F-35: ci serve il miglior cacciabombardiere

di Vincenzo Camporini

Quando si parla di strumento militare occorre ovviamente partire dalla situazione strategica, dalle sue possibili evoluzioni e dalle capacità operative che in tali contesti si ritiene di dover possedere. E’ un percorso logico imprescindibile e che pertanto vale anche per la dibattuta questione F35. Non volendo scrivere un trattato, ma limitandomi all’essenziale, osservo che nell’immediata prossimità dall’isola felice europea (nonostante crisi economica e recessione) si stanno moltiplicando le situazioni di instabilità, con crescenti evidenti rischi di conseguenze dirette per il benessere dei nostri concittadini; un po’ più lontano (ma quanto può contare la distanza oggi?) Russia, India, Cina, Giappone, le due Coree stanno affilando i coltelli: in questo quadro qualcuno ritiene davvero che l’atteggiamento giusto per i membri dell’Unione Europea sia quello di un disarmo unilaterale? Disarmo peraltro avviato nei fatti con drastiche riduzione degli strumenti militari dei singoli paesi (attuati peraltro in modo non coordinato), a partire dalle potenze militari storiche, Regno Unito e Francia, la prima con un taglio di effettivi delle forze di terra a 72.000 unità e la rinuncia  temporanea (per un decennio!) alla capacità di proiezione dal mare, la seconda, tra l’altro, con l’escamotage di tenere pronti al combattimento un numero limitato di piloti dell’Armé de l’Air, mettendo gli altri in ‘naftalina’.

Se, come diceva Sun Zu, l’esercito migliore è quello che vince le guerre senza combatterle (e la NATO, con l’esito della guerra fredda è stata l’apoteosi di questo concetto), per non dover combattere, bisogna avere un’adeguata capacità di deterrenza, che deriva dalla disponibilità di uno strumento credibile, unita alla palese capacità politica di ricorrervi, anche se solo in caso di estrema necessità.
Lo strumento militare dunque serve ancora, ma per essere credibile deve disporre di tutte le capacità ragionevolmente disponibili, da quella di controllo del territorio, con un numero adeguato di ‘boots on the ground’, supportati da un sistema informativo capillare, che faccia uso delle tecnologie emergenti (satelliti, drones, strumenti per la ricognizione elettronica, compreso l’ascolto), capacità di comando e controllo che si basi su strutture solide  e infrastrutture dedicate, adeguata protezione del territorio e delle vie di comunicazione vitali (difesa aerea, controllo dei mari di interesse), capacità di interdizione per rendere inoffensive le sorgenti della minaccia (proiezione di forza, ovviamente anche per via marittima). In particolare, per quanto attiene al potere aereo, la recente esperienza libica (al di là della assoluta inopportunità, a mio parere, di tale intervento) ci dice che ancora oggi sono necessarie la capacità di ricognizione, quella antiradiazione, la capacità aria-aria, e la capacità aria-superficie. Quindi, tagliando tutti i passi intermedi, un cacciabombardiere ci serve, anzi, ci serve il miglior cacciabombardiere possibile, per potere operare fianco a fianco con gli alleati, per minimizzare le possibili perdite, per assicurare la massima efficacia, minimizzando e se possibile azzerando i danni a chi non è direttamente coinvolto nelle ostilità.

L’Eurofighter non è un cacciabombardiere: nasce come velivolo per la difesa aerea, così strenuamente voluto dalla Germania che acconsentì a malincuore, purché a spese altrui, allo sviluppo di alcune modifiche volute da UK per consentirgli di montare anche armamento aria-suolo. E’ oggi, a 31 anni dall’avvio del programma, un buon sistema nel ruolo aria-aria, anche se l’industria non ha ancora completato tutte le fasi dello sviluppo (l’integrazione AMRAAM è parziale e consente di sfruttare solo limitatamente le possibilità del missile), a costi peraltro assai rilevanti, sia di acquisizione, sia di esercizio, di molto superiori a qualsiasi proiezione di costi per F35.
Contrariamente a quanto alcuni affermano, la Germania non ha mai manifestato l’intendimento di acquisire un ulteriore lotto, con capacità aria suolo che dovrebbe finanziare in toto, per sostituire i vetusti Tornado e l’impiego di Eurofighter britannici nella campagna libica rispondeva più alla necessità di contrare commercialmente l’impiego di Rafale da parte francese, che a un effettivo calcolo di efficacia operativa.

Veniamo ai difetti del Lightning II: innanzitutto un’osservazione sulla inusitata trasparenza del programma, ampiamente dimostrata dal fatto che i problemi che emergono durante lo sviluppo sono di dominio pubblico, come mai accaduto nel passato: non oso pensare che cosa sarebbe successo all’AM-X se qualche giornalista fosse venuto in possesso degli impietosi rapporti redatti dai miei piloti e dai miei ingegneri alla Sperimentale durante le prove intensive. E’ un atteggiamento che sfiora l’autolesionismo e che fa anche sospettare che al ‘trafilamento’ di qualche notizia non sia estraneo l’interesse di Boeing a sostenere il ‘Silent Eagle’, epigono di quel meraviglioso sistema F-15, che avremmo potuto avere anche noi come ‘gap filler’ tra lo Starfighter e l’Eurofighter, basti vedere l’aggressività della ditta di Seattle in Canada e nella Corea del Sud. Ma il punto fondamentale è che le prove condotte durante lo sviluppo si fanno proprio per identificare problemi e difetti da correggere prima dell’entrata in servizio: se non emergessero problemi e difetti, sorgerebbe il legittimo dubbio di non trovarci di fronte al prodotto della tecnologia più avanzata, ma a qualcosa di ben più modesto e certamente davvero obsoleto. Se si può e si deve fare una critica al programma nel suo complesso, questa sta nella decisione, a mio avviso azzardata, troppo azzardata, di procedere all’avvio della produzione, ancorché in ‘low rate’, troppo presto durante lo sviluppo, anche se con l’impegno di retrofit per conseguire uno standard aggiornato.

A parte la difficoltà di portare allo stato più avanzato i primi velivoli prodotti (noi vi abbiamo rinunciato sia con il primo lotto Eurofighter, sia con lo AM-X, perché troppo oneroso e tecnicamente di dubbia fattibilità), mi preoccupano i problemi di controllo di configurazione, che hanno pesanti risvolti di tipo sia logistico che operativo e addestrativo: confido che l’informatica sia la chiave per risolvere anche questa difficoltà, ma non sarà né facile, né indolore. Qui mi fermo, per ora, in ogni caso pronto e disponibile ad alimentare un dibattito che finora in Italia, per motivi che non esito a definire di facile populismo, è stato indubbiamente a senso unico.

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