SPECIALE AFRICA – L’impatto del COVID-19 sulla sicurezza in Africa

Il COVID-19 è ormai approdato anche in tutto il continente africano. Secondo i dati del 15 maggio, anche il piccolo Lesotho — l’unico paese che era finora rimasto estraneo all’epidemia — ha registrato il suo primo contagio.

I casi confermati in tutto il continente a metà maggio più di 72,000: 24,000 in Africa del nord, 21,000 in Africa occidentale, 13,000 in Africa del sud e circa 7,000 in Africa orientale e centrale. Oltre al Sud Africa i paesi più colpiti sono quelli dell’Africa del nord, Egitto, Marocco e Algeria in particolare, mentre in Africa occidentale il picco emerge in Nigeria e Ghana.

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Il numero totale dei casi è ancora relativamente basso visto che la popolazione del continente conta ormai quasi un miliardo e trecento milioni (circa il 17 per cento della popolazione globale).

Ma potrebbe essere in rapida espansione ed è difficile dire quando verrà toccato il culmine: potrebbero volerci settimane o mesi, sia perchè il continente si trova indietro di almeno 6-8 settimane rispetto ai paesi occidentali sia perchè i dati governativi sono spesso incompleti o truccati (come lo dimostrano gli arresti e le denunce di giornalisti avvenuti in vari paesi come Egitto e Niger).

Un report preparato da Partnership for Evidence Based Response to COVID-19 (PERC) rivela informazioni preoccupanti rispetto all’impatto del virus sulla vita dei cittadini di molti paesi. Seconda una ricerca condotta nella 28 principali città africane quando il COVID era ancora agli inizi, metà degli intervistati con reddito stabile hanno affermato che non avrebbero più avuto soldi per pagare i beni primari se fossero rimasti a casa per sole due settimane. In Nigeria e Kenya i social media riportano di numerosi casi in cui le persone sono state costrette a violare gli ordini di coprifuoco per procurarsi cibo.

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Diversi stati africani come Uganda, Rwanda e Nigeria hanno risposto in maniera piuttosto tempestiva alla crisi settimane prima ancora che fossero identificati dei contagiati, decretando il lockdown generale (Uganda e Rwanda) e introducendo screening agli aeroporti (Nigeria) a prova di coronavirus simili a quelli adottati negli scali aerei occidentali.

L’esempio delle misure adottate dall’Occidente ha permesso a molti paesi del continente di prendere provvedimenti per tempo limitando così la diffusione. In alcuni stati il coprifuoco è stato già allentato come in Ghana, Nigeria e Mali, mentre in altri ancora dopo alcuni tentativi è stato deciso che le regole del distanziamento sociale semplicemente non sono applicabili alla realtà locale.

Ovviamente la preoccupazione maggiore è per la tenuta dei sistemi sanitari nazioni che nella maggior parte dei casi faticano a far fronte alle emergenze già numerose (HIV, tubercolosi, malnutrizione e infezioni respiratorie varie) anche in tempi ‘normali’.

Il fatto che solamente il 3 per cento della popolazione africana abbia più di 65 anni fa comunque pensare che l’impatto del virus in termini di numeri relativi potrebbe essere minore di quello che stanno vivendo i paesi industrializzati.

 

Virus e armi

Ma l’impatto del virus in Africa non avviene solo attraverso gli effetti diretti sulla popolazione. Un’interessante angolatura da cui la situazione può essere analizzata è quella delle dinamiche legate al controllo degli armamenti, che la diffusione del virus sta modificando. E’ questa una peculiare dimensione che si aggiunge a quella sanitario-sociale generando una miscela esplosiva.

Molti stati africani hanno adottato un approccio autoritario alla crisi in cui l’applicazione delle misure e regolamenti è stata demandata al personale di sicurezza armato. Questa situazione già di per sè alimenta la domanda interna di armi, che spesso la popolazione sa come procurarsi in maniera illegale attraverso il ricorso ai piccoli produttori e rivenditori, come dimostra lo studio sui flussi di armi illeciti nel continente.

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In questo contesto, nuove fonti di flussi illeciti potrebbero sovrapporsi a quelle già esistenti, creando ulteriori opportunità di business sotterranei e mettendo così a repentaglio tutti gli sforzi fatti dal 2017 (anno in cui è stata adottata dalla Commissione dell’Unione Africana la Master Roadmap for Silencing the Guns in Africa by the year 2020).

La maggiore domanda di armi da parte dei civili potrebbe far alzare la stima dei 40 milioni di armi detenute dalla popolazione e portare a tassi di criminalità ancora maggior di quelli esistenti nell’era pre-confinamento, specie in Africa del sud e nel Sahel.

Ma non si tratta solo di piccola criminalità. Gli attacchi terroristici sono già in aumento nello stesso Sahel, nel Bacino del Ciad e in Somalia come riporta Fred Gateretse Ngoga del Dipartimento di prevenzione dei conflitti del Segretariato dell’Unione Africana.

Come succede a livello nazionale, a livello regionale le organizzazioni potrebbero dover rivedere le loro priorità per reindirizzare le risorse verso la lotta al COVID. Cosi, l’iniziativa Silencing the Guns nel suo ultimo ma cruciale anno di applicazione potrebbe non ricevere il sostegno sperato da parte di organizzazioni regionali impegnate nel controllo degli armamenti come la Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale e la Comunità di Sviluppo dell’Africa Meridionale.

Un altro scenario è quello in cui, specialmente laddove i sistemi sanitari sono inesistenti o altamente precari come in Nigeria, attori armati non statali potrebbero cominciare a offrire servizi di questo genere incrementando il loro consenso al di là delle zone di fatto sotto il loro controllo.

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E’ il caso per esempio di Boko Haram. La stessa preoccupazione si registra nella parte est della Repubblica Popolare del Congo, dove più di 70 gruppi ribelli armati potrebbero tentare di impadronirsi di fette sempre più vaste dell’enorme paese, sfruttando anche I ricavi delle miniere di diamanti e cobalto.

Il rafforzamento del ruolo degli attori del terrore potrebbe nel breve tempo minare ulteriormente la fragile autorità delle istituzioni statali e creare nuove situazioni di conflitto con conseguente aumento della domanda di armi da parte degli attori stati, della popolazione civile e delle organizzazioni terroristiche, innestando delle spirali i cui esiti a livello securitario sono poco prevedibili.

Gli attori del commercio di armi illecito, ovviamente, che siano organizzazioni terroristiche o gruppi armati ma anche singole comunità o individui non sempre legati da un’ideologia etnica o religiosa, non vengono facilmente fermati dalle misure restrittive imposte dalle autorità. Al contrario, potrebbero essere in grado di agire con ancora più facilità di manovra.

Questo riguarda sia la produzione locale di armi già presente in molti paesi (soprattutto dell’Africa occidentale) ma anche il commercio illecito, che avviene a livello transfrontaliero, ma anche regionale o transnazionale. Dato che il commercio lecito ha avuto un brusco arresto, gli attori criminali sono ancora più motivati nel trovare soluzioni alternative ma non del tutto nuove di carattere locale o transnazionale, come quelle dei mercati ‘aperti’ laddove possibile (armi illecite si possono  acquistare in vari mercati a Tripoli e Mogadiscio praticamente accanto a cibo, spezie e tessuti) e del commercio online e sui social media, già fiorente in Libia.

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In Africa potrebbe anche accadere in maniera forse più grave quello che è già successo in America Latina (El Salvador), dove gruppi di criminalità organizzata hanno avuto un ruolo chiave nella attuazione violenta delle politiche di quarantena in quei casi in cui le autorità statali non sono state sufficientemente presenti.

Anche se il traffico di armi — lecito o illecito – nelle regioni e nei paesi che hanno stabilito controlli alle frontiere più stringenti è verosimilmente diminuito, la maggior richiesta di armi da parte dei civili e non solo dev’essere comunque soddisfatta in qualche modo. Gli attori criminali potrebbero prendere di mira i magazzini statali come avviene nei tempi di conflitto o crisi per procurarsi tali armi e venderle ovviamente a prezzi esorbitanti, causando cosi una pericolosa fuga di armi che dopo gli sforzi degli ultimi anni nella direzione di un maggior controllo verrebbero cosi rimesse in circolo nel continente.

La diffusione del virus o anche solo la paura del virus sta anche cambiando le dinamiche tra le parti in conflitto in vari teatri. In Libia i flussi o l’uso di armi non è diminuito, anzi il contrario come dimostra la recente dichiarazione del generale Haftar.  Un segno delle preoccupazioni per l’impatto del COVID sui paesi oggetto di sanzioni multilaterali è il fatto che nel bel mezzo della crisi globale l’Unione Europea abbia lanciato l’operazione IRINI volta ad attuare l’embargo sulle armi in Libia.

Sono 6 i paesi africani a essere attualmente sotto embargo (Somalia, Libia, Repubblica Centroafricana, Repubblica Popolare del Congo, Sudan e Sud Sudan, mentre Guinea Bissau e Mali sono soggette a diverse sanzioni ma non attualmente all’embargo sulle armi).

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Il Segretario Generale ONU Antonio Guterres ha recentemente inviato una lettera ai paesi del G-20 chiedendo loro di alleviare quelle sanzioni che potrebbero compromettere le possibilità di alcuni paesi di rispondere all’epidemia.

L’impatto del virus sui paesi sottoposti ad embargo (che sono in quasi tutti i casi anche i paesi più poveri) è al momento poco chiaro. E’ probabile che i traffici illeciti in violazione degli embarghi aumenteranno, soprattutto quelli già presenti ante-virus tra paesi contingui come la Repubblica Popolare del Congo e la Repubblica Contrafricana.

I paesi africani sono anche destinatari di flussi illeciti da parte di paesi terzi sottoposti a embargo, come la Corea del Nord. Se da un lato il commercio via nave è attualmente difficile, come dimostrano le immagini satellitari delle navi cariche di merci illecite attraccate nei porti della Corea del Nord, i traffici illeciti soprattutto legati alle armi vengono condotti anche attraverso molte vie, ad esempio via società di copertura e ambasciate, missioni consolari e rappresentanze varie come emerge dai report dei gruppi di esperti delle Nazioni Unite.

Il nesso tra COVID e controllo delle armi è evidente nelle operazioni di peacekeeping. Nonostante le truppe delle missioni di peacekeeping, non provengano solo da stati occidentali (nella Repubblica Popolare del Congo, per fare solo un esempio, è massiccia la presenza di soldati dell’Uruguay), in paesi come il Sud Sudan, la Repubblica Centroafricana, il vi è la percezione che il virus sia stato portato dagli ex colonialisti occidentali.

 

Missioni ONU e Covid-19

Ciò ha fomentato ostilità da parte della popolazione locale e in alcuni casi proteste. Le operazioni di peacekeeping si sono rapidamente trasformate in strutture di sostegno alla pandemia nelle realtà locali, non avendo più il tempo e/o le risorse per adempiere al loro mandato originario.

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A ciò si aggiunge il fatto che ovviamente parte del personale di queste missioni viene richiesto di lavorare da casa, mentre per il resto del personale impegnato in pattugliamenti è obbligatorio utilizzare maschere e guanti.  In Congo, il principio di rotazione nella missione MONUSCO verrà esteso da 3 a 6 mesi. Questi impedimenti al lavoro già arduo delle missioni in aree ancora calde possono creare il terreno fertile per una ripresa massiccia di flussi illeciti verso queste aree da parte di stati confinanti.

Nelle pratiche stesse di gestione delle armi a livello statale è verosimile che i controlli siano al momento meno accurati di prima da parte delle forze di sicurezza, già sottopagate e a rischio corruzione diffusa.

Gli impiegati potrebbero essere ancora più motivati a far sparire alcune armi dagli stock nazionali per poi venderle ai civili o ad attori della criminalità organizzata. Il fatto che l’attuazione delle misure restrittive in Africa richieda largo ricorso alle forze armate significa anche che maggiori quantità di armi escono e rientrano nelle caserme ogni giorno. La ridotta attenzione alle procedure di sicurezza e stoccaggio può creare una situazione in cui i controlli rispetto agli obblighi internazionali in materia di marcatura, registrazione e tracciabilità saranno più laschi.

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E se il COVID costringe milioni di persona a casa anche in Africa, l’impatto delle misure sulla riduzione della violenza è alquanto incerto. Anzi, finora non sembra vi sia alcuna evidenza in tal senso

Alla fine dell’anno scorso jihadisti legati ad Al Qaeda e al gruppo Stato islamico avevano identificato una miniera d’oro nei dintorni di Pama in Burkina Faso. Oltre ad attaccare gli impianti estrattivi, le milizie jihadiste intercettano il traffico di oro che vale due miliardi di dollari in Burkina Faso, Mali e Niger: un flusso che già adesso è quasi del tutto fuori dal controllo dello Stato e che ai tempi del COVID è suscettibile di diventare sempre più redditizio.

Dall’altra parte del continente, un altro business che potrebbe espandersi è quello del bracconaggio nelle riserve dell’Africa del Sud, dove il minore afflusso di turisti lascia ampio spazio di manovra a piccoli gruppi criminali motivati da facili ritorni finanziari e in caccia di armi.

Da un punto di vista più generale, la società civile africana che ha negli ultimi anni avuto un ruolo importante nel contenimento della proliferazione delle armi e dei flussi illeciti si sta rapidamente indebolendo dopo solo poche settimane di confinamento. E’ verosimile che alla fine delle misure restrittive le ONG avranno a disposizione molte meno risorse da parte sia degli stati che delle organizzazioni internazionali.

 

Lo SPECIALE AFRICA di Analisi Difesa raccoglie nel mese di Giugno numerosi articoli di autori diversi dedicati ai tema della Difesa&Sicurezza africana.

Nei giorni scorsi sono stati pubblicati i seguenti articoli:

Il lento declino del Sudafrica   di Francesco Palmas

L’Esercito del Mali riceve in dono altri veicoli

La morte di Droukdel e il punto sull’Operazione Barkhane di Francesco Palmas

Contractors contro jihadisti in Mozambicot di Pietro Orizio

Londra prolunga la missione degli elicotteri Chinook in Mali 

 

 

Classe 1983, Master in Relazioni Internazionali e Dottorato di Ricerca in Transborder Policies IUIES, ha maturato una rilevante esperienza presso varie organizzazioni occupandosi di protezione internazionale delle minoranze, politica estera della UE e sicurezza internazionale. Assistente alla cattedra di Storia delle Relazioni Internazionali e Politica Internazionale presso l'Università di Trieste, ricercatrice post-dottorato presso il Centro di Studi Europei presso l'Università Svizzera di Friburgo, e junior member presso la Divisione Politica Europea di Vicinato al Servizio Europeo per l'Azione Esterna. Lavora attualmente presso Small Arms Survey a Ginevra come Ricercatrice Associata.

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