SPECIALE AFRICA: la morte di Droukdel e il punto sull’Operazione Barkhane

Pubblichiamo il terzo articolo dello SPECIALE AFRICA che accompagnerà i lettori di Analisi Difesa per tutto il mese di Giugno. Qui sotto i link ai primi due articoli già on line.

Il lento declino del Sudafrica  

L’Esercito del Mali riceve in dono altri veicoli

 

 

Campane a morto per l’emiro di al-Qaeda nel Magreb islamico (AQMI), Abdelmalek Droukdel, alias Abu Mussab Abdelwadud, eliminato dai commando francesi della Task Force Sabre, tra i 350 e i 500 uomini delle forze speciali operativi nella regione Sahelo-sahariana: paracadutisti dell’Armèe de l’Air CPA10 e incursori della Marina, supportati dal 4° reggimento elicotteri delle forze speciali, con elementi del 13° reggimento Dragoni parà e del 1° reggimento di Fanteria Paracadutisti della Marina.

L’operazione manca ancora di dettagli ma pare certo che il successo sia da ascrivere a droni e forze speciali assegnati all’operazione Barkhane.

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Droukdel (nella foto a lato) figurava in cima alla lista degli obiettivi più ricercati dai commando francesi e non solo, ormai da anni.

La conferma della sua morte è giunta direttamente dallo stato maggiore francese e dalla ministra della Difesa, Florence Parly, che ne hanno dato notizia ieri notte.

Il raid sarebbe avvenuto il 3 giugno scorso, quando il terrorista pluriricercato è finito nella trappola tesa dai francesi nel nord del Mali, a Talahandak, a una decina di chilometri dal confine con l’Algeria. Anche le forze speciali algerine erano sulle sue tracce in Cabilia, da sempre feudo di AQMI. Chimico di formazione, Droukdel era nato nel 1970 a Meftah, proprio in Algeria.

Era stato uno degli artificieri del Gruppo islamico armato (GIA), poi del Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento (GSPC), che aveva comandato dal 2006, traghettandolo nella nebulosa di al-Qaeda. Con lui al vertice, l’organizzazione terrorista aveva scatenato un jihad sanguinosissimo in Algeria, per il quale Droukdel era stato condannato a morte, contumace.

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La Cabilia era solo una tessera del complesso mosaico operativo di AQMI. Agli inizi del 2010, la nebulosa avrebbe cercato di ampliare la sua influenza all’intero Sahel, intessendovi una fitta trama di alleanze, reti di contrabbando, catture di ostaggi occidentali e così via. La situazione del nord del Mali, nell’Azawad, sembrò favorire le mire di Droukdel, che poté stringere legami con gli indipendentisti tuareg e i jihadisti di Ansar Dine. Nel luglio 2012, il Comandante avrebbe steso un documento cruciale: «orientamenti del jihad nell’Azawad».

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Droukdel vi delineava le linee operative da seguire per conquistare il nord del Mali. Invitava i suoi a eleggere come capo dei capi Iyad ag Ghali, numero uno di Ansar Dine. All’epoca, le sue raccomandazioni non ebbero grande successo, anche perché l’operazione francese Serval, lanciata nel gennaio 2013, scompaginò tutti i piani di conquista del nord del Mali.

A fine 2019, alcuni media algerini avanzarono l’ipotesi che Droukdel fosse ormai morto, non avendo più dato notizia di sé da oltre un anno. Invero il jihadista era vivo e vegeto e tramava nell’ombra. Fino al colpaccio del 3 giugno. Sarebbero stati gli americani a individuare il comandante jihadista nell’Adrar des Ifoghas e a trasmettere l’informazione ai francesi. Il raid avrebbe coinvolto almeno una pattuglia di Mirage 2000D, un drone MQ-9 Reaper, elicotteri e due squadre di commando della task force Sabre.

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Secondo Europe1, Droukdel e i suoi uomini viaggiavano a bordo di un pick-up armato 4×4. Fra loro c’era anche Toufik Chaïb, responsabile del coordinamento e della propaganda di AQMI.

Secondo voci non confermate, i Mirage avrebbero sorvolato il mezzo (o la colonna di mezzi) a bassa quota, dando tempo al Reaper di inquadrarlo con i suoi sensori e di lanciare un missile. Le forze speciali erano in zona, eliportati da elicotteri Puma. Un’operazione simile a quella del 19 maggio, quando era stato eliminato un quadro dello Stato Islamico nel Grande Sahara.

I nemici sarebbero stati tutti uccisi, tranne uno, che ha preferito arrendersi ai commando francesi piuttosto che soccombere. Lo scontro a fuoco sarebbe stato violentissimo tra i jihadisti e le forze speciali francesi, forse una quarantina di uomini.   Il blitz avrebbe permesso di mettere le mani su materiale prezioso, in primis sistemi di comunicazione, che dovrebbero garantire nuove chiavi informative sensibili per pianificare altri ‘assalti decapitanti’ contro i movimenti jihadisti sahelo-maliani.

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La scelta non manca. I gruppi armati maliani funzionano grosso modo secondo dinamiche politiche e sociologiche segmentarie, divisi in diversi livelli gerarchici e in innumerevoli componenti, fra loro simili, e caratterizzate da continui processi di fusione e scissione, a seconda delle circostanze e delle opportunità. Il gruppo più strutturato ruota intorno alla nebulosa dell’ex Droukdel, nella declinazione storica di al-Qaeda nel Maghreb islamico, nata nel 2007 su volere di Osama Bin Laden.

Al suo interno, gravita il Movimento per l’Unità e il Jihad in Africa Occidentale (MUJAO), a maggioranza fulani e araba, ormai decennale, che comanda quattro katibe o battaglioni autonomi. Come suggerisce il nome, il suo spazio d’azione copre come campo potenziale quello economico della CEDEAO.

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AQMI integra al tempo stesso Ansar Dine, fondata nel 2012 e diretta da Iyad Ag Ghali, attiva soprattutto nel nord del Mali. L’insieme dei tre gruppi interviene a livelli differenti, in spazi complementari, servendosi di cellule autonome diffuse sul territorio. Altra emanazione di AQMI, i Firmatari con il Sangue compongono un gruppo risalente al dicembre 2012, con obiettivo fra i principali quello di consolidare la sharia nel nord del Mali.

I Firmatari si sono fusi nell’agosto 2013 con il MUJAO per formare gli Almoravidi, ormai una katiba di AQMI. Insieme alle katibe di Iyad Ag Ghali, dell’algerino Gamel Okacha e del predicatore maliano fulani Amadou Kouffa, della katiba Macina, gli Almoravidi hanno formato il 1° marzo 2017 il Gruppo di Supporto all’Islam e ai Musulmani (GSIM).

Un raggruppamento che corrisponde a una nuova distribuzione delle territorialità, ma che non mette in discussione l’autonomia di ogni katiba.

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Numero uno della nuova formazione è Iyad ag Ghali, la cui autorità si estende sul massiccio dell’Adrar des Ifoghas e sui bacini circostanti, fino al versante della frontiera algerina, sconfinando nella regione di Tin Zawaten. Ghali, fortemente voluto da Droukdel, dispone di una rete di informatori e di connivenze locali, in primis fra i membri dell’Alto Consiglio per l’Unione dell’Azawad (HCUA), una delle componenti del Consiglio Militare dell’Azawad (CMA), che ha fra i suoi obiettivi prioritari l’applicazione della sharia.

Il feudo di Gamel Okacha copre la regione di Timbuctù, mentre quello di Amadou Kouffa domina gran parte del Macina, nel centro del Paese.

Dopo l’episodio di Kouffa, la cui morte era stata annunciata invano da Parigi, stavolta il governo francese ha preso tutte le precauzioni per accertarsi dell’identità di Droukdel. Sembra che il raid del 3 giugno sia giunto poche ore dopo un colloquio telefonico fra il presidente Macron e l’omologo algerino Abdelmadjid Tebboune.

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I due avrebbero messo a fuoco la situazione in Libia e nel Sahel, riaffermando la volontà comune di lavorare insieme per la stabilità e la sicurezza regionale. Rimane ora sospesa la questione della successione alla testa di AQMI. L’organizzazione jihadista è diretta da un consiglio dei capi, il Majlis al-Ayan, presieduto da un emiro, che fino al 3 giugno era Droukdel.

Parliamo di un’assemblea suprema di 14 membri, affiancata da un consiglio consultivo, il Majlis al-Shura, composto di capi, di qadi o giudici, e di membri di differenti comitati. Il candidato principale alla successione sembrerebbe essere il capo del Majlis al-Shura, l’algerino Abu Obeida Youssef al-Annabi, iscritto a caratteri cubitali nella lista nera americana dei terroristi internazionali.

Al-Annabi si era fatto conoscere nel 2013, incitando «i musulmani di tutto il mondo ad attaccare gli interessi francesi ovunque». Intervistato da France24, nel maggio 2019, al-Annabi non ha fatto che riaffermare i suoi desiderata, rivendicando una guerra senza limiti «alla presenza francese nel Sahel».

 

Uno scenario in evoluzione

I giochi sono già aperti. Restano ancora dubbi e misteri da sciogliere sul raid del 3 giugno. Stranamente i francesi hanno avuto molta fretta nell’annunciare l’eliminazione del leader di AQMI. Successi del genere sono annunciati solitamente dall’Eliseo, non dal ministero della Difesa e vengono sfruttati politicamente.

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Eppure la morte di Droukdel (nella foto sopra) lascia spazio a molti interrogativi. Perché l’uomo aveva abbandonato il suo santuario in Cabilia per esporsi nel nord del Mali? Stava forse tentando di sabotare i negoziati di pace fra il governo centrale, a Bamako, e i capi jihadisti Ghali e Kouffa?

Voleva riprendere in mano AQMI e sfilarla dal GSIM? A differenza di Droukdel, Ghali mantiene buone relazioni in Algeria, dove vive la sua famiglia e il capo del GSIM vi possiede una casa. È un tuareg ifora, fondamentalista ma illuminato, forte del supporto dell’etnia tuareg e di un seguito non indifferente a Bamako, fra i fedeli dell’imam Mahmoud Dicko.

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Soprattutto, si oppone all’implosione del Mali, come l’Algeria che teme un Azawad indipendente considerandolo un prodromo al secessionismo dei suoi tuareg.

Ghali e Kouffa sono entrati di recente in collisione con lo Stato Islamico nel Grande Sahara, proprio per i negoziati aperti con il governo maliano. Considerati traditori dagli islamisti del Daesh, i due gruppi si stanno combattendo apertamente, dopo un lungo periodo di connivenze.

Le trattative segrete fra i governativi e i seguaci di Ghali e di Kouffa punterebbero a dividere definitivamente le due galassie jihadiste e a risolvere sine die due storici conflitti etnico-sociali: quello della regione triangolare del Soum-Macina-Liptako, con l’insorgenza fulani e la leadership di Amadou Kouffa, e quello del nord del Mali, teatro tradizionale della contestazione tuareg, da cui l’importanza di Ghali.

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Droukdel era fieramente contrario a qualsiasi trattativa con Bamako. Ecco perché avrebbe abbandonato il rifugio cabilo e si sarebbe avventurato nell’Ifoghas. Forse sperava di riportare nell’orbita del jihadismo irriducibile i compagni del GSIM o forse puntava a trovare un modus vivendi con lo Stato Islamico nel Grande Sahara. Era in missione per qualcuno o solo per sé stesso? Senz’altro ostacolava il piano regionale teso a isolare Daesh, a risolvere il problema tuareg maliano e a sedare l’irredentismo fulani del centro-sud del Mali e del nord del Burkina Faso.

Non vi sono altre ragioni per spiegare tempi e luoghi della sua morte. Un fatto che insegna due cose: primo, che l’Algeria è rientrata a pieno titolo nel conflitto maliano e saheliano, in un teatro che è da sempre il suo cortile di casa; secondo, che i militari francesi stanno affinando le conoscenze delle dinamiche conflittuali interetniche saheliani.

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Il tempo dirà se la strategia attuale sarà coronata da successo. Lo sapremo solo quando, e se, i tuareg rientreranno per via pacifica nel gioco politico maliano grazie alla leadership di Ghali, e se i fulani faranno lo stesso, capeggiati da Kouffa.

Sarebbe una svolta che permetterebbe di concentrare il massimo sforzo contro i jihadisti del Daesh, con una verticalizzazione delle azioni nella valle orientale del Niger e della fascia sahelo-sahariana.

Come in un gioco del domino, la Libia ci interessa da vicino. La speranza è che, dopo la Tripolitania, Haftar non perda anche il Fezzan, sconfitta che aprirebbe un’autostrada ai servizi turchi, che ne approfitterebbero per soccorrere i jihadisti dello Stato Islamico nel Grande Sahara.

Sarebbe un colpo durissimo per Barkhane e per la stabilità dell’area, tamponabile solo con un potenziamento militare bella regione di Madama, nel nord del Niger a 100 chilometri dal confine libico dove anche gli Emirati Arabi uniti intendono schierare proprie truppe dopo gli accordi tra Niamey e Abu Dhabi del giugno 2019.

 

I problemi dell’operazione Barkhane

In un contesto regionale difficilmente discernibile, l’operazione Barkhane oscilla continuamente fra alti e bassi. La maggior parte dei suoi successi evapora rapidamente.

I francesi hanno effettuato un minisurge a fine dicembre 2019, spostando i legionari del 2° REP dalla Costa d’Avorio alla regione della triplice frontiera. Con questa iniezione di forze fresche, Barkhane allinea oggi nel Sahel 5.100 uomini contro i 4.500 di poco tempo fa, in un teatro vasto quanto l’Europa occidentale. I risultati sembrano arrivare, ma sono un fuoco di paglia.

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Il perimetro d’azione è ormai concentrato su una linea che bisogna tenere a ogni costo: quella del centro maliano, che va da Hombori all’ovest, poi a Gossi, Gao, Ménaka, fino alla frontiera nigerina.

Nemesi della storia, è proprio in questo ridotto centrale, fra Mopti e Sevaré, che l’operazione Serval aveva esordito nel 2013, durante l’offensiva dei gruppi armati terroristici che dal Nord del Mali stavano puntando verso Bamako.

L’avanzata jihadista era stata bloccata a Kona e a Dabali. L’evoluzione della violenza e della situazione odierna sembra lasciar desumere che sette anni di operazioni siano trascorsi invano.

Ma non è proprio così. Barkhane sta puntellando il centro del Paese per irradiarsi a sud. Sta rafforzando le basi operative temporanee avanzate a Ménaka, fra Gao e la frontiera nigerina, e a Gossi, all’ovest di Gao, dove è stato ripristinato un ex campo militare.

Prevede di ampliare quest’ultimo e di realizzarvi una dropping zone pavimentata e antipolvere, sulla falsariga di quanto già fatto a Ménaka. Sintomatico del livello di rischio atteso, è stata allestita anche una postazione chirurgica vitale, che ha già accolto diversi feriti francesi.

Il dispositivo di Barkhane, che in quadra anche le forze speciali della Task Force Sabre, è troppo disperso. E’ estremamente difficile concentrare i 700 uomini necessari a un’azione degna di questo nome, simile a quella, isolata, realizzata dai francesi a Koufra. Anche i preparativi sono appariscenti. Il grosso avviene per settimane, per via terrestre, con spostamenti facili da individuare. Con meno di una decina di elicotteri da manovra, vale a dire 5 Caïman, 2 Cougar e 2 Puma, metà dei quali riservati alle operazioni di evacuazione sanitaria, Barkhane non ha nessuna capacità di condurre operazioni aeromobili di ampio respiro.

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I 3 elicotteri Chinook britannici non sono autorizzati alle allerte Medevac o a realizzare trasporti a fini tattici, ma solo al trasbordo di personale.

Con questo volume di ali rotanti, solo una cinquantina di incursori sono trasportabili in un’unica ondata. Ma è rarissimo che i 9 elicotteri siano tutti disponibili simultaneamente. L’aerotrasporto è altrettanto risicato: con sette aerei cargo tattici, fra cui due Casa Nurse riservati alle evacuazioni di feriti, i margini di manovra sono stretti.

I due vecchi Transall basati a Niamey hanno un’efficienza limitata, così come i C-130 Hercules.  Il peso delle operazioni nel Liptako è sulle spalle di 1.500 legionari, 500 uomini del 2° Reggimento di Fanteria, del 1° Reggimento di Cavalleria, del 1° Reggimento del Genio, del 1° Reggimento straniero ma soprattutto del 2° Reggimento parà, che dall’autunno ha raddoppiato i gruppi di commando paracadutisti, in coordinamento (per quanto possibile), con le forze del G5 Sahel e gli eserciti locali, come concordato al vertice di Pau il 13 gennaio scorso.

Il generale Pascal Facon (nella foto sotto) , numero uno di Barkhane, si dice fiducioso: «nonostante la situazione sanitaria particolare, la pandemia di Covid-19 non incide sul ritmo operativo e il nemico è sotto forte pressione, braccato, in ritirata».

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Anche se la morte recente di due legionari del 1° REC, nella prima settimana di maggio, sembrerebbe indicare un inasprimento dei combattimenti. Per ridarsi margini di manovra, Barkhane sguarnisce un fronte e ne rimpingua un altro. Dall’inizio del 2019, Fort Madama è tornata ad essere un forte coloniale isolato nelle sabbie rosse del Sahara, semideserto e semisguarnito. Rimarrà una pista sommaria riabilitata dal 25° reggimento del genio dell’aviazione, Haftar permettendo. Per rafforzare le capacità di detezione e di prevenzione delle imboscate, Barkhane ha però intensificato la trama d’intelligence.Dispone di 3 droni Reaper a Niamey, e ha affittato velivoli ISR leggeri da CAE Aviation. I Reaper sono la vera superstar delle operazioni di controterrorismo nel Sahel, soprattutto dal dicembre scorso, mese in cui i Block 1 francesi hanno acquisito la capacità di sganciare munizioni.

Da allora ad oggi hanno garantito persistenza sugli obiettivi e decine di strike, grazie anche alla potenza dei sensori ISR. Dei 7 droni ricevuti finora da Parigi, uno è andato perduto. Ogni tanto i Rafale dell’Armée de l’Air filmano le vaste distese dal Ciad alla frontiera mauritano-maliana, fino alla Nigeria, passando per il Centrafrica, e sfruttando all’inverosimile il pod Reco-NG.

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Immagini che richiedono settimane di analisi e di debriefing, durante le quali la situazione sul terreno inevitabilmente cambia. Un aspetto che suggerirebbe un dispiegamento permanente dei Rafale, a garanzia di un quid pluris di capacità rispetto ai Mirage 2000. Sempre in tema di ISR, Barkhane dispone ormai di palloni aerostatici a Tessalit, Ménaka e Gossi, per scongiurare attacchi complessi come quello di Timbuctù, avvenuto nella primavera del 2018.

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Rimane tuttavia il limite che le unità di fanteria a bivacco hanno scarsi mezzi attivi di detezione e protezione: si limitano ai posti di tiro dei missili anticarro Eryx, all’optronica delle torrette remotizzate dei Veicoli blindati VAB, in particolare la M151 Protector di Kongsberg, alle torrette Arquus dei PVP e a quelle dei VBL. Si affidano per lo più alle sentinelle armate dei vecchi buoni binocoli.

I battaglioni di fanteria, di cavalleria e di logistica vedranno le loro capacità rafforzate con la consegna di piccoli droni, con esemplari di tre modelli: nanodroni Black Hornet 3 della società britannica FLIR System, che hanno una capacità diurna e notturna e offrono la possibilità di cambiare la batteria senza rispedire il velivolo all’industriale; quadricotteri NX70 della francese Novadem, che sostituiranno i minidroni della cinese DJI Mavic Pro 2, ordinati in urgenza operativa dal comando delle forze terrestri; e sistemi di minidroni da ricognizione SMDR di Thales, che prenderanno il posto dei DRAC di Airbus, ormai vecchiotti. I francesi svecchiano i sistemi.

La guerra, in Mali e nel Sahel, sarà ancora lunga. La morte di Droukdel è un indubbio successo ma la vittoria è ancora lontana.

Foto:  AQMI, Ministero Difesa francese e  Ministero Difesa britannico

 

Francesco PalmasVedi tutti gli articoli

Nato a Cagliari, dove ha seguito gli studi classici e universitari, si è trasferito a Roma per frequentare come civile il 6° Corso Superiore di Stato Maggiore Interforze. Analista militare indipendente, scrive attualmente per Panorama Difesa, Informazioni della Difesa e il quotidiano Avvenire. Ha collaborato con Rivista Militare, Rivista Marittima, Rivista Aeronautica, Rivista della Guardia di Finanza, Storia Militare, Storia&Battaglie, Tecnologia&Difesa, Raid, Affari Esteri e Rivista di Studi Politici Internazionali. Ha pubblicato un saggio sugli avvenimenti della politica estera francese fra il settembre del 1944 e il maggio del 1945 e curato un volume sul Poligono di Nettuno, edito dal Segretariato della Difesa.

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