F-35 italiani: i dilemmi della “rimodulazione”

Rimodulare, cioè “variare, regolare nuovamente un’entità, una risorsa, un importo in base a sopravvenuti obiettivi o esigenze”. Così recita la Treccani a proposito di quello che il Governo intende fare con il programma F-35, rinegoziando con gli Stati Uniti la parte che manca al completamento della flotta di F-35. Messi in hangar 28 aerei – gli ultimi giungeranno a cavallo fra il 2022 e il 2023 – sul totale di 90, c’è da decidere una buona volta che cosa faremo dopo, cioè come, quando e con quanti denari completeremo la commessa con i rimanenti 62 aerei. Che una parte della maggioranza e dello stesso esecutivo vorrebbe ridurre, e l’altra no.

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A ridiscutere in qualche forma il piano di ordini e consegne ai reparti sta pensando persino, e nientemeno, che il primo e più grande committente del JSF, la Air Force americana, interessata a un totale di 1.763 esemplari della versione a decollo convenzionale. Per un motivo molto semplice, che ribalta un detto popolare: meglio una gallina domani che un uovo oggi.

La gallina è l’F-35 sottoposto a uno svecchiamento-aggiornamento a 360 gradi con un programma denominato Block-4. Il capo del programma JSF Viceammiraglio Mathias Winter parla di “modernizzazioni, accrescimento di capacità, miglioramenti”. Un maxi-upgrade caldeggiato da tempo dai responsabili del programma, con Congresso e Corte dei conti (il GAO) che hanno lottato – inutilmente – per farlo passare come un programma militare “maggiore” a sé stante, da gestire e controllare come tale coi tempi e modi richiesti.

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Un programma figlio delle peculiari dinamiche industriali e politiche delle grandi forniture americane, che trovano giustificazione nella necessità di una costante crescita “incrementale” dei sistemi d’arma, anche se sono già super-avanzati: ti sviluppo un sistema con un certo base-line capacitivo che soddisfa già molto bene le tue esigenze, poi ti obbligo (con una fidelizzazione del tuo sistema-paese) a comperare anche tutto quello che serve a aumentarne le prestazioni. E’ la filosofia corrente bellezza, frutto di una combinazione di interessi che fa, prima di tutto, quelli delle grandi industrie capo-commesse.

Ora viene spiegato che bisogna rimediare al più presto all’obsolescenza di componenti e interi sistemi vitali del super-caccia statunitense, sviluppati con tecnologie e metodologie anche di “testing” superate in 20 anni di gestazione. Insomma, bisogna mettere in grado il campione della quinta generazione dei velivoli da combattimento di conservare la sua superiorità sui nuovi “scudi” messi a punto da avversari, Russia e Cina, contro i quali bisogna fare fronte comune.

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Costo dell’impresa: almeno 16 miliardi di dollari, quasi il 20 % dei quali a carico dei paesi partner (vediamo più avanti il dettaglio della spesa).

Le modifiche previste sono ben 53, in parte – l’abbiamo già rimarcato in passato – indispensabili per rimediare ad anomalie e deficienze nell’hardware e nel software, correggendo difetti (111 quelli “critici”, sostiene il Government Accountability Office) che sviluppo e dimostrazione (programma SDD) non sono riusciti a eliminare. L’aereo è complesso, si sa, e non bisogna gingillarsi troppo con le sue meraviglie, perché un domani potrebbero non destare più stupore.

 

Centinaia di aerei da “rinverdire”

L’uovo, invece, è l’F-35 con l’attuale configurazione, la Block-3F, che permette sì la piena operabilità ma a un livello stabilito parecchi anni fa. Gli operatori, l’Aeronautica Militare italiana in testa ma poi anche Israeliani e Britannici (questi ultimi coi loro STOVL un tantino meno), sono più che entusiasti dei loro JSF. Ma non basta.

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Fuor di metafora, ora il problema è questo: è meglio aspettare l’F-35 Block-4, ordinabile con contratto finale in una prima versione (dove sono concentrati i rimedi agli attuali difetti) solo a partire dal 2021, oppure ordinare ancora per due anni (2019 e 2020) degli F-35 Block-3F – nel biennio Lockheed Martin conta di costruirne altri 270 – che andrebbero poi retrofittati, con costi/tempi/complicazioni maggiori di quelli richiesti dall’acquisto delle… galline?

Se la prima soluzione sia anche quella che la Difesa italiana ma ancor prima la politica vogliono adottare, non è dato sapere, anche se potrebbe essere proprio l’attendere aerei “migliori” il deus ex machina della rimodulazione e della conseguente rinegoziazione. Però con un inevitabile, pesante rovescio della medaglia: che fine farebbero i ritorni attesi oggi e a breve termine dalle nostre industrie coinvolte nelle forniture (che per il per il medio-lungo termine sperano nella ridistribuzione del lavoro tolto alla Turchia), e poi i requisiti delle due forze armate interessate, soprattutto della Marina Militare?

 

Sette aree di intervento

Vediamolo questo Block-4. Intanto con una ardita capriola si cambierà il “sistema nervoso” del velivolo passando da un sistema avionico/sistemistico “chiuso” a uno aperto – per velocizzare le successive integrazioni di nuove armi e sistemi (per esempio ha un sistema “aperto” il nuovo caccia svedese di quarta generazione e mezzo Gripen E).

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Il passaggio avverrà per gradi, con gli Stati Uniti che comunque non rinunceranno mai del tutto alla “proprietà” di quanto hanno sviluppato “chiudendo” fin dalla sua concezione l’architettura del velivolo.

Il programma, già in corso dall’aprile 2018, verte per l’80 % su nuovi pacchetti di software. Prevede sette aree di intervento, che potranno essere implementate solo con un nuovo (il terzo) “Technical Refresh” delle componenti hardware fondamentali: un nuovo core processor integrato di maggiore potenza, un cockpit con display panoramico con schermi a 4K, e un’espansione dell’unità di memoria.

Questi aggiornamenti sono irrinunciabili se si vuole disporre di aerei a uno stato dell’arte “pregiato” ancora a breve-medio termine. Ma vediamo le aree di intervento previste nel Block-4:

–  integrazione di nuove armi su richiesta di alcuni utilizzatori. Nel dettaglio, il missile aria-aria Meteor da parte della Gran Bretagna, le Small Diameter Bomb II almeno da parte degli USA (e forse anche dell’Italia); il missile aria-aria AIM-9X Block II, che potrà finalmente essere lanciato dalle baie interne e non più dall’ala compromettendo parte della sthealtiness; il missile da crociera norvegese Joint Strike Missile e (verosimilmente ormai non più, dopo la cacciata di Ankara dal programma) un missile stand-off turco). In più, integrazione della bomba nucleare tattica B.61-12;

– 13 update nei sistemi di guerra elettronica di bordo;

– 7 modifiche ai sistemi destinati a interoperabilità e networking con altre piattaforme;

– 7 upgrade al cockpit – il già citato display panoramico – e ai sistemi di navigazione;

– 11 miglioramenti del radar e dell’altrettanto decisivo sistema di acquisizione e puntamento bersagli EOTS, superato (non da oggi) nelle prestazioni dai pod esterni dell’ultima generazione montati sui caccia di quarta generazione;

– infine 9 interventi su altrettante inefficienze e/o precoci invecchiamenti di vari sistemi, che per le difficoltà di implementazione non erano stati compresi nella configurazione Block-3F. Da parte sua poi anche il motorista Pratt & Whitney introdurrà modifiche e miglioramenti al propulsore F-135.

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Il programma sarà suddiviso in 4 sotto-Block, 4.1, 4.2, 4,3 e 4.4, con il secondo e il quarto che riguarderanno principalmente interventi sull’hardware. Il rilascio dei nuovi software sarà programmato sulla base di una modalità denominata “Continuous Capability Development and Delivery” (C2D2), tesa ad assicurare un costante aggiornamento al velivolo.

Lo stesso processo adottato da altri aerei, come l’Eurofighter o l’americano F-22. Niente di scandaloso, se non fosse che il C2D2 per l’F-35 impone che ogni sei mesi si debba mettere mano al portafoglio per incamerare sempre nuovi ma limitati pacchetti di software, sperando che, come è stato promesso, si possa risparmiare rispetto ai più tradizionali rilasci bi-triennali, più corposi e stabili; e se non parlassimo di un aereo da combattimento super-ultra che deve già essere vitaminizzato con modifiche tanto estese da far dubitare i soliti maligni prevenuti che quello in linea ormai in centinaia di esemplari non valga tutti i soldi che costa.

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C’è poi un altro elemento critico nell’architettura del Block-4, ed è una vecchia conoscenza del programma JSF. Parliamo della “concurrency”, cioè della parziale sovrapposizione fra sviluppo e produzione, che anziché accorciare i tempi del programma alla fine li allunga. In questo caso la concurrency riguarderebbe alcuni software destinati a elementi di hardware con tempi di sviluppo diversi. Il risultato? Come al solito, ritardi e costi che aumentano, con penalizzazioni a cascata su tutto il ciclo di sviluppo e dimostrazione degli upgrade.

 

L’Italia può permettersi questo sforzo ulteriore?

Secondo la consuetudine, a questo primo mega-svecchiamento/aggiornamento del JSF ne seguiranno altri nel tempo (Block-5 dal 2024 al 2028, Bolck-6, -7 e via così), più o meno altrettanto impegnativi. La gradualità degli interventi fa sì che già che con il Block-4 si comincino a testare armi di bordo a energia diretta, da implementare poi nella metà/fine del prossimo decennio. L’approccio incrementale pare la strada obbligata, ma bisogna pur sperare (e/o in qualche modo pretendere) che gli upgrade non si carichino di eccessivi “arretrati” ereditati da gestioni sbagliate del lavoro pregresso.

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L’elevato impegno economico di un grosso lavoro di revisione del “sistema F-35” (c’è di mezzo anche il sistema ALIS) al quale, con le logiche fin qui seguite, l’Italia non può sottrarsi, avrà effetti sugli stanziamenti che la Difesa deve chiedere per proseguire il procurement di questi aeroplani.

La disponibilità complessiva della cinquantina abbondante di interventi del Block-4 (sempre che qualcuno non venga posticipato al Block-5) è attesa per la fine del 2024. Ogni utilizzatore potrà decidere cosa vuole acquistare subito e cosa in un secondo tempo. L’Ufficio di programma, assicura l’ammiraglio Winter, “metterà in campo la flessibilità richiesta per soddisfare ogni esigenza”.

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Va da sé che per i suoi F-35A e F-35B STOVL l’Italia non potrà fare a meno dei miglioramenti al radar, agli apparati di guerra elettronica/comunicazione/navigazione e a un nuovo sistema EOTS più al passo coi tempi. Come dire, dell’intero “core” del Block-4. Diversamente, disporrebbe di un velivolo di “seconda scelta” nei pacchetti integrati di JSF che gli Stati Uniti o la NATO o chi per loro a livello Unione Europea, volessero dispiegare in caso di conflitto.

Se non ci potremo permettere il retrofit di decine di F-35 Block-3F al nuovo standard (come è successo, con bilanci della Difesa meno risicati, con l’aggiornamento della linea AMX), ci ritroveremo con una flotta di F-35 – anzi due, c’è anche quella imbarcata della Marina – F-35 con configurazioni assai diverse dal punto di vista prestazionale.

Un solo esempio: come potranno rilanciarsi dati e file a vicenda (o a piattaforme collaboranti) aeroplani col radar dotato di una funzione Synthetic Aperture Radar – quella che mappa il territorio con immagini ad alta definizione – del tipo più basico del Block-3F e altri che sfruttano il ben più capace e preciso Super-SAR del Block-4?

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Come riusciremo a gestire le logistiche avendo una linea relativamente poco numerosa con aeroplani un po’ “sorpassati” accanto ad altri (più) all’ultimo grido, e con il corollario delle inevitabili e non poche (prassi tipicamente americana) sotto-configurazioni differenziate per effetto delle scadenze ravvicinate degli aggiornamenti del software? Oltre che con gli AMX è successa la stessa cosa con Tornado e Typhoon. Ma par di capire che a confronto siano state rose e fiori, anche perché, pur litigando da mane a sera, “ce la vedevamo in casa”, non con il massimo fornitore del Pentagono.

Rinunciare alla maxi-cura non è possibile. In caso contrario, oltre ai militari soffrirebbero anche le nostre industrie, estromesse, pur nei limiti in cui sono obbligate a operare dal programma USA, da una nuova stagione di innovazione tecnologica.

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Last but not least, le stime della spesa. Il Pentagono pensa a un costo complessivo del programma pari a 10,6 miliardi di dollari. 7,3 se li accolleranno gli Stati Uniti e i restanti 3,3 i paesi partner. Il Government Accountability Office a marzo parlava invece di oltre 16 miliardi: 10,8 per sviluppo e collaudi, 5,4 per l’acquisto delle 53 modifiche. I partner dovranno assicurare un terzo abbondante dei costi di sviluppo e testing: 3,7 miliardi di dollari.

Proviamo a buttare giù qualche cifra per il partner Italia. I 3,7 miliardi di dollari vanno divisi, per ora, fra sei Paesi (oltre al nostro la Gran Bretagna, l’Olanda, la Norvegia, la Danimarca e l’Australia; la Turchia è fuori e il Canada è ancora tra color che sono sospesi). Fanno mediamente 616 milioni a testa, da spalmare sui 5 anni del programma. Arrotondiamo un po’ per eccesso, visto che avremo la seconda flotta europea di F-35 più numerosa dopo i Britannici, e concludiamo che l’Italia avrà un impegno di almeno 750 milioni di dollari, sempre non tenendo conto del procurement. Cifra un po’ inferiore all’impegno annuale di spesa per il JSF preventivato dall’ultimo Documento di Programmazione Pluriennale della Difesa per l’anno venturo, e più vicina a quello per il 2021.

Alla fine, saltano fuori 150 milioni di dollari (136 di euro) in più per ciascuno dei prossimi 5 anni. Senza contare i costi per il successivo acquisto dei pacchetti Block-4.

Foto Difesa.it e Lockheed Martin

 

Silvio Lora LamiaVedi tutti gli articoli

Nato a Mlano nel 1951, è giornalista professionista dal 1986. Dal 1973 al 1982 ha curato presso la Fabbri Editori la redazione di opere enciclopediche a carattere storico-militare (Storia dell'Aviazione, Storia della Marina, Stororia dei mezzi corazzati, La Seconda Guerra Mondiale di Enzo Biagi). Varie collaborazioni con riviste specializzate. Dal 1983 al 2010 ha lavorato al mensile Volare, che ha anche diretto per qualche tempo. Pubblicati "Monografie Aeree, Aermacchi MB.326" (Intergest) e con altri autori "Il respiro del cielo" (Aero Club d'Italia). Continua a occuparsi di Aviazione e Difesa.

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