REPORTAGE DAL DONBASS – Nel “tritacarne” di Bakhmut

 

 

 

 

Bakhmut (Donbass) 

I colpi in partenza ad intermittenza dell’artiglieria ucraina, annidata chissà dove da una parte e dall’altra della strada zeppa di buche provocate dai mortai, ti fanno capire che ci stiamo infilando dritti verso l’inferno peggiore del Donbass. “Fortezza Bakhmut”, come la chiamano i difensori ucraini, a tal punto da averle dedicato una canzone ospitata sul palco di Sanremo, è in realtà una Stalingrado per tutte e due le forze in campo svuotata in gran parte dei suoi 70mila abitanti dalla ferocia dei combattimenti che durano da otto mesi.

I russi hanno versato un fiume di sangue per conquistarla e gli ucraini subito un alto numero di perdite per difenderla in una battaglia più simbolica che strategica.

All’ultimo posto di blocco di Chasiv Yar i soldati ti ritirano il Pass Speciale come se il capolinea fosse l’inferno e non dovessi più tornare indietro. Davanti c’è l’unica strada ancora aperta, la 0506 a ovest della città, ma sotto il tiro dei russi che hanno comunque lasciato una via di fuga alle forze ucraine.

L’incubo inizia con le prime cannonate che danno la caccia alle batterie ucraine. Sulla linea del fronte lungo 800 chilometri, ma veramente “caldo” e attivo su circa 250, ogni parte della barricata lancia ogni giorno da 4mila a 6mila colpi di artiglieria compresi razzi e missili di vario calibro.

Quando da una collinetta appare Bakhmut, città assediata che tutti citano ma in pochi ci vanno, un brivido corre lungo la schiena. Gli ultimi due chilometri sono in campo scoperto con i russi che possono fare in qualsiasi momento il tiro al piccione. L’unica possibilità è lanciarsi a tavoletta verso la città fantasma.

Bakhmut sembra abbandonata con palazzi sventrati o anneriti dalle fiamme. Anche nelle casematte ai crocevia non c‘è anima viva e alcune strade sono bloccate da “cavalli di Frisia” e sbarramenti di cemento. Se i militari si fanno vedere in strada i droni russi li individuano subito indirizzando il tiro dell’artiglieria.

Ogni tanto fa capolino davanti al portone di un condominio ancora in piedi qualche soldato ucraino in tenuta bianca invernale, che gli permette di mimetizzarsi nella neve. Sotto un piccolo cavalcavia ferroviario hanno trovato protezione un paio di blindati con i militari chiusi dentro in attesa di un attimo di tregua per muoversi a tutta velocità per le strade trasformate in tappeti di schegge e calcinacci. I difensori sono rintanati negli scantinati dei palazzi trasformati in bunker per evitare le bombe.

La città è morta, deserta e avvolta da un silenzio surreale spezzato solo dai colpi in uscita degli ucraini e dal sibilo delle granate che arrivano dall’altra parte del fiume Bakhmutka, zona occupata dai russi. I cavi dell’elettricità penzolano in mezzo alla strada, ma è la piazza centrale con il municipio, un tempo pulsante di vita, la tragica fotografia della Stalingrado del Donbass.  Macerie, desolazione e palazzi centrati dalle bombe fanno capire la furia degli attacchi russi e la strenua resistenza degli ucraini.

I russi sono a duecento metri, ma il 7 aprile hanno preso il controllo del centro amministrativo della città.  Il presidente Volodymyr Zelensky ha ammesso che la città potrebbe venire abbandonata: «Se (le truppe) corressero il rischio di essere accerchiate i generali daranno l’ordine di ritirarsi».

In realtà il “ripiegamento dinamico” come lo chiamano i comandati sul campo è già iniziato, “ma per il valore simbolico di Bakhmut si continua a dire che bisogna resistere fino alla morte” spiega una fonte occidentale a Kiev.

I russi “vogliono annunciare vittoria il 16 aprile, il giorno della Pasqua ortodossa” racconta un militare che combatte a Bakhmut. “I russi lanciano i loro uomini, soprattutto carcerati arruolati dalla Wagner, ad ondate – spiega in cambio dell’anonimato. Noi li uccidiamo, ma ne arrivano altri a ripetizione.

Ne abbiamo catturato uno, ma era fatto di qualcosa, non capiva niente. Alla fine mandano avanti le truppe migliori. E’ molto brutta. Ci sono morti ovunque, una carneficina (nella foto sotto un caduto russo). In un anno di guerra una cosa del genere non l’avevo mai vista”.

Il benvenuto a Bakhmut, una volta abbandonata il più possibile al riparo la macchina sperando di non trovarla incenerita, è un potente colpo di artiglieria che ci passa sopra la testa e va a schiantarsi nel centro. L’unica possibilità di rimanere vivi è correre cercando di rimanere sempre rasenti ai muri sbrecciati delle abitazioni. E’ così che incontriamo lo “spettro”, un vecchio senza un occhio e con il colbacco, che sembra uscito da un film sulla seconda guerra mondiale.

“Avete una sigaretta?” biascica l’anziano abbandonato a sé stesso, che trascina uno slittino con sopra due cassette di munizioni, con le sue cose, alla ricerca di acqua, cibo e sigarette. Sembra incurante dei sibili dei colpi di artiglieria e forse pensa che siamo della Croce Rossa.

Dietro la piazza principale un manipolo di disgraziati civili non molla le proprie case. Un paio di anziane babucke sono appena uscite dal bunker a godere di un raggio di sole assieme ad una giovane donna con un gatto in spalla.

Vlad, 23 anni, è il portavoce dei sopravvissuti. Quando ci vedono arrivare trafelati con i bottiglioni d’acqua potabile che vale come l’oro non credono ai loro occhi e si sprecano in “spasiba, spasiba”, grazie in russo.

Sibili e deflagrazione delle granate si susseguono, ma i civili sembrano abituati a riconoscere distanza e pericolo. Una ripida scala porta al rifugio fai da te ricavato sottoterra. Un dedalo che collega gli scantinati di due palazzi trasformati in catacombe moderne per salvarsi dalle bombe.

Un uomo sega la legna per la stufetta che riscalda un ambiente angusto dove hanno piazzato dei letti d fortuna. “Viviamo in questo condizioni dallo scorso agosto – spiega Vlad, barbone biondo – Vogliamo solo mir, la pace”. Sull’intensità dei bombardamenti sorride: “Quanti colpi cadono al giorno? Forse dovete chiedere quando non arrivano. Spesso piombano ogni minuto”.

I pochi abitanti rimasti in città, tagliati fuori dal mondo come in altre zone del fronte, sembra che attendano i russi senza grandi timori. “Avete delle candele? – chiede uno dei sopravvissuti – Non c’è elettricità da mesi e per caricare le batterie del telefonino e avere un po’ di luce usiamo un vecchio sistema”. Una manovella, che fanno vedere all’opera, ma ci vuole almeno mezz’ora e olio di gomito.

La situazione a Bakmuth il 6 aprile (Mappa Wagner Group)

Appena torniamo all’aria aperta parte un concerto di morte ancora più intenso con i razzi Grad, eredi degli ”organi di Stalin”. La tattica è attendere un attimo di calma e riprendere a correre, ma non facciamo in tempo ad arrivare ad un cingolato M113 con la croce rossa dipinta sulle fiancate che i sibili mortali ricominciano a fendere l’aria.

Per fortuna le granate esplodono, con un boato d’inferno, oltre la prima fila di palazzi che ci fa da scudo. I due militari asserragliati in un negozio ci guardano stupefatti e ordinano subito: “Niente foto o video, che servono al nemico per individuare la posizione e colpirci”.

L’ufficiale è nervoso come il soldato: “Siete dei pazzi. I russi sono a 200 metri oltre il fiume e se lo passano è finita. Vi conviene andarvene prima di rimanere intrappolati”.

Due ore nell’inferno di Bakhmut sono anche troppe, ma la via del ritorno si trasforma in una nuova, pericolosa, gimcana fra le macerie sperando che un colpo non piombi troppo vicino. Il fragore metallico dell’esplosione ad una ventina di metri arriva quando stiamo uscendo dalla “Stalingrado del Donbass” oramai fatta a pezzi. Ancora una volta delle casette basse sono lo scudo alla sventagliata di schegge e a tutta velocità usciamo dall’incubo.

 

La chimera della controffensiva

Se i russi sfondano a Bakhmut saranno a 50 chilometri da Sloviansk e Kramatorsk, la “Linea del Piave” ucraino nel Donbass, ma puntando su Kostantinivka e Druskivka potrebbero riuscire a chiudere in una sacca il 40% della provincia di Donetsk ancora in mano alle forze di Kiev. Gli ucraini stanno scavando linee difensive dopo Bakhmut per evitare una Caporetto.

Un altro punto caldo è Avdivka, a soli 20 chilometri dal centro di Donetsk, la “capitale” secessionista. Le possenti posizioni trincerate degli ucraini resistono dall’inizio dell’invasione. Una delle ultime roccaforti ucraine del Donbass sulla linea del fronte antecedente al 24 febbraio 2022, che non ha ceduto agli attacchi russi. Anche a Vuledar, più a sud ovest, un’offensiva russa fra gennaio e febbraio si è schiantata in un carnaio di uomini e mezzi a cominciare dalla 155a brigata di marines arrivata da Vladivostok.

Il comando tattico sul fronte del Donbass è affidato al generale di corpo d’armata, Oleksandr Syrsky, che lo scorso autunno aveva lanciato con successo la controffensiva che ha liberato dai russi gran parte della regione di Kharkiv provocando una caotica ritirata delle forze di Mosca.

La leggenda vuole che Syrsky porti sempre nella giubba militare un’immagine di Bohdan Khmelnytsky, il grande comandante erede delle orde cosacche e tatare che nel 1521 diedero fuoco a Mosca. Nell’Ucraina occidentale gli hanno dedicato una città di trecentomila abitanti. Il generale Syrsky era stato decorato già in aprile dello scorso anno con la più alta onorificenza per avere salvato Kiev dal fallito colpo di mano del Cremlino con la colonna scesa dalla Bielorussia.

Cinquantasette anni si è arruolato nel 1990, poco prima del crollo dell’Urss e dal 2019 è il comandante delle forze terrestri ucraine. Syrsky è stato cruciale per avere adeguato l’esercito ucraino agli standard Nato e distaccato al comando SHAPE a Bruxelles ha assorbito le tattiche di combattimento occidentali.

Grazie all’appoggio di sorveglianza e intelligence della Nato è riuscito a liberare la regione di Kharkiv a ridosso del Donbass. Il presidente Zelesnky punta di nuovo su di lui per la controffensiva di primavera/estate, talmente annunciata che rischia di diventare una chimera. Le voci si susseguono su attacchi a sorpresa verso la Crimea o piani per spezzare il fronte sud orientale russo verso Melitopol dalla direttrice di Zaporizhia.

Documenti riservati del Pentagono resi noto sui social, ma probabilmente in parte manipolati, forniscono alcune notizie sulla non facile mobilitazione ucraina in vista della controffensiva. Kiev punta a mettere in piedi dodici nuove brigate per un totale di 80mila uomini con 253 carri armati, compresi quelli occidentali promessi come i Leopard 2, e 147 pezzi d’artiglieria. A fine marzo si attendevano ulteriori sei obici FH 70 dall’Italia.

Il dossier trapelato indica che gli ucraini hanno in linea 34 brigate di manovra, 13 gruppi d’artiglieria e 26 brigate della riserva territoriale che non sono preparate per una guerra di movimento. Molto di questi reparti, però, sarebbero decimati dalle perdite e dal logorio di oltre 400 giorni di guerra. Per di più la paga base del soldato è di 500 euro, che può raddoppiare a secondo delle indennità, ma alcune sono state decurtate per mancanza di fondi. “Oramai hanno raschiato il serbatoio umano disponibile.

La nuova mobilitazione non è semplice” ammette una fonte della NATO a Kiev. Le stime più attendibili, mai confermate ufficialmente, sono di 120mila fra caduti e feriti gravi o fuori combattimento.

 

Soccorritori in prima linea

“Quando non riesci a salvare il ferito e trovi nella giubba le foto dei suoi cari è il momento più difficile, di infinita tristezza” racconta commuovendosi la ragazza bionda, che ha la nonna in Italia. Mimetica, forbice da primo soccorso appesa alla giubba, distintivo “memento mori”, occhi limpidi come il cielo è pronta nell’ambulanza con la barella sporca di sangue dell’ultimo soldato in fin di vita sul fronte di Avdivka nel cuore del Donbass. La coraggiosa paramedica ucraina, ha poco più di vent’anni, ma oramai vive con la guerra dentro. Il suo compito è fra i più rischiosi: evacuare i feriti dalla prima linea, sotto il tiro dei russi.

“Due giorni fa il cuore di un soldato si era fermato. Una granata gli aveva sfondato petto, stomaco e gambe, ma lo abbiamo trasfuso e stabilizzato. Un miracolo” racconta Roman, giovane anestesista che da civile lavorava in un ospedale pediatrico. Adesso è al fronte in uno delle dozzine di centri di primo soccorso del fronte nel Donbass. Il rombo del cannone è un sottofondo ad intermittenza. Due ambulanze arrivano con i lampeggianti accesi trasportando feriti gravi barellati. Uno è colpito alla testa avvolta da bende insanguinate. Un paio di feriti più lievi barcollano scendendo dall’ambulanza con gli occhi vitrei.

Sulla fiancata spicca la scritta Moas (Migrant offshore aid station), la discussa organizzazione non governativa con sede a Malta che dal 2014 al 2017, anno del boom degli arrivi in Italia, fece la spola con le altre navi delle Ong nel Mediterraneo centrale.

Moas è stata fondata dall’italo americana Regina Catrambone e suo marito Christopher. Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, aveva concesso a Catrambone l’onorificenza di Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana “per il contributo che attraverso l’Ong Moas offre nella localizzazione e assistenza dei migranti in difficoltà nel Mediterraneo”.

In realtà il business privato dei coniugi è la Tangiers International Ltd specializzata in evacuazioni mediche, emergenza sanitaria sul terreno e pure sicurezza.

Nel centro di stabilizzazione a ridosso della prima linea i paramedici sono muti e si muovono come robot trasportando le barelle verso una sala di rianimazione dove devono strappare i feriti critici alla morte. L’obiettivo è trasferirli, entro un’ora, agli ospedali nelle retrovie per gli interventi chirurgici. All’interno del centro ricavato in un vecchio edificio sovietico sembra che ci sia il caos, ma in realtà tutti si muovono in fretta perché un attimo di titubanza può fare la differenza fra la vita e la morte di un soldato.

Odore pungente di disinfettanti, bende insanguinate, lamenti dei feriti e il vociare degli ordini si mescolano dando l’idea dei veri effetti della guerra. “La media è dai 50 agli 80 feriti al giorno, ma ci sono punte di 100 e anche più. Ne abbiamo persi solo dieci nell’ultimo mese” dichiara Oleh, il capo, un omaccione con forbice chirurgica alla cintola e cappellino da baseball.

 

La squadra fantasma della Legione Internazionale

“Ero a un metro da un soldato russo durante una battaglia durissima. La mia arma si è inceppata, ma “Flash”, il legionario francese accanto a me, gli ha sparato un colpo di pistola salvandomi la pelle” racconta con l’accento sardo, Alessio, 43 anni, veterano della guerra in Ucraina dall’inizio dell’invasione. Il volontario italiano della Legione Internazionale fa parte del “Ghost team” un’unità speciale composta da stranieri, quasi tutti ex soldati di eserciti NATO.

“Il nome deriva dal fatto che operiamo come fantasmi. Quando andiamo in ricognizione oltre le linee ucraine o all’assalto delle trincee russe non ci devono vedere. Altrimenti sono caz…” sottolinea Alessio  (il primo a sinistra nella foto sotto) che si appoggia a delle stampelle. La quarta ferita, lieve, ad una gamba, dopo la scheggia che lo scorso anno gli è entrata nel petto.

Nelle ultime settimane la squadra fantasma è impiegata a Bakhmut, ma ha subito pesanti perdite compreso il comandante polacco che è in coma.

I volontari sono integrati nel 3° battaglione dei corpi speciali ucraini, ma non possiamo rivelare ulteriori informazioni sull’unità. I documenti del Pentagono trapelati sui social, da prendere con le dovute cautele, rivelano che sul campo sarebbero presenti 97 uomini di unità scelte della Nato. I più numerosi, una cinquantina, appartengono ai reggimenti SAS e SBS britannici seguiti da 17 lettoni, 15 francesi e 14 americani. I loro compiti operativi riguarderebbero l’individuazione di obiettivi per i raid aerei e missilistici o l’utilizzo di droni da ricognizione tattica.

La squadra fantasma della Legione Internazionale che incontriamo in un punto “caldo” a ridosso del Donbass è composta da ex contractor o soldati che hanno compiuto missioni in Iraq e altri teatri operativi con gli eserciti dei loro paesi ma non fanno parte del personale inviato dalle forze armate delle nazioni aderenti all’Alleanza Atlantica.

Per raggiungere la casa “sicura”, che cambiano spesso, dobbiamo incappucciarci così non vediamo il tragitto. La squadra fantasma impiegata dall’inizio dell’invasione per “ricognizione e assalto” ha combattuto spesso contro paracadutisti e Spetsnaz, unità d’élite russe e contro i mastini della guerra della Wagner.

Uno degli scontri più duri “è durato sette ore – spiega Alessio – Il momento drammatico è quando un carro armato, arrivato troppo vicino, ci cannoneggiava. Alla fine lo abbiamo catturato intatto vincendo la battaglia”.

La “base” in mezzo al nulla è una casupola trasformato in bivacco: brande da campo, sacchi a pelo, disegni di operazioni sui muri, armi, munizioni dappertutto e un kalashnikov nero, “trofeo strappato ai russi”. Nell’ultimo anno la squadra fantasma ha compiuto un centinaio di missioni. Nel team, oltre ad Alessio, un americano, un inglese, un francese, un ceco, un ceceno e altri. Un pugno di uomini comandati da un polacco. E’ la prima volta che accettano di incontrare giornalisti.

Le operazioni vengono coordinate con le squadre di corpi speciali ucraini del battaglione e talvolta compiute in maniera combinata. “Ottimi soldati addestrati alla perfezione” assicurano i legionari. I più preparati sono le teste di cuoio del battaglione Shaman specializzate nelle operazioni in zona nemica, che hanno operato pure sul territorio della Federazione Russa con infiltrazioni segrete.

Missioni di sabotaggio che colpiscono depositi di munizioni, raffinerie, centrali di comunicazione. Il nome ufficiale è 10° Distaccamento delle Forze Speciali, specialisti addestrati dagli americani. Alcuni elementi hanno già operato al fianco delle unità di commando Usa e britanniche in Afghanistan.

Il combattente sardo della squadra fantasma ricorda che “nella Legione c’era anche Benjamin Galli ucciso da una scheggia alla testa”, giovane italiano caduto in battaglia lo scorso settembre. “Ottima persona e soldato – ricorda Alessio – Suo padre mi chiama quasi ogni sera per augurarmi la buona notte”.

Alessio però ammette che “arrivano in tanti, americani e anche dall’Italia, che restano per un paio di settimane. Quando vedono la guerra, le vere battaglie si fanno la cacca addosso e scappano. Poi pubblicano foto sui social come se fossero dei veterani. Noi li chiamiamo Tik Tok soldiers”.

Di Alessio e degli altri volontari della squadra non c’è traccia su internet. I video delle missioni del “Ghost Team” sono da paura. Il caccia russo che bombarda provocando un globo di fuoco da dove erutta una gigantesca colonna di fumo nero. Il sibilo della granata che esplode con impressionante fragore metallico a pochi metri. E subito dopo un diluvio di raffiche nella foresta con gli alberi utilizzati come copertura sbriciolati dai proiettili. Flash è il nome in codice del volontario francese, che giocherella con una bomba a mano: “Questo è l’ultimo regalo se i russi provassero a catturarmi. Non mi faccio prendere vivo”.

Nel paesaggio post atomico di un cantiere abbandonato i “fantasmi” si addestrano per la prossima missione. Poco distante tuona l’artiglieria. Il giovane ceceno con il simbolo del lupo dei ribelli del Caucaso sulla giubba spara sventagliate con la mitragliatrice pesante come Rambo. L’inglese, che ha operato in Iraq, ha un fucile mitragliatore silenziato e l’americano usa come maschera, per non farsi riconoscere, il teschio bianco disegnato su sfondo nero. “In missione uno della mia squadra è incappato in una mina a strappo – racconta l’ex militare Usa – Per liberarlo ho spezzato il filo di innesco con i denti”. Poche settimane dopo verrà ucciso nel tritacarne di Bakhmut.

Un ragazzo della Repubblica Ceca racconta, in mezzo ai ruderi di un albergo: “Quando senti fss…, il fischio della granata vuol dire che può esplodere a venti metri di distanza. Ma è quando non senti nulla che ti piomba addosso. E il tiro dell’artiglieria qui davanti era continuo”. Anche lui cadrà a Bakhmut.

Un boato sordo di un colpo in partenza di una batteria ucraina chiude la bocca a tutti per un attimo. I legionari prendono dai corpi dei caduti russi documenti e cellulari che consegnano all’intelligence. “Se troviamo lettere o foto dei loro cari, delle fidanzate le lasciamo nella giubba, per rispetto” spiega Alessio.

Il nome di battaglia del comandante polacco è “Ghost”, fantasma. “Abbiamo catturato un infiltrato russo che dava le coordinate degli obiettivi all’artiglieria – racconta. Mi urlava “ti odio, “vi uccideremo tutti””. In un villaggio semi diroccato si è fermato con il prigioniero all’unico negozietto ancora in piedi.

“Conoscevo il proprietario e sua figlia, che come tutti i bambini era sempre all’aperto a giocare” ricorda Ghost. L’artiglieria russa ha aperto il fuoco e la ragazzina viene spappolata da una granata. “Il russo lo aveva detto poco prima che sarebbe morta anche lei e adesso rideva – ricorda Ghost.

Puoi immaginare? Avrei voluto ucciderlo, ma non potevo perché aveva informazioni preziose e l’ordine era portarlo vivo al comando”. Il capo squadra polacco dopo i combattimenti a Bakhmut è in coma. Sotto la scorza da duro con la guerra dentro ci aveva confessato di “avere un’aspettativa di vita di quattro giorni”.

 

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Fausto BiloslavoVedi tutti gli articoli

Classe 1961, da 40 anni lavora come reporter di guerra. Ha realizzato il suo primo reportage durante l'invasione israeliana del Libano nel 1982. Negli anni '80 copre le guerre dimenticate dall'Afghanistan, all'Africa fino all'Estremo Oriente. Nel 1987 viene catturato e tenuto prigioniero a Kabul per sette mesi. Nell'ex Jugoslavia racconta le guerre in Croazia, Bosnia e Kosovo. E' il primo giornalista italiano ad entrare a Kabul liberata dai talebani dopo l'11 settembre 2001. Nel 2003 segue l'invasione anglo americana dell'Iraq che abbatte Saddam Hussein. Nel 2011 è l'ultimo italiano ad intervistare il colonnello Gheddafi durante la rivolta. Negli ultimi anni ha documentato la nascita e caduta dell'ISIS, ha realizzato inchieste controcorrente sulle Ong e il tema dei migranti e seguito sul campo la guerra in Ucraina. Lavora per Il Giornale, Panorama e Mediaset. Ha pubblicato "Prigioniero in Afghanistan", "Le lacrime di Allah", il libro fotografico "Gli occhi della guerra", il libro illustrato "Libia kaputt", "Guerra, guerra guerra", "Ucraina nell'inferno dell'ultima guerra d'Europa" oltre ai libri di inchiesta giornalistica "I nostri marò" e "Verità infoibate".

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