Paura della vendetta talebana. Afghani in fuga con i nostri soldati

di Enzo Piergianni da Libero del 24 agosto 2012

Interpreti, autisti, infermieri, cuochi e domestici al servizio dei militari Isaf chiedono asilo in Germania: «Se restiamo ci ammazzano tutti» «Ci daranno la caccia finchè ci avranno ammazzati tutti». Questo il disperato Sos lanciato dagli afghani che lavorano per il contingente tedesco dell’Isaf e vogliono rifugiarsi in Germania per sfuggire alla vendetta dei talebani contro i “collaborazionisti”. Una bomba umanitaria minaccia di scoppiare nei ministeri berlinesi. Ma non solo qui, perché lo stesso problema degli esuli afghani riguarda anche l’Italia e gli altri Paesi partecipanti alla missione Isaf in Afghanistan che hanno reclutato personale locale nel proprio contingente. «Ogni giorno prego Allah affinché le truppe dell’Isaf non si ritirino dal mio Paese tra due anni, come previsto», ha confidato agli inviati dello Spiegel il 27enne Mohammed Schah, «se i soldati tedeschi vanno via, io non solo perdo il lavoro, ma devo anche temere per la vita mia e della mia famiglia». Lo hanno intervistato all’uscita della moschea di Masar-i-Sharif, dove è stazionato il quartier generale dei circa cinquemila militari della Bundeswehr in Afghanistan. Nella regione settentrionale presidiata dai tedeschi, gli afghani sul libro paga di Berlino sono tra 1.600 e tremila, a seconda delle necessità. Insieme con i familiari formano una massa ansiosa di almeno 15-20mila persone. Sono classificati come “Helfer” (aiutanti). Nel gergo di caserma, il nome ha un suono benevolo e rammenta quello degli “ascari”, i volontari indigeni di una volta ai tempi delle colonie africane. Lavorano negli uffici, nelle caserme, negli accampamenti in prima linea come negli ospedali nelle retrovie. Sono interpreti, autisti, infermieri, magazzinieri, cuochi, giardinieri, domestici. E perfino religiosi: in una lista timbrata dal ministero tedesco della Difesa, con tanto di numero di protocollo, sono elencati anche “due imam”. Mohammed Schah da sei anni fa l’interprete nel grande deposito militare di Camp Marmal e tiene i contatti con la popolazione locale. Guadagna 700 dollari al mese. Ogni giorno indossa il giubbotto antiproiettile e accompagna i soldati tedeschi nei pattugliamenti. Il pericolo di imboscate e attentati è sempre nell’aria. I caduti della Bundeswehr finora sono più di 50, i civili non si contano. «I talebani sanno bene chi lavora per la Nato», afferma Mohammed Schahm, «già adesso ci minacciano con volantini e addirittura con sms. Ci considerano traditori perché abbiamo aiutato gli stranieri». È convinto che quando sarà scomparso lo scudo dell’Isaf, a Kabul e nel resto del Paese non si potrà più fare affidamento sulla protezione dello Stato afghano: «Davanti ai talebani scapperanno tutti». Per i “collaborazionisti” si prefigurano scenari orrendi, con processi sommari e pubbliche esecuzioni, per mostrare che i talebani sono implacabili con gli oppositori. Un primo annuncio del portavoce talebano Sabihullah Mudschahed sembra già una condanna a morte: «Quando gli stranieri se ne saranno andati, i collaborazionisti pagheranno il prezzo del loro tradimento». A Berlino, il ministero dell’Interno ha organizzato un coordinamento interministeriale con gli Esteri e la Difesa per fronteggiare l’emergenza. «Non possiamo lasciare nei guai coloro che ci hanno appoggiato», fanno sapere gli alti gradi della Bundeswehr, «il problema è in quale maniera possiamo aiutarli sul serio». I nuovi “ascari” vedono la propria salvezza nel visto d’ingresso in Germania, ma da parte tedesca c’è la fondata preoccupazione di un’ondata di arrivi in cui possa infiltrarsi molta gente pericolosa. Al Bundestag affiora un consenso trasversale dei partiti per dare rifugio agli esuli, ma valutando caso per caso le singole posizioni. Un po’ come già fanno gli americani, che ogni anno programmano 500 visti di immigrazione negli Stati Uniti per i loro “ascari” afghani.

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