Il caso Vannacci: una questione di diritto (per il) militare

 

La nostra recente storia, a partire dall’ultimo dopoguerra, non aveva mai portato le attenzioni della cronaca su n generale delle Forze Armate italiane come negli ultimi mesi, ove una pubblicazione editoriale di un autore, tuttora in uniforme con un grado apicale, ha provocato oltre alle note polemiche, queste sì abituali in ambito politico, un procedimento disciplinare con una sanzione particolarmente grave se si tiene conto del relativo grado rivestito e della carriera prestigiosa nell’élite dell’Esercito.

Sono stati interessati da procedimenti penali plurimi generali di tutte le Forze Armate ma sempre per le loro funzioni rivestite nell’ambito istituzionale di servizio, in frangenti strettamente di natura militare, sia in Patria che in missioni “fuori teatro”. Precedenti pubblicazioni estemporanee ristrette alla cerchia interna del consesso militare dal contenuto variegato tipo “Zibaldone” hanno avuto eco ristrettissima nell’opinione pubblica.

Premesso che gli atti, tutti, dei procedimenti disciplinari non sono pubblicamente ostensibili a fronte della normativa, anche penalistica, di cui al D. lgs 101/2018, in quanto rientrante nei dati sensibili – a meno che il diretto interessato non ne consenta ed autorizzi  la divulgazione, tenuto conto che le valutazioni professionali negative rappresentano evidentemente un pregiudizio per l’interessato – la vexata quaestio a base del procedimento disciplinare che vede interessato il generale di divisione dell’Esercito, Roberto Vannacci, verte sul diritto o meno del militare, in quanto tale, di esternare un proprio pensiero politico o che possa rivestire connotazioni politiche.

La questione non si porrebbe minimamente se fosse in esame la posizione di un “civile”, in considerazione della tutela costituzionale della libertà di esternazione del proprio pensiero anche in capo al lavoratore ed il corrispettivo divieto riservato al datore di lavoratore sulle indagini politiche del prestatore d’opera, espressamente sanciti dagli artt. 1 e 8 della legge n. 300/1970 (Statuto dei Lavoratori).

Ora verrebbe immediatamente il dubbio che lo status militare comporti qualche eccezione, con l’indicazione di precisi limiti, a tale diritto costituzionale di rango primario al cittadino con divisa e stellette.

Il “processo di democratizzazione” delle Forze armate e dei Corpi armati dello Stato è di antica data. Esempio tipico la smilitarizzazione del Corpo delle Guardie di P.S. con la L. 01.04.1981 n.121. E’ noto agli addetti ai lavori la resistenza dell’Arma dei Carabinieri a ricevere identica sorte da quando è diventata Forza armata autonoma dall’Esercito.

E’ stata definita una svolta epocale la sentenza della Corte costituzionale del 13.06.2018 n. 120 ove si dichiara la parziale illegittimità costituzionale del codice dell’ordinamento militare, in particolare l’art. 1475, comma 2, nella parte in cui veniva previsto che “i militari non possono costituire associazioni professionali a carattere sindacale o aderire ad altre associazioni” in quanto la norma è incompatibile con l’art. 11 della sovranazionale CEDU.

A premessa dell’arresto “rivoluzionario”, al Servizio Studi della predetta Corte, già nel mese precedente di marzo del medesimo anno, veniva pubblicato un interessante trattato di diritto comparato delle discipline del diritto sindacale militare vigenti nei principali paesi europei. L’Avvocatura generale dello Stato a difesa di tale divieto, in quel giudizio costituzionale, rilevava proprio “la finalità della norma censurata di coesione interna, neutralità e prontezza delle Forze armate”.

La sentenza, nelle proprie motivazioni, richiama invece la propria giurisprudenza, in particolare, “con la sentenza n. 126 del 1985 si è affermato che la legge n. 382 del 1978, prevedendo che spettano ai militari i diritti dei cittadini e stabilendo che, ex lege, possono essere imposte ai militari limitazioni nell’esercizio di tali diritti e l’osservanza di particolari doveri al (solo) fine di garantire l’assolvimento dei compiti propri delle Forze armate, «rispecchia l’esigenza, la quale promana dalla Costituzione, che la democraticità dell’ordinamento delle Forze armate sia attuata nella massima misura compatibile col perseguimento da parte di queste dei propri fini istituzionali».

Ancora: “Con la pronuncia n. 278 del 1987, questa Corte ha poi chiarito che la Costituzione repubblicana ha superato radicalmente la logica istituzionalistica dell’ordinamento militare e ha ricondotto anche quest’ultimo nell’ambito del generale ordinamento statale, particolarmente rispettoso e garante dei diritti sostanziali e processuali di tutti i cittadini, militari oppure no”.

La successiva norma di recepimento della censura costituzionale e relativo principio costitutivo del rafforzamento dei diritti sindacali dei cittadini-soldati veniva concretizzato con la L. 28.04.2022 il cui testo veniva pervasivamente abrogato e sostituito a fronte del recente D.Lgs 24.11.2023 n. 192.

L’interpretazione autentica della Corte Costituzionale era già stata comunque recepita dalle istituzioni con la conferma del principio costituzionale democratico richiamato proprio nel vigente Codice dell’Ordinamento militare (D. Lgs 15.03.2010, n. 66) oggetto del predetto esame della Corte. In particolare, nel Capo II del Titolo IX, evocativamente intitolato “Liberta fondamentali”, vi è anche l’art. 1472 “Libertà della manifestazione del pensiero” costituito da tre commi. E’ sempre bene richiamare il dettato letterale nel suo testo in vigore dal 27.03.2012 in modo che tutti possano esercitare autonomamente la propria interpretazione della norma medesima:

  1. “I militari possono liberamente pubblicare loro scritti, tenere pubbliche conferenze e comunque manifestare pubblicamente il proprio pensiero, salvo che si tratti di argomenti a carattere riservato di interesse militare ((o di)) servizio per i quali deve essere ottenuta l’autorizzazione.
  2. Essi possono, inoltre, trattenere presso di sé, nei luoghi di servizio, qualsiasi libro, giornale o altra pubblicazione periodica.
  3. Nei casi previsti dal presente articolo resta fermo il divieto di propaganda politica”.

Ne consegue che l’unica restrizione che inficia il diritto costituzionale di manifestazione del proprio pensiero al cittadino militare è l’argomento in sé, ovvero di interesse militare o di servizio e sempre che sia “a carattere riservato”. Non è un divieto assoluto in quanto anche argomenti di interesse militare o di servizio possono essere pubblicati previa autorizzazione. Infatti, l’art. 1473 successivo ne determina le relative procedure istituendo, quindi, un organo “censore”.

L’Autorità competente ha recentemente autorizzato la pubblicazione di diversi libri, scritti in prima persona da militari in servizio, con dovizia di particolari, che hanno partecipato direttamente ad eventi costituiti da fatti d’arme in cui sono state coinvolte le Forze armate italiane. Un tempo, vero e proprio tabù.

Non potendo esaminare gli atti del procedimento disciplinare, si può solo desumere che l’Autorità militare censoria si sia attivata ex post esaminando il contenuto del libro pubblicato dal generale Vannacci. Le espressioni dei militari in servizio del proprio pensiero sui social sono sempre state monitorate dalla catena di comando e la giurisprudenza amministrativa, in ordine alle impugnazioni delle relative e successive sanzioni disciplinari, sancisce un obbligo dei militari nell’esercitare il proprio diritto di critica con un linguaggio obiettivo, corretto, non diffamatorio.

Ordine – disciplina – democrazia. Un interessante bilanciamento degli interessi, “pane quotidiano” della Corte Costituzionale.

E’ certo che l’amministrazione militare, cercando di limitare un diritto costituzionale richiamato nel proprio ordinamento, dovrebbe emanare il proprio provvedimento con un notevole sforzo motivazionale onde evitare quello che, in terminologia tecnica (ed anche forse sostanziale), viene definito un eccesso di potere, ovvero costituito da quei vizi formali quali la manifesta illogicità ed irragionevolezza, il travisamento dei fatti ed, in ultimo, la sproporzionalità dell’atto amministrativo.

In difetto, la giustizia civile amministrativa invocata a propria tutela potrebbe annullare il tutto, evidenziando che l’oggetto della manifestazione del pensiero politico (da πόλις) del cittadino militare Vannacci è stato contrastato da un censore militare con un atto illegittimo da un punto di vista formale e/o sostanziale, in contrasto con  il secondo comma dell’art. 97 della Costituzione:  “I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione, vero cardine della vita amministrativa e quindi condizione dello svolgimento ordinato della vita sociale” (Sent. Corte Cost. n. 123 del 1968).

 

Lorenzo BorghiVedi tutti gli articoli

Classe 1967, già Ufficiale Paracadutista e Legal Advisor per l'Esercito Italiano nelle Forze di Completamento con impiego anche in operazioni oltremare. Esercita la professione di avvocato a Bologna ed è specializzato in diritto militare.

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