l’85 per cento al valore dell’aereo. Entro settembre conta di disporre di un database che riporti ogni singolo costo, dal più infinitesimale rivetto all’ala completa. “Ho bisogno di capire quanto costa esattamente costruire un F-35”, ha ammesso con inconsapevole candore il successore di Bogdan, il contrammiraglio Mathias Winter. Si verificheranno e si correggeranno, abbassandoli, i costi di ogni fornitura, per altro già passate sotto le “Forche Caudine” del “Best value” (che ne sarà delle briciole raccolte dalle nostre aziende?); se ne eleveranno i ratei di produzione e i tempi d’arrivo sulle catene di montaggio (dove oggi sulle 8 ore dei turni di lavoro, mediamente 3 e mezza passano nell’attesa dei componenti da montare).

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  • Solo poche settimane fa, lo stesso Pentagono ha avviato il processo di dismissione dell’Ufficio di programma: l’intera gestione del JSF – ma ci vorranno almeno dieci anni – verrà affidata ai tre services americani (USAF, US Navy e US Marine Corps). Come si sa, il Joint Program Office fa da tramite anche per i partner internazionali fra lo stesso DoD e i costruttori dell’aereo, sovraintendendo nel caso dell’Italia anche alla FACO/MRO&U di Cameri (dove il 24 aprile, rischiando vari imbarazzi fra Difesa e DoD amrericano, era atteso uno sciopero per l’estrema precarizzazione di gran parte del personale, protesta poi rientrata grazie ad alcune rassicurazioni di Leonardo). Questo significa che a gestire i rapporti di Aeronautica e Marina con i fornitori industriali di quel 50 per cento del sustainment dei propri aerei, saranno le forze armate USA. Uno scenario nuovo e di primo acchito un po’ inquietante, comunque tutto da decifrare.

 

Il Pentagono fatica a pianificare. Figurarsi gli altri

 Come ha giustamente osservato un alto ufficiale dell’Air Force, il supporto tecnico è la parte meno “sexy” degli aerei da combattimento. E’ vero. Quando chi scrive andava in visita ai reparti di volo, ogni volta si sorbiva questo pistolotto dal comandante: “Voi vi interessate dei piloti, dei loro voli, ma non dedicate la stessa attenzione a tutto ciò che sta prima e dietro quelle missioni”. Nell’F-35 tutto è sexy, anche il “prima e dietro”; ma è una seduzione difficile. Checché se ne dica e se ne scriva, bisogna attingere le notizie da oltre Atlantico, tutt’al più dalla Gran Bretagna, il più trasparente fra i partner.

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Se l’America fatica a pianificare una strategia capace di controllare e ridurre dei costi di sostegno degli F-35 – un’incapacità estesa attualmente a tutti i suoi programmi maggiori, favorita/alimentata dalle manovre lobbystico-politiche a favore dei vari fornitori -, ne soffrono tutti, amici e parenti. Se gli ultimi F-35 entrati in servizio costano meno e sono migliori dei primi, sono gli Stati Uniti che studiano anche come pianificare le risorse per il sostegno delle centinaia di esemplari che li seguiranno anche oltre confine.

All’alba del 300° esemplare prodotto, questo aereo da combattimento è ancora immaturo e in parte “sconosciuto” a chi deve fare questi conti: deve accumulare almeno 200.000 ore di volo, traguardo che si pensa di raggiungere solo nel 2024, dopo 18 anni di operazioni. Il Pentagono studierà nuove metodologie di calcolo e quale diverso/migliore utilizzo dei dati lo possa aiutare a rendere il velivolo “affordable”.

Il problema resta il metodo di assegnazione dei contratti, oggi fitti fitti come piovesse; un metodo in qualche modo figlio della complessità intrinseca dei sistemi d’arma avanzati. I 129 esemplari operativi del convertiplano V-22 operano con ben 70 configurazioni diverse di software e hardware, non ce n’è uno uguale all’altro; il Pentagono conta di ridurle a 27 entro il 2027, e a 5 entro il 2030. Ma per far questo, dopo aver pagato quelle 70 configurazioni, servirà un’altra pioggia di contratti.

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Il JSF non fa certo eccezione ai tempi lunghi né ai meccanismi contorti/perversi/quindi enormemente costosi tipici dei grandi programmi che si vogliono “internazionali”.

Ha destato scandalo il fatto che la versione finale Block-3F del suo software abbia avuto (e testato e ri-testato per lungo tempo) ben 31 sotto-versioni prima di arrivare a un regime accettabile, ancorché non rispondente appieno ai requisiti fissati. Ma che male c’è, il sistema è “very, very complicated”, ha detto Stephen Lovegrove, numero due (civile) del Ministry of Defence britannico.

Poi verranno il Block-4, il -5, il -6 e così via. Per il loro sviluppo viene consigliato di procedere a passettini di due-tre mesi, come è stato fatto per l’F-22: sviluppo-provo-valido-procedo col passettino successivo, fino a ottenere un Block coeso e completo. Meno soldi da mettere sotto la voce sustainment – almeno in teoria (per la cronaca, le prime due release del nuovo Block-4, la 4.1 – appena finanziata – e la 4.2, serviranno a correggere nei prossimi anni varie magagne del precedente Block-3F, quello da cui oggi è attesa la Full Operational Capability).

 

Questione di “cost ratio”

Mettiamo in fila i fattori che nell’F-35 determinano costi di sostegno impossibili/inaccettabili a prescindere:

Primo. Sviluppo e produzione, poi sostegno e dopo ancora i processi di upgrade, vanno tutti a braccetto. Bene. Ma “se il cost ratio (indicatore dell’efficienza economica di un investimento; ndr) rimarrà lo stesso di oggi,” dice il nuovo capo del programma, “non potremo garantire il sostegno di questi aerei”. Punto di partenza di quell’indicatore è il famosissimo Recurring Fly-Away Cost (RFAC), cioè quanti soldi la capocommessa Lockheed Martin spende per mettere insieme uno di questi aerei. Non andiamo bene, se il capo del programma dice di voler sapere, a 14 anni dall’avvio delle catene di montaggio, cosa costa davvero mettere insieme uno di questi aerei.

First Royal Australian Air Force F-35A Lightning II Arrives at Luke AFB, AZ, 18 December 2015

Secondo. Se produzione e sostegno sono due anelli della stessa catena, bisognerà riflettere se sugli scali d’assemblaggio avvengono ancora troppe riparazioni, dalla foratura sbagliata di elementi strutturali al montaggio non conforme di componenti, ma anche alla ri-verniciatura se qualche operaio ha inavvertitamente graffiato le superfici “stealth”; tra l’altro – a dirlo è il vice-president per l’F-35 di Lockheed Jeff Babione – è proprio la stealthness la causa di almeno la metà delle problematiche di qualità rilevate dal Pentagono. E’ matematico che col previsto aumento dei ratei di produzione, senza drastiche misure correttive le questioni manifatturiere non si risolveranno, riverberandosi in qualche modo sul “dopo”.

Terzo. Il programma prevede che le attività legate al sustainment vengano affidate per contratto per il 50 per cento alla Lockheed Martin e per la restante metà alle forze aeree acquirenti. Lockheed fornisce il program management, la manutenzione maggiore, la riparazione delle parti, la manutenzione del software, l’engineering; il cliente ci mette il resto, come combustibile, piloti, sistemi d’arma eccetera. Uno share sbilanciato, sicuramente penalizzato a livello di controllo della spesa.

Quarto. Il capo in testa dell’USAF dichiara di avere una “visibilità limitata” su come Lockheed destina i soldi assegnatile dai contratti. Il Department of Defense da parte sua cerca di fare pressione sulla società per ridurre i costi delle voci di loro responsabilità, e del personale che vi è dedicato sulle basi aeree. Vale anche per la base italiana di Amendola, dove i team di Lockheed provvedono a quel 50 per cento?

CF-02 Flt 596 piloted by Mr Peter Wilson flies the final System Development and Demonstration (SDD) test flight for the F-35. The was flwon from NAS Patuxent River, MD on 11 April 2018

Quinto. Il Pentagono fatica ad avviare una competizione fra i vari fornitori di sistemi e parti di rispetto e quant’altro attiene al sostegno tecnico-logistico. Solo una sana concorrenza potrebbe portare a una riduzione dei costi. Ma c’è un problema: i “main contractor” del programma (Lockheed, Northrop Grumman, Pratt & Whitney) non sono disposti a cedere i loro diritti di proprietà; e se fossero costretti a farlo, magari anche con azioni legali nei loro confronti, il Department of  Defence dovrebbe sobbarcarsi nuovi costi ritenuti “inaccettabili”.

Ciò nondimeno per la Difesa USA, e per tutte le altre, non ci sono altre strade. Ad aprile il DoD ha comunque avviato una completa revisione dell’attuale catena di fornitori per capire che cosa non va nei loro costi, come ridurre le difettosità riscontrate sul materiale consegnato, e come ovviare a tutto questo.

La ricetta sta appunto nella ricerca di altri “competitor” più affidabili e più economici. Impresa assolutamente complessa ma che ha già dato un primo frutto: Lockheed Martin avrebbe tolto il DAS – il sistema di sensori elettro-ottici all’infrarosso che dà al pilota una visione completa delle minacce attorno all’aeroplano – al fornitore “storico” Northrop Grumman per darlo alla più economica Elbit israeliana. Viene da chiedersi se almeno parte di questa importante fornitura non avrebbe potuto essere assegnata al “ramo” elettronico della italiana Leonardo, anch’esso in possesso dello skill tecnologico necessario.

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Sesto. Deve cambiare anche la contrattualizzazione per la manutenzione. Attualmente e fino al 2021, quando secondo la pianificazione riportata dalla relazione della Corte dei Conti avremo ordinato i primi 22 aeroplani (17 F-35A e 5 F-35B), i pacchetti di manutenzione e supporto logistico-operativo degli aerei sono compresi nei contratti d’acquisto annuali, che per forza di cose sono più onerosi di quelli che saranno firmati quando verrà avviata la produzione pluriennale e partirà in parallelo il più efficiente regime di supporto e manutenzione “performance-based”.

Secondo questo approccio, già seguito per esempio con l’Eurofighter – che per inciso ha imboccato da un po’ la strada di una riduzione dei pesanti oneri di sustainment -, il fornitore sarà vincolato al raggiungimento di determinati livelli di performance del sistema d’arma, grazie anche all’inserimento di incentivi e penali nei contratti.

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Il contractor in definitiva non “vende” prodotti o servizi specifici, ma risultati, come la disponibilità di sistemi o materiali, la prontezza dell’addestramento, eccetera.  Il GAO spiega che per l’F-35 i primi due contratti-pilota di questo tipo non hanno dato grandi risultati, complice il fatto che i diversi segmenti del “sistema sostegno” sono così integrati che la crisi di uno provoca effetti su tutta la catena.

Inoltre, dice sempre il GAO, i tre service americani (soprattutto i Marines con i loro F-35 STOVL) non sanno spiegarsi come mai, assegnata nel loro budget una determinata quota per il sostegno dei loro aerei, il consuntivo del DoD riporta aumenti del 30-40 per cento. I pezzi di ricambio stanno continuamente rincarando, ma questo non basta a dar conto ai generali di queste differenze. Il timore, visto anche l’inadeguato scambio di informazioni fra le forze aeree e l’Ufficio di programma, è che si rischi di pagare il contractor più del necessario.C’è anche da noi questo timore?

 

Cosa si dice in Italia

Gran Bretagna, Australia e Italia, riporta l’agenzia di stampa Bloomberg, condividono tutte queste preoccupazioni. Lo stesso capo dell’Air Force Goldfein, si apprende “ca va sans dire” ancora dagli Stati Uniti, ha detto di avene parlato con i tre partner.

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A marzo avevamo chiesto dei chiarimenti allo Stato Maggiore dell’Aeronautica, al Segretariato Generale della Difesa-Armaereo e infine allo stesso Gabinetto del Ministro. Volevamo sapere qualcosa sui costi che l’Aeronautica sta sostenendo per la prima mezza dozzina di F-35A in linea da oltre un anno, visto che le stime americane parlano di costi ben maggiori di quelli dei caccia legacy. A questo proposito chiedevamo se si poteva già fare qualche raffronto, per quanto molto relativo, con i costi della linea Eurofighter.

Volevamo poi avere una conferma del fatto, riportato da un quotidiano nazionale, che l’aggiornamento allo standard successivo degli F-35 già acquisiti e in via di consegna ad Aeronautica e Marina, vale a dire al citato Block-4, o C2D2 (Continuous Capability Development and Delivery) che dir si voglia, ci costerà decine di milioni di dollari a esemplare da aggiungere ai circa 150 complessivi già sborsati.Questo perché l’Ufficio di programma, mentre ad agosto aveva imposto per il Block-4 un costo di circa 3,9 miliardi di dollari, il mese scorso aveva dichiarato al Congresso un prezzo finale (?) di 10,8 miliardi per lo sviluppo, più altri 5 per l’acquisizione. Praticamente quadruplicato.

Dopo lunghi tentennamenti da fonti qualificate sono arrivate alcune risposte, per la verità più a carattere generale che nel merito effettivo delle domande. Eccole.

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  • Tutta la parte maintenance degli F-35 è assolutamente commisurata allo sforzo che è richiesto in questo momento all’Aeronautica. I costi di sustainment sono in linea con quelli pianificati. Non ci sono carenze dal punto di vista logistico, gli F-35 italiani stanno volando tanto, e stanno volando bene, con un grado di efficienza superiore alle aspettative; un’ottima efficienza si registra anche nella parte “synthetic”, cioè nelle procedure a terra che preparano alla missione.

Non ci sono in definitiva preoccupazioni per il sustainment né criticità che abbiano imposto revisioni dei piani attuativi, logistici e operativi predisposti a suo tempo per la nuova linea F-35. Questo perché il sistema d’arma ha risposto bene nel suo complesso ai budget pianificati. Si conferma la validità di decisioni e conseguenti azioni sul piano della pianificazione come l’accorpamento delle due flotte dell’F-35B STOVL dell’Aeronautica e della Marina in un unico Gruppo Joint su un’unica base, Amendola.

  • Dal punto di vista logistico, ora come ora Amendola – dove è attesa una parte dei 4 aerei schierati in USA per l’addestramento – potrebbe ospitare il doppio dei (cinque – ndr) aerei che schiera attualmente. E’ stata implementata una catena logistica che ha già dato dei frutti. Tra l’altro Amendola è la sola base aerea europea certificata per operare aerei da combattimento di quinta generazione con, tra gli altri, i richiesti standard di sicurezza. Al punto che vi si terrà il primo Tactical Leadership Program anche per gli F-35 britannici, olandesi e norvegesi. A breve partiranno i lavori per qualificare sul nuovo aereo anche la base di Ghedi.

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  • In ogni caso, si riconosce, bisognerà in seguito verificare, per effetto della globalizzazione del sustainment, quanti oneri ricadrebbero sugli altri partner del programma da una’eventuale riduzione dei volumi di produzione in serie del velivolo; viene citato il caso della Turchia (cui Washington vorrebbe sospendere la fornitura dei previsti 100 F-35A a causa del “flirt” con la Russia che ha portato all’acquisto dei sistemi da difesa aerea S-400; ndr). Le economie di scala nel sustainment verrebbero ridotte di conseguenza. Occorrerà quindi stabilire quanto è/sarà “affordable” l’attore principale di quella globalizzazione, il sistema logistico integrato ALIS, a seconda di quanti ordini riceverà.
  • La Difesa ha comunque ben chiari i vantaggi del sistema ALIS. La sua integrazione a livello internazionale consentirà all’F-35 di un Paese X di atterrare sulle basi di un Paese Y trovandovi, grazie proprio ad ALIS, tutto il sostegno che riceverebbe in patria, e da tecnici di manutenzione col medesimo livello di abilitazione dei suoi.

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  • In Italia questo sistema funziona, né potrebbe essere altrimenti, perché senza di esso l’aereo non può volare. Tuttavia è ancora in fase di test, o meglio, cresce step by step con le nuove patch di software, installate con assoluto parallelismo anche sull’aereo. La piena implementazione di ALIS arriverà però in Europa via Gran Bretagna per il sostegno logistico dell’intera flotta europea (ruolo che il Pentagono aveva promesso all’Italia, ma sappiamo com’è andata; ndr). Al momento l’afflusso di pezzi di ricambio e le attività riparative sugli F-35 italiani non danno preoccupazioni, ad Amendola si lavora con procedure e sistemi manutentivi ancora di tipo classico ma che assicurano le compliance richieste, consentendo di non avere aerei fermi per la mancanza di pezzi di ricambio.

 

Due diverse linee, due diversi sistemi di sustainment

Insomma niente numeri, e va bene, ma neppure nessun stima, nessun confronto. Nemmeno la conferma di quella supposta, enorme spesa extra per aggiornare gli aerei col Block-4.

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Ma qualcosa è stato detto, affermando che contrariamente a quanto si è appreso di recente presso altri utilizzatori, l’Italia non teme una possibile “insostenibilità del sostegno” dei suoi nuovi stealth.

Nel frattempo dal 1° marzo l’Aeronautica Militare, con l’entrata dei suoi primi F-35A nel Servizio di Sorveglianza dello Spazio Aereo nazionale, si permette il lusso di schierare non più uno (l’Eurofighter) ma due diversi intercettori. I Typhoon stanno facendo gli straordinari (“Air Police” nei Balcani e nel Baltico), ma l’ipotesi che i JSF in questa fase preliminare di operatività debbano fare loro da spalla, appare abbastanza suggestiva. I nostri F-35A montano d’allarme per il servizio QRA (Quick Reaction Alert) in forza evidentemente di una “limited combat readiness”, ma la cosa a qualche impudente osservatore è sembrata sbandierata anzitempo; o forse no, al tempo giusto: l’annuncio della prontezza per i QRA è stato dato il 5 marzo, il giorno dopo le elezioni politiche.

L’ammontare dei fondi per l’Esercizio per i bilanci della Difesa di quest’anno e dei prossimi due, resta piatto: poco più di 1,2 miliardi per tutte le Forze Armate. Basteranno per una Difesa-Cenerentola che si concede due distinte linee di aeroplani da combattimento “swing-role/multirole”, a cominciare proprio dal sostegno tecnico e operativo? Saranno sufficienti, quando nel 2020 il 32° Stormo Caccia dell’Aeronautica dovrà tenere in efficienza una decina abbondante di queste nuove “very, very complicated platform”?

Source: GAO analysis of DOD data. | GAO-18-75

Foto Lockheed Martin, US DoD e Difesa.it

 

Table: Key Department of Defense (DOD) Challenges for F-35 Aircraft Sustainment

Key challenge Description
Limited repair capacity
at depots
DOD’s capabilities to repair F-35 parts at military depots are 6 years
behind schedule, which has resulted in average part repair times of 172
days—twice the program’s objective (see figure 1).
Spare parts shortages Spare parts shortages are degrading readiness. From January through
August 7, 2017, F-35 aircraft were unable to fly about 22 percent of the
time due to parts shortages.
Undefined technical
data needs
DOD has not defined all of the technical data it needs from the prime
contractor, and at what cost, to enable competition of future sustainment
contracts. Technical data include the information necessary to ensure
weapon system performance and support.
Unfunded
intermediate-level
maintenance
capabilities
The Marine Corps’ initial F-35 deployments on ships in 2018, and
potentially the initial ship deployments for the Navy, will not include
required intermediate-level maintenance capabilities. Such capabilities
provide a level of support between the squadron and the depots, so that
repairs can be done at sea. DOD has identified initial intermediate
capabilities that it plans to implement, but funding to do so is not yet in
place.
Delays in ALIS
development and
uncertain funding
The Autonomic Logistics Information System (ALIS) is a complex system
supporting operations and maintenance that is central to F-35
sustainment, but planned updates will likely be delayed, and requirements
for ALIS development are not fully funded.

Source: GAO analysis of DOD data. | GAO-18-75

 

Silvio Lora LamiaVedi tutti gli articoli

Nato a Mlano nel 1951, è giornalista professionista dal 1986. Dal 1973 al 1982 ha curato presso la Fabbri Editori la redazione di opere enciclopediche a carattere storico-militare (Storia dell'Aviazione, Storia della Marina, Stororia dei mezzi corazzati, La Seconda Guerra Mondiale di Enzo Biagi). Varie collaborazioni con riviste specializzate. Dal 1983 al 2010 ha lavorato al mensile Volare, che ha anche diretto per qualche tempo. Pubblicati "Monografie Aeree, Aermacchi MB.326" (Intergest) e con altri autori "Il respiro del cielo" (Aero Club d'Italia). Continua a occuparsi di Aviazione e Difesa.

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