L’Italia pronta a “imporre il cessate il fuoco” in Libia?

Il ministro della Difesa italiano, Lorenzo Guerini, ha espresso la vigilia di Natale a Erbil (Iraq) al Corriere della Sera la necessità che i Paesi europei “impongano il cessate il fuoco” in Libia.

“L’opzione militare in Libia ha dimostrato che anziché risolvere i problemi li ha aggravati. C’è bisogno di una forte iniziativa diplomatica europea che per essere efficace non può che passare anche dall’imposizione di un cessate il fuoco” ha aggiunto Guerini, in visita al contingente italiano schierato in Iraq nell’ambito dell’operazione Prima Parthica.

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Il ministro non ha menzionato l’ipotesi di una “no-fly zone” di cui si discute un po’ confusamente in ambito Ue e che secondo alcune indiscrezioni dovrebbe vedere impegnati caccia tedeschi, francesi e italiani (forse col sostegno di aerei Awacs e tanker britannici) per impedire azioni di guerra aerea su un’area limitata ma finora imprecisata del territorio libico.

Con ogni probabilità si tratterebbe della regione di Tripoli e forse di Misurata, aree maggiormente bersagliate da caccia e velivoli teleguidati che appoggiano l’Esercito Nazionale Libico (LNA) del generale Khalifa Haftar.

L’obiettivo dichiarato è dare il via a negoziati per interrompere i combattimenti ma, come si accennava poco sopra, il progetto è un po’ confuso e non sembra molto credibile.

Intanto occorre intendersi sui termini utilizzati. Imporre il cessate il fuoco significa usare la forza militare. Se occorre “imporre” allora è necessario smetterla di ripetere che non c’è soluzione militare (ma solo politica) alla crisi libica perché in realtà si sta affermando l’esatto contrario.

Aspetto quanto meno curioso tenuto conto che l’Italia si è fatta abbattere il 20 novembre un velivolo teleguidato Reaper dalle difese aeree di Haftar apparentemente senza reagire e, per quanto se ne sa, senza neppure pretendere la restituzione del relitto e degli equipaggiamenti imbarcati.

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Quando il premier Giuseppe Conte afferma, come ha fatto ieri, che “anche una no-fly zone” sulla Libia “può essere uno strumento per raggiungere un obiettivo: la cessazione immediata delle ostilità” si rende conto che interdire con aerei armati anche una sola porzione di spazio aereo a uno o a tutti i contendenti libici è un atto di guerra?  Si può fare, per carità, ma prima di avviare operazioni militari sarebbe meglio dichiararle come tali così come prima di infilarci in una guerra sarebbe il caso di decidere da che parte stare.

Conte ha ribadito che l’Italia “appoggia convintamente l’iniziativa di Berlino. Cerchiamo di dissuadere chi pensa che con mezzi militari si possa raggiungere un risultato” ma se punta sulla no-fly zone allora si iscrive anche lui alla lista di chi punta sulle armi per risolvere quella crisi.

Siamo pronti a tornare a combattere in Libia sotto l’egida della Ue dopo i danni che abbiamo provocato nove anni or sono sotto le bandiere della NATO?

In tal caso qualcuno ci spieghi come vogliamo intervenire e e al fianco di chi ci schieriamo. In attesa di chiarimenti dal governo proviamo a fare qualche ipotesi.  Appare fin d’ora chiaro che si valuti al massimo un’operazione limitata all’impiego di forze aeree, senza cioè quei soldati sul terreno (boots on the ground) che tanto spaventano le cancellerie di un’Europa ornai incapace di combattere persino i terroristi islamici che ha in casa, figuriamoci agguerrite milizie jihadiste oltremare.

Per imporre la fine delle ostilità stiamo quindi valutando di proteggere Tripoli e il governo di accordo nazionale con una no-fly-zone che impedisca l’azione ai velivoli di Haftar?

Questo significherebbe schierarsi con il Governo di accordo nazionale (GNA) e soprattutto al fianco della Turchia che sta inviando i suoi migliori militari (forze speciali e consiglieri) e i suoi peggiori tagliagole (miliziani siriani già distintisi per crimini di guerra a Idlib, Aleppo e nel Rojava curdo) in Tripolitania.

Opzione non proprio in linea con i nostri interessi nazionali e difficile da far digerire ai greci (che a dire il vero dall’Europa hanno già subito fin troppe batoste in questi anni) ma alla stessa Ue che ha condannato il memorandum turco-libico che espande le zone economiche esclusive marittime proprio con l’obiettivo di bloccare il gasdotto EastMed strategico per l’Unione Europea.

In base a queste valutazioni dovremmo quindi schierarci con Haftar e il governo della Cirenaica che con Egitto, Cipro e Israele affianca la Grecia nel condannare l’intesa tra Ankara e Tripoli?

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Anche questa opzione è resa improbabile dal fatto che l’Italia ha troppi interessi in Tripolitania (gas dell’ENI e controllo flussi migratori illegali in testa), dove schiera anche circa 400 militari, per abbandonare il GNA.

Che facciamo allora? Attuiamo una no-fly zone contro tutti abbattendo droni e velivoli dell’LNA ma anche del GNA, cioè quelli turchi e quelli emiratini? Anche questa opzione pare improponibile.

In ogni caso mentre l’Europa si dibatte tra scelte impossibili e opzioni impraticabili c’è chi fa sul serio. I turchi stanno mandando mezzi, munizioni, mercenari jihadisti arruolati nel nord della Siria (sotto controllo turco) e pagati 2mila dollari al mese (più benefit) per combattere in Libia sotto le bandiere del GNA e della Fratellanza Musulmana e presto forse invieranno a Tripoli una brigata motorizzata dell’esercito regolare.

Sull’altro lato della barricata, Haftar riceve nuove armi e aiuti da emiratini ed egiziani, sembra disporre di contractors russi e arruola migliaia di mercenari sudanesi.

Infine, meglio ricordare un paio di aspetti.

Sul piano squisitamente militare Tripoli ha siglato un memorandum di cooperazione con Ankara ma Haftar ne firmò uno con Mosca nel 2017, mentre sembrano da tempo evidenti accordi simili con Egitto e Abu Dhabi.

A differenza di eventuali forze europee, la presenza di truppe o contractors dei paesi citati risulta quindi legittimata da questi accordi, così come un’intesa italo-libico permette la presenza dei nostri militari a Misurata e nel porto tripolino di Abu Sotta con compiti non di combattimento, rispettivamente sanitari e di supporto alla Guardia Costiera libica.

Sul piano politico è vero che il GNA guidato da al-Sarraj è riconosciuto dalle Nazioni Unite, ma lo è anche il parlamento di Tobruk che sostiene Haftar e non ha mai votato la fiducia all’esecutivo di Tripoli, come prevedevano gli accordi di Skhirat del 2015.

Tutto questo considerato sarebbe utile comprendere cosa voglia davvero dire per il governo italiano l’espressione “imporre il cessate il fuoco” in Libia.

@GianandreaGaian

Foto Difesa.it e Ansa

 

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Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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