Il dilemma di Israele

 

La nuova feroce guerra tra Israele e Hamas sta dividendo il mondo e l’opinione pubblica in Occidente tra chi giustifica la reazione israeliana agli spietati attacchi compiuti sul suo territorio dalle milizie jihadiste palestinesi e chi invece considera i palestinesi eterne vittime dei soprusi e della “occupazione” israeliana. Come spesso accade quando è la propaganda intrisa di valutazioni e speculazioni umanitarie a farla da padrona su entrambi i lati della barricata, sono i temi fondamentali di carattere politico e strategico a restare nell’ombra.

Dall’Ucraina a Gaza, l’Europa resta la “Cenerentola” della politica internazionale, subisce danni gravissimi a causa della sua irrilevanza mentre si crogiola nel dibattito su chi siano i buoni e chi i cattivi, chi gli “aggressori” e chi gli “aggrediti”.  Eppure di carne al fuoco su cui definire una Politica con la P maiuscola ce ne sarebbe tanta (anche nell’ottica di scongiurare nuove ondate di attacchi terroristici islamici nelle nostre città).

La motivazione che ha spinto Hamas e i suoi sponsor a scatenare un attacco così brutale al territorio israeliano la notte tra il 6 e 7 ottobre (cinquant’anni dopo l’attacco delle truppe egiziane siriane nella Guerra dello Yom Kippur del 1973) è infatti di natura politica e strategica: bloccare il processo di normalizzazione dei rapporti tra lo Stato Ebraico e diversi paesi arabi noto come Accordi di Abramo. Finora sono stati firmate intese di questo tipo tra Gerusalemme ed Emirati Arabi, Sudan, Bahrein, Marocco mentre erano in corso trattative con l’Arabia Saudita. Nazioni arabe che si sarebbero aggiunte a Egitto e Giordania che già da molti anni hanno normali relazioni con Israele.

L’attacco di Hamas e la ferocia delle sue milizie nell’uccidere e sequestrare anche i civili israeliani sembra quindi aver avuto il solo scopo di scatenare la furia di Israele ben evidenziata dalle parole del primo ministro Benyamin Netanyahu che non ha parlato di “rappresaglia” o di “spedizione punitiva” nei confronti delle milizie palestinesi ma bensì di “vendetta”, termine non molto usuale nel vocabolario di uno statista.

Per la prima volta Hamas si è dimostrata non solo un’organizzazione terroristica e una milizia in grado di lanciare razzi contro le città d’Israele ma un’organizzazione di stampo militare ben articolata, capace di condurre incursioni in profondità nel territorio israeliano con una vera e propria invasione, anche se temporanea. Una minaccia favorita dal recente ritiro di molti reparti israeliani dalla zona della Striscia di Gaza, evidentemente ritenuta tranquilla dall’intelligence di Gerusalemme, per rinforzare i presidi a protezione degli insediamenti ebraici in Cisgiordania che subivano da tempo attacchi che col senno di poi potrebbero aver avuto proprio lo scopo di indurre Israele a sguarnire i confini con Gaza.

L’attacco di Hamas sta determinando una violenta risposta militare di Israele che inevitabilmente provocherà molte vittime tra la popolazione di Gaza, di fatto ostaggio di Hamas che da sempre impiega come scudi umani gli abitanti della Striscia come fanno solitamente tutte le milizie irregolari e in particolare quelle jihadiste, dai talebani all’Isis.

Hamas ha pianificato perfettamente l’offensiva in territorio israeliano, inclusa l’eliminazione di civili e ragazzi e di certo si è preparata molto bene anche a fronteggiare l’invasione israeliana minando strade e incroci, trasformando le cantine in bunker, preparando il territorio per difendersi in maniera strenua utilizzando i tunnel e i depositi sotterranei realizzati con il supporto dei consiglieri militari iraniani e i soldi del Qatar.

L’obiettivo è uccidere il maggior numero possibile di militari israeliani (quasi 300 i caduti in una settimana) ma soprattutto determinare la carneficina dei civili palestinesi da sbattere mediaticamente in faccia all’opinione pubblica occidentale e araba per indurre la prima a premere su Israele affinché fermi o moderi gli attacchi a Gaza e la seconda a esercitare pressioni sui rispettivi governi affinché interrompano ogni relazione con Israele.

Per conseguire questo risultato Hamas considera I civili palestinesi come quelli israeliani nonché i suoi stessi miliziani nient’altro che pedine sacrificabili e in questo l’organizzazione jihadista piò contare paradossalmente anche sull’aiuto di Israele, dove lo sterminio dei suoi cittadini ha determinato rispetto al passato un approccio meno attento ai cosiddetti “danni collaterali”.

In appena una settimana Hamas può infatti già cantare vittoria L’Arabia Saudita ha deciso di sospendere i colloqui volti a raggiungere un accordo di normalizzazione delle relazioni diplomatiche con Israele e ne ha informato gli Stati Uniti mentre altre nazioni che hanno riaperto i rapporti con Gerusalemme mostrano insofferenza verso la risposta militare di Gerusalemme.

Tra i numerosi Paesi che hanno espresso solidarietà ad Hamas vi sono il Qatar, l’Iran, la Siria, la Tunisia e l’Algeria mentre il recente accordo mediato da Pechino che ha riportato il dialogo tra l’Iran e le monarchie sunnite del Golfo sta creando nell’attuale contesto il rischio che Teheran e Riad adottino una posizione comune nei confronti dell’offensiva israeliana a Gaza.

Uno scenario che favorirebbe il prendere piede di una mediazione tra Israele e Hamas da parte della Cina e forse anche della Russia, incentrata sulla liberazione degli almeno 200 ostaggi israeliani trasferiti nella Striscia di Gaza. La posizione assunta da Pechino e Mosca, che a differenza dell’Occidente non hanno preso nettamente posizione al fianco di Gerusalemme e non hanno espresso condanne esplicite agli attacchi di Hamas, ha determinato forti critiche in Europa ma sembra avere il chiaro obiettivo di porre russi e cinesi nelle condizioni migliori per proporsi come negoziatori in questa crisi.

Anche Giordania ed Egitto hanno espresso serie preoccupazioni per le sorti della popolazione di Gaza che temono di dover accogliere.

Per trasferire parte della popolazione di Gaza in Giordania (o in Cisgiordania) bisognerebbe creare un corridoio mentre l’Egitto, che confina con la Striscia, costituirebbe uno sbocco naturale per loro ma Il Cairo non vuole comprensibilmente saperne di accogliere anche solo una parte degli oltre due milioni di palestinesi che sono cresciuti negli ultimi anni con l’educazione jihadista impartita loro da Hamas.

La popolazione di Gaza è composta per lo più da giovani e giovanissimi “educati” da 16 anni nelle scuole di Hamas, nella cultura dell’odio e del jihad e l’Egitto deve già fare i conti con le milizie dello Stato Islamico attive proprio in Sinai e con il movimento della Fratellanza Musulmana, che è stato posta fuorilegge in Egitto come “gruppo terroristico” e a cui aderisce ideologicamente anche Hamas.

In termini politici e strategici Israele deve fare i conti con il fallimento del progetto a cui lo avevano portato Stati Uniti ed Europa con fortissime pressioni e che prevedeva la cessione di territori in cambio di pace. I territori ceduti, a Gaza come nel Sud del Libano, sono diventati gli avamposti da cui colpire in profondità Israele. Sul piano militare per Gerusalemme la soluzione migliore sarebbe oggi garantirsi nuovamente il controllo di quelle fasce di sicurezza a cui lo Stato Ebraico aveva rinunciato fra il 2000 e il 2005.

Riconquistare quindi la fascia meridionale del Libano e rimettere piede a Gaza per garantirsi uno spazio di sicurezza, una ziona cuscinetto che renda meno esposto il territorio israeliano. Oppure spazzare via Hamas e riconsegnare la Striscia di Gaza all’ANP, che ha un approccio più moderato. Non ci sono altre opzioni: il negoziato con i palestinesi è finito e dopo la strage di civili israeliani del 7 ottobre la priorità per Israele torna ad essere la sicurezza.

Le opzioni sul piano diplomatico in mano ad Israele sono del resto davvero poche. Dopo l’affronto subito gli israeliani oggi devono ripristinare ad ogni costo le condizioni di sicurezza nelle regioni meridionali e per conseguire tale obiettivo dovranno spazzare via Hamas da Gaza, anche combattendo casa per casa a prezzo di perdite ingenti. Ogni altro esito dell’attuale campagna militare costituirebbe una sconfitta per Israele, militare, politica e reputazionale.

Sintetizzando Israele per vincere deve cancellare una volta per tutte la milizia jihadista palestinese mentre ad Hamas per vincere basta sopravvivere.

L’attuale conflitto impone del resto a Israele un duro esame di coscienza rispetto all’aver seguito negli ultimi 25 anni le indicazioni dell’Occidente, teso a raggiungere una pace tra lo Stato Ebraico e il mondo arabo. Israele paga infatti oggi il fallimento del progetto che prevedeva la cessione di territori da parte di Israele per ottenere in cambio la pace.

Nel 2000 il governo del laburista Ehud Barak ordinò il ritiro dalla fascia di sicurezza occupata nel Libano del Sud. Barak lo fece in cambio della garanzia che nessuno avrebbe attaccato Israele dai confini libanesi ma in realtà Hezbollah prese il controllo del confine e con il pretesto che gli israeliani non avevano abbandonato le Fattorie di Shebaa, un fazzoletto di terra al confine tra Israele, Libano e Golan siriano occupato, continuò a colpire Israele con sempre maggiore intensità grazie anche ad armi, fondi e addestramento garantiti dai pasdaran iraniani.

Tra l’altro le milizie Hezbollah si sono attestate in una posizione di vantaggio su colline da cui si domina la Galilea fino ad Haifa, nel raggio d’azione dei razzi della milizia scita.

La Striscia di Gaza è già stata “il Vietnam di Israele” che attuò il ritiro dal territorio palestinese che si affaccia sul Mediterraneo nel 2005 per volere del premier Ariel Sharon, un “falco” che smantellò anche gli insediamenti ebraici per completare il progetto “Territori in cambio di pace” consegnando la Striscia all’Autorità Nazionale Palestinese che ne perse però il controllo nel 2007, quando Hamas eliminò in combattimento e poi con esecuzioni sommarie tutti gli uomini di al-Fatah dando il via alla militarizzazione jihadista della Striscia di Gaza per riprendere la lotta contro Israele.

L’attacco di Hamas del 7 ottobre e la ripresa delle ostilità con Hezbollah, anche se per ora a bassa intensità, sanciscono quindi la completa sconfitta israeliana e la “beffa” di quegli accordi che avrebbero dovuto portare alla pace e che invece hanno solo fatto perdere a Israele regioni “cuscinetto” a protezione del territorio nazionale, facilitando così l’espandersi e il rafforzarsi di nemici sempre più agguerriti a ridosso dei suoi confini.

Israele si trova quindi di fronte a un dilemma strategico: conquistare tutta la Striscia di Gaza ed eliminare i miliziani di Hamas compromettendo anni di lavoro diplomatico per la normalizzazione delle relazioni con gli arabi, oppure limitare i raid militari a una “spedizione punitiva” e giungere a un cessate il fuoco che, permettendo ad Hamas di sopravvivere, avrebbe l’amaro sapore della sconfitta compromettendo la credibilità della politica di sicurezza israeliana.

@GianandreaGaian

Foto IDF

 

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Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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