Ankara pronta a invadere tutto il nord della Siria

(aggiornato alle ore 11,25)

L’operazione è ormai pronta a scattare con il benestare di Washington e nell’apparente indifferenza dell’Europa e delle Nazioni Unite.  Dopo alcuni pattugliamenti congiunti del confine turco-siriano attuati dalle truppe di Ankara e statunitensi il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu, ha annunciato domenica che Ankara è decisa a “ripulire il confine siriano dai terroristi e assicurare la stabilità della Turchia”.

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Lo stesso giorno la Casa Bianca ha reso noto che la Turchia si appresta a invadere la Siria settentrionale. Stephanie Grisham, responsabile della comunicazione della Casa Bianca, lo ha annunciato domenica sera dopo un colloquio telefonico tra il presidente turco Recep Tayyip Erdogan e Donald Trump.

Per cominciare l’attacco le truppe turche sul confine siriano attendono solo il ripiegamento verso sud delle forze statunitensi, “un centinaio di uomini delle forze speciali” secondo un funzionario della Casa Bianca, del migliaio di soldati statunitensi schierati nella Siria Orientale.

Fonti siriane riferiscono che le forze militari turche hanno inviato nelle ultime ore rifornimenti nella Siria settentrionale in un’ area già controllata dai soldati di Ankara e dove sitrovano milizie arabe cooptate dal governo turco.

Secondo l’agenzia di stampa ufficiale siriana, SANA, l’artiglieria turca ha colpito la notte scorsa la regione nord-orientale siriana al confine conl’ Iraq nei pressi del valico frontaliero di Simalka, tra Iraq e Siria, e corridoio vitale per i rifornimenti militari e logistici della Coalizione anti-Isis a guida Usa e per le forze curdo-siriane. Questa notizia non ha trovato per ora conferma da parte turca né dalle autorità curdo-siriane.

La porzione di territorio siriano che Ankara intende conquistare lungo i quasi 500 chilometri tra il fiume Eufrate e il confine iracheno ha una profondità di 32 chilometri, sottraendo di fatto ai curdi siriani e nominalmente alla sovranità di Damasco circa 15 mila chilometri quadrati, l’8% del territorio nazionale.

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Le truppe statunitensi schierate al fianco dei curdi “non sosterranno né saranno coinvolte nell’operazione” e “non saranno più nelle immediate vicinanze”, è stato precisato, cioè nel nord della Siria, quando i turchi daranno il via all’invasione.

Di fatto si sta configurando una gravissima violazione del diritto internazionale che non sembra però determinare reazioni particolarmente accese in Europa o alle Nazioni Unite né richieste di imporre sanzioni ad Ankara mentre gli Stati Uniti sembrano pronti ad abbandonare a sé stesse le milizie curde che comunque hanno annunciato che combatteranno con ogni mezzo l’invasore turco.

Washington tradisce per l’ennesima volta la causa curda, come aveva fatto in Iraq nel 1991 incitando i curdi alla rivolta contro Saddam Hussein e come hanno fatto l’anno scorso quando hanno assistito senza muovere un dito all’offensiva delle truppe di Baghdad e delle milizie scite filo-iraniane che hanno strappato ai curdi i territori che avevano liberato dallo Stato Islamico impedendo l’indipendenza della regione curda.

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Una sonora sconfitta per i curdi di Siria che avevano combattuto lo Stato Islamico al fianco della Coalizione ma, su indicazione di Washington, avevano rifiutato di permettere alle truppe di Damasco di riprendere il controllo dei territori a est dell’Eufrate ricchi di gas e petrolio.

Nel 2017, dopo la caduta di Raqqa e Dei Ezzor, Bashar Assad aveva offerto ai curdi ampia autonomia all’interno dello Stato siriano offrendo di schierare proprie truppe sul confine turco per dare ampie garanzie ad Ankara che da quei territori non sarebbero partiti attacchi contro la Turchia nè filtrati aiuti agli indipendentisti curdi turchi.

Seguendo le indicazioni degli Usa, intenzionati a impedire ad Assad e ai suoi alleati russi e iraniani di riprendere il controllo di tutto il territorio siriano, i curdi rifiutarono quell’offerta e si trovano oggi soli in balìa dell’esercito turco.

Syrian Democratic Forces (SDF) fighters ride atop of military vehicle as they celebrate victory in Raqqa, Syria, October 17, 2017. REUTERS/Erik De Castro

Se Ankara e Damasco possono avere oggi il comune interesse a ridimensionare le ambizioni curde, resta alta ancha la possibilità che i curdi siano costretti a chiedere l’appoggio di Assad per far fronte all’invasiine turca. Mazlum Abdi, comandante incapo delle forze curdo-siriane nel nord-est della Siria, ha dichiarato che le forze curde non escludono di collaborare con il governo di Damasco in funzione anti-turca.

“Stiamo considerando una partnership col presidente siriano Bashar al Assad con l’ obiettivo di combattere le forze turche”,ha detto Abdi.

Erdogan del resto ha ottenuto finalmente il via libera per costituire lungo quasi 500 chilometri di confine siriano quella fascia di sicurezza da anni richiesta agli USA, negata dall’Amministrazione Obama ma oggi concessa da Trump che aspira al più presto a ritirare o ridurre ulteriormente le truppe dalla Siria (dopo non essere riuscito a farlo dall’Afghanistan) affiancate da piccoli contingenti francesi e britannici per favorire la sua rielezione alle elezioni del novembre 2020.

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In queste ore le dichiarazioni di Trump non hanno nascosto una certa dose di cinismo. “I curdi hanno combattuto con noi, ma sono stati pagati con enormi somme di denaro ed equipaggiamenti per farlo. Combattono la Turchia da decenni. E’ giunto il momento per noi di sfilarci da ridicole guerre senza fine, molte delle quali tribali e di riportare i nostri soldati a casa” ha twittato dopo la decisione che le sue forze si sarebbero ritirate dal nord della Siria in vista dell’invasione turca.

“Combatteremo solo dove avremo benefici, e combatteremo solo per vincere. Turchia, Europa, Siria, Iran, Iraq, Russia e i curdi dovranno risolvere la situazione e capire cosa voglio fare con i soldati dell’Isis catturati” ha aggiunto Trump riferendosi ai “foreign fighters” dell’Isis ancora prigionieri delle forze curde che gli Usa avrebbero voluto consegnare ai Paesi di provenienza, inclusi molti europei, in particolare Francia e Germania.

Resteranno in mano ai turchi 12mila prigionieri dell’Isis tra i quali 2.500 foreign fighters e 70 mila loro famigliari: l’obiettivo dichiarato da Ankara è consegnare i terroristi stranieri ai paesi di provenienza (inclusi quelli europei) ma i curdi temono che tutti i jihadisti verranno liberati e in parte inquadrati in milizie ostili ai curdi e ad Assad, così i jihadisti tornerebbero a costituire “una minaccia alla sicurezza regionale e internazionale”.

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La Turchia sta lavorando a una soluzione per estradare “nei Paesi d’origine” i miliziani dell’Isis attualmente detenuti nelle carceri del nord-est della Siria, non appena avrà preso il controllo dell’area” ha detto il presidente turco.

Del resto già negli anni scorsi l’Isis ha ottenuto appoggio dalla Turchia nel combattere i curdi a Kobane e in tutta la regione del Rojava e i jihadisti vendevano proprio in Turchia il petrolio sottratto ai pozzi occupati in Siria e Iraq.

Del resto è evidente che l’invasione turca è una palese violazione della sovranità siriana ed il frutto dell’intesa tra Ankara e Washington (anche se il Pentagono afferma di non sostenerla), cioè un accordo bilaterale privo di legittimazione.

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Le FDS si sono dette pronte a “una guerra totale” in caso di attacco turco. “Qualsiasi azione militare turca intesa come attacco o provocazione ci troverà pronti a una guerra totale” ha dichiarato Mustafa Bali, comandante delle milizie.

“Se ci ritirassimo come vuole la Turchia lasceremmo un vuoto enorme tra i principali centri abitati, che favorirebbe il ritorno dell’Isis”, ha detto Bali. Secondo il comandante FDS, l’accordo tra Ankara e Usa stipulato lo scorso 7 agosto e relativo la costituzione di una “safe zone” estesa dall’est del fiume Eufrate fino al confine iracheno, sarebbe saltato per una disputa relativa la profondità dell’area “tampone” in alcuni punti.

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Ankara è stata irremovibile nel chiedere 30-32 chilometri di profondità (non a caso la distanza utile a scongiurare bombardamenti d’artiglieria sul territorio curdo) mentre il comando delle FDS si era dichiarato disponibile ad accettare di ritirarsi a non più di 14 chilometri dal confine, proprio per evitare un ritorno dell’Isis.

Con queste prospettive la battaglia che si annuncia lungo tutta la fascia di frontiera sarà inevitabilmente più aspra di quelle combattute negli ultimi due anni, quando i turchi hanno conquistato aree più limitate del nord della Siria: la resistenza sarà tenace e i turchi potrebbero soffrire severe perdite, ma l0esito della battaglia appare scontato.

I turchi hanno accettato di attendere il completo ritiro più a sud delle forze statunitensi prima di sferrare l’offensiva mentre le milizie FDS, per quanto combattive e ben equipaggiate, hanno scarse possibilità di uscire vincenti contro l’esercito turco che, a differenza dei curdi, dispone anche di ingenti forze aeree.

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Ankara ha bisogno di controllare una vasta zona di sicurezza in territorio siriano non solo per ragioni di difesa del suo confine e per scongiurare il rischio che nella Siria nord orientale nasca uno Stato curdo, ma soprattutto per potervi trasferire oltre 3,5 milioni di profughi siriani fuggiti in Turchia durante la guerra e la cui presenza avrebbe contribuito alle recenti sconfitte elettorali del partito di Erdogan, l’AKP.

Un progetto di “ingegneria demografica” da 27 miliardi di dollari che prevede di costruire almeno 200 mila alloggi peer accogliere i profughi che provengono però da aree diverse della Siria allontanando i curdi (considerati “terroristi”) dal confine turco.

Considerate le difficoltà finanziarie in cui versa la Turchia è probabile che Erdogan chiede fondi all’Europa rinnovando il ricatto di aprire i confini con Grecia e Bulgaria a ondate di migranti e che per il momento che invece di nuove case ai profughi siriani vengano assegnate le abitazioni abbandonate dai curdi in fuga dai carri armati turchi come è già accaduto in altre località occupate dai turchi a ovest del fiume Eufrate.

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L’obiettivo è trasformare il nord della Siria da una regione curda in una abitata da arabi sunniti, ostili ad Assad e ai curdi, legati alla Turchia per la loro stessa sopravvivenza.

Un piano del resto già attuato da Erdogan, su scala dieci volte più piccola, ricollocando negli ultimi due anni 360 mila profughi siriani nelle aree di Al Bab, Jarabulus e Tel Abyad, a ovest dell’Eufrate occupate dall’esercito turco con l’operazione “Scudo dell’Eufrate” nel 2017 cacciandovi la popolazione curda a cui sono stati requisiti beni e case. In questa regione la presenza turca assomiglia di fatto a una annessione. Il 4 ottobre lo stesso Erdogan ha firmato un decreto che istituisce tre facoltà universitarie nel nord della Siria che dipenderanno dall’ ateneo di Gaziantep, città turca a 75 chilometri da Aleppo: la facoltà di studi islamici ad Azaz, di Scienze dell’educazione ad Afrin e scienze dell’amministrazione ad al-Bab.

Ad Azaz è stato inaugurato anche un ufficio delle poste turche mentre nella provincia che comprende anche le città di Jarabulus e al-Bab, sono stati aperti ospedali e scuole primarie oltre a una scuola per poliziotti e ausiliari del traffico con istruttori turchi.

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Il ricollocamento di 3,5 milioni di persone non è però solo questione di alloggi e infrastrutture e potrebbe trasformarsi in un vero e proprio rimpatrio forzato: un recente sondaggio illustra che il 72% dei profughi siriani non è disposto a tornare Siria e inoltre difficilmente chi verrà trasferito nel territorio oggi in mano ai curdi troverà agevolmente un lavoro.

Infine, la crisi aperta dall’invasione turca del nord siriano consentirà a Damasco di denunciare l’ennesima violazione della sovranità siriana lamentando l’assenza di iniziative della comunità internazionale.

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Mosca ha fatto sapere di non essere stata coinvolta dalla Turchia nella decisione di assumere con le armi il controllo della “zona cuscinetto” lungo il confine facendo così intendere di avere le mani libere per gestire eventuali sviluppi.

Il ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov ha ribadito “la sua ferma posizione a sostegno della sovranità, unità e integrità territoriale della Siria e degli sforzi per sradicare la presenza del terrorismo una volta per tutte”.

L’invasione turca determinerà la fuga di molti civili curdi scampati all’Isis e obbligherà le loro milizie a spostare verso nord il grosso delle forze combattenti per far fronte all’offensiva di Ankara. Di fatto il conflitto siriano, ancora in atto nella sacca di Idlib (ultima roccaforte dei ribelli anti-Assad), vedrà l’apertura di un nuovo fronte con una possibile prolungata conflittualità tra curdi e turchi.

L’indebolimento delle milizie curde, costrette a inviare il grosso delle truppe a combattere nel nord, potrebbe però offrire a Bashar Assad l’opportunità per passare l’Eufrate a Deir Ezzor e riconquistare i territori orientali, non necessariamente in modo ostile rispetto ai curdi che, pressati da due fronti, potrebbero trovarsi nella necessità di giungere questa volta a un’intesa con Damasco.

Un’opzione che potrebbe venire favorita anche dalle scarse truppe statunitensi presenti in Siria e che da domani difficilmente i curdi potranno considerare ancora alleati.

@GianandreaGaian

Foto:  AFP, Reuters, AP, Anadolu e AP Intelligence

 

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Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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