Se un drone non vale una guerra

Donald Trump alimenta da tempo l’escalation della tensione con l’Iran ma poi la ferma “10 minuti” prima che le forze statunitensi del Golfo scatenino un triplice attacco come rappresaglia per l’abbattimento da parte di un missile iraniano Taer (sistema di difesa aerea Raad) di un drone da ricognizione strategica Global Hawk (forse un MQ-4C Triton della Us Navy.

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Secondo le ricostruzioni Trump è entrato nella Situation Room della Casa Bianca con l’ordine di attaccare ma poco prima di dichiarare conclusa la riunione con gli stati maggiori e i suoi più stretti collaboratori ha fermato tutto, rimandando non annullando, i raid missilistici contro obiettivi iraniani.

“La scorsa notte eravamo pronti a colpire tre diversi siti, quando ho chiesto quante persone sarebbero morte. La risposta di un generale è stata 150 persone”, ha twittato Trump. Così, “dieci minuti prima che partissero i bombardamenti li ho bloccati perché non li ho ritenuti proporzionati all’ abbattimento di un drone senza pilota”.

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Probabilmente nelle valutazioni della Casa Bianca hanno contato anche i calcoli circa la possibile reazione della comunità internazionale a quello che sarebbe apparso come un atto di guerra unilaterale e deliberato.

Gli Stati Uniti hanno aperto la crisi con l’Iran da soli, certo con l’appoggio di sauditi, emiratini ed israeliani ma in opposizione alle altre potenze che avevano sottoscritto l’accordo sul nucleare iraniano, accordo denunciato solo da Washington che non ha saputo peraltro presentare prove certe circa eventuali violazioni dell’accordo da parte di Teheran.

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Inoltre appaiono troppe le incognite circa le potenziali conseguenze di un attacco al territorio dell’Iran che dispone di missili balistici, da crociera e mezzi con i quali bloccare lo stretto di Hormuz e colpire (o quanto meno provarci) i paesi arabi vicini e le basi statunitensi lì presenti, oltre al traffico di mercantili e petroliere dentro e fuori Hormuz.

Teheran dispone poi di buone difese aeree e di capacità forse non del tutto note agli USA, come quella di individuare e abbattere i droni, anche quelli che volano alle quote più alte come il Global Hawk colpito secondo Teheran nei pressi del distretto di Kouhmobarak (provincia di Hormozgan), mentre Washington sostiene che si trovava nello spazio aereo internazionale, a 34 chilometri dal territorio iraniano.

“Porteremo questa nuova aggressione davanti alle Nazioni Unite e mostreremo che gli Stati Uniti stanno mentendo” aveva scritto su Twitter il ministro degli Esteri di Teheran, Mohammad Javad Zarif.

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Del resto non è la prima volta che l’Iran riesce ad abbattere un drone da ricognizione strategica statunitense.

Nel dicembre 2011 un RQ-170 Sentinel, drone “stealth” basato a Kandahar (Afghanistan) cadde nel nord est iraniano probabilmente abbattuto con azioni di disturbo elettronico. Il “Sentinel”, noto in Afghanistan come “la bestia di Kandahar” veniva impiegato presumibilmente per sorvegliare segretamente i siti nucleari iraniani.

Inoltre nei giorni scorsi un drone MQ-9 Reaper statunitense era stato abbattuto nello Yemen dai ribelli Houthi filo-iraniani ed un altro dello stesso tipo era stato attaccato senza successo nel Golfo Persico da missili lanciati da un’unità navale iraniana.

Secondo alcune fonti a rafforzare le titubanze di Trump circa la rappresaglia contribuirebbero anche i dubbi dell’intelligence circa la reale posizione del drone abbattuto, che quindi avrebbe potuto sorvolare lo spazio aereo iraniano. Fa un po’ sorridere il paradosso delle critiche che Trump deve affrontare in patria, incluse quelle di alcuni esponenti del Partito Repubblicano.

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Liz Cheney, figlia dell’ex vicepresidente Dick, ha paragonato la mossa di Trump alla titubanza di Barack Obama sulla Siria nel 2012 e 2013: “Non aver risposto a una provocazione così grave può rivelarsi un errore imperdonabile”.

Critiche simili giungono anche da molti ambienti vicini al Pentagono ma è altrettanto vero che le due amministrazioni di Barack Obama, presidente insignito del Premio Nobel per la pace, hanno effettuato raid aerei prolungati sui territori di diversi paesi senza aver conseguito alcun successo strategico ma uccidendo migliaia di persone inclusi molti cosiddetti “danni collaterali”.  

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Trump del resto ieri sera davanti alle telecamere della NBC si è detto pronto a condurre colloqui con la Guida suprema dell’Iran, Ali Khamenei, oppure con il presidente Hassan Rouhani, senza “precondizioni”.

A conferma forse dell’ipotesi che l’oibiettivo della Casa Bianca è portare la tensione con l’Iran alle stelle abbinando minacce militari a sanzioni economiche, con l’obiettivo di obbligare Teheran a negoziare, non per giungere a uno scontro armato su vasta scala.

Resta pur vero che il tempo per negoziare stringe, soprattutto dopo che l’Iran ha annunciato che il 27 giugno potrebbe riprendere la sua corsa al nucleare, o quanto meno aumentare unilateralmente i limiti imposti dall’accordo del 2015 in termini di arricchimento e di quantità di uranio stoccate.

Un avvertimento formulato lunedì scorso dal portavoce dell’Organizzazione dell’energia atomica iraniana (Aoei), Behrouz Kamalvandi che costituisce un duro monito all’Europa, che resta fedele all’accordo ma è incapace di fermare gli Usa che hanno denunciato l’intesa faticosamente raggiunta e pretendono di imporre agli alleati (europei inclusi) un embargo petrolifero e commerciale nei confronti di Teheran.

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L’8 maggio scorso, un anno dopo il ritiro unilaterale degli Stati Uniti dall’intesa, Rohani aveva dato ai Paesi firmatari (Regno Unito, Francia, Germania, Cina e Russia) 60 giorni per attuare le loro promesse in favore della stremata economia iraniana, pena la rottura anche da parte iraniana dell’accordo.

Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha già avvertito che in caso di ritiro iraniano dall’accordo dovranno essere adottate sanzioni immediate mentre i firmatari europei (Germania, Francia e Gran Bretagna) hanno chiesto a Teheran di non violare l’accordo, che tutti gli organismi internazionali ritengono l‘Iran abbia finora scrupolosamente rispettato.

Gli Usa appoggiati da sauditi, emiratini ed israeliani sostengono che l’Iran potrebbe aggirare l’accordo in base al quale rinuncia al nucleare a uso militare, dotandosi comunque di bombe atomiche, ma puntano a strangolare l’economia iraniana per rovesciare il regime degli ayatollah.

epa07645392 The crude oil tanker Front Altair on fire in the Gulf of Oman, 13 June 2019. According to the Norwegian Maritime Authority, the Front Altair is currently on fire in the Gulf of Oman after allegedly being attacked and in the early morning of 13 June between the UAE and Iran. EPA/STRINGER

Meglio quindi prendere con le molle la “narrativa” sulle provocazioni iraniane costituiti dagli attacchi alle petroliere verificatisi in maggio in un porto degli Emirati Arabi Uniti e la scorsa settimana a est dello Stretto di Hormuz.

Gli Usa, che continuano a rafforzare la già abbondante presenza militare nel Golfo Persico, si dicono certi delle responsabilità iraniane e con loro i britannici ma molti analisti indipendenti e altri Stati rimangono scettici. In Europa francesi e tedeschi non sembrano credere ai report dell’intelligence anglo-americana.

In Giappone il ministro della Difesa, Takeshi Iwaya, ha reso noto che non invierà forze militari nel Golfo per rispondere quelle che Washington definisce “provocazioni iraniane”. “Il governo giapponese non ritiene necessario dover inviare personale delle Forze di autodifesa nel Golfo Persico  in risposta agli attacchi delle petroliere della settimana scorsa, una delle quelli gestita da un armatore nipponico” ha detto Iwaya.

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A Mosca il vice ministro degli Esteri russo Serghiei Riabkov ha dichiarato che “da tempo siamo testimoni dei continui tentativi degli Stati Uniti di aumentare la pressione politica, psicologica, economica e militare sull’ Iran. Penso che queste azioni siano piuttosto provocatorie e non possano essere considerate in nessun altro modo che come una politica deliberata per fomentare una guerra”.

Certo l’Iran, che dispone dei mezzi navali e subacquei (sommergibili, minisottomarini, incursori, barchini e mine) per attaccare petroliere e per bloccare lo Stretto di Hormuz paralizzandone il traffico ma ha sempre respinto le accuse e non sembra avere interesse a offrire pretesti al nemico.

“Se dovesse deciderlo, l’Iran potrebbe apertamente e completamente ostacolare le esportazioni di petrolio dal Golfo Persico, e per farlo non avrebbe bisogno di alcun inganno o segretezza” aveva detto il 17 giugno il capo di stato maggiore delle forze armate, generale Mohammad Bagheri.

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Nell’attuale contesto l’Iran non avrebbe alcun motivo logico per cercare un casus belli colpendo petroliere in transito, a meno che non intenda mostrare i muscoli e le sue potenzialità offensive e difensive (come nel caso del drone americano abbattuto?) pur rischiando gli effetti di un devastante attacco statunitense.

Non si può infatti neppure escludere che gli attacchi alle petroliere siano stati effettuati dagli avversari di Teheran per addossarne la colpa all’Iran e aumentarne l’isolamento internazionale.

Dopo le “pistole fumanti” sulle armi di distruzione di massa attribuite a Saddam Hussein nel 2003 e dopo il Datagate non pare saggio prendere per oro colato la propaganda di Washington e Londra, pronte ad assumere “tutti i provvedimenti” necessari per garantire la sicurezza della navigazione della regione prendendo in considerazione “tutte le opzioni disponibili” in caso l’Iran non rispetti gli impegni assunti nell’ambito dell’accordo sul nucleare.

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L’incapacità della comunità internazionale di fermare le pressioni degli Usa e dei suoi alleati è quindi la principale causa dell’instabilità nella regione e per queste Teheran minaccia di superare dal 27 giugno il limite per l’arricchimento (attualmente al 3,67%) e la produzione dell’uranio (l’accordo prevede riserve non superiori ai 202,8 chili) al fine di soddisfare le esigenze di carburante per la centrale nucleare di Busher portando l’arricchimento al 5% e addirittura al 20% per un reattore di ricerca scientifica.

L’iniziativa unilaterale statunitense rafforzerà inevitabilmente la determinazione di Teheran a dotarsi di armi atomiche come la Corea del Nord, unico strumento per bilanciare l’arsenale nucleare israeliano e scoraggiare ogni rischio di attacco.

Un simile sviluppo sarebbe inaccettabile per lo Stato ebraico, che per le sue ridotte dimensioni verrebbe cancellato anche da un solo piccolo ordigno atomico, e inoltre determinerebbe la corsa all’atomica in tutto il Medio Oriente.

@GianandreaGaian

Foto: Us DoD, EPA, Irna, The Guardian, AP e Fars

 

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Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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