"L'invincibile" Stato Islamico verso la Giordania

Il sito specializzato israeliano Debka, nelle“news” sulla situazione in Siria, dà notizia che le milizie dell’ISIS (o IS, ISIL, Daesh), dopo la conquista di Palmira, stanno ora muovendo con colonne di blindati di fabbricazione USA catturati all’esercito iracheno in direzione della Giordania.
Secondo le fonti di “Debka”, lo scopo iniziale delle milizie è prendere possesso dei confini (vedi precedente articolo di “Analisi Difesa”) e raggiungere verso il giorno 26 l’incrocio del confine siro-giordano-iracheno nei pressi di al-Tanf, distante circa 250 chilometri da Palmira. Dopodiché si teme che le milizie penetrino in Giordania occupando i villaggi nell’area nord-orientale ed in particolare Ar Ruwayshid, in cui si trovano circa 800 mila rifugiati siriani.

Come riporta più in dettaglio il giornale israeliano Haaretz, uno sguardo alla mappa spiega la strategia jihadista. Palmiira si trova ad ovest rispetto agli importanti centri di Deir al-Zor e Raqqa collegati da un’arteria stradale che poi conduce verso Homs e Damasco. Il controllo di queste arterie taglia fuori l’esercito siriano dalle principali aree in cui è ancora presente nella Siria occidentale, lasciando aperto solo il collegamento tra Damasco, i Monti Qalamoun e Latakia, sulla costa mediterranea, considerata l’ultima roccaforte di Assad.

Riguardo la situazione sul campo, Debka afferma che l’esercito giordano, temendo l’iniziativa jihadista, si è già da tempo rafforzato sui confini occidentali dalla frontiera con Israele fino ad al-Tanf, in prossimità del confine iracheno. E’ presumibile che l’avanzata giunga invece dai più sguarniti confini orientali, e che possa raggiungere velocemente anche quelle aree come la città di Ma’an, nel sud della Giordania, dove esiste un aperto sostegno all’ISIS.

Debka ricorda che la Giordania può contare sulla presenza sul suo territorio di circa 7.000 militari americani, in particolare personale delle Forze Speciali e dell’Aeronautica concentrati nell’area di al-Mafraq, loro potenti alleati nella Coalizione anti-ISIS. Una coalizione che, almeno sulla carta, rappresenta una forza davvero poderosa visto che coinvolge, secondo il conteggio del Segretario di Stato USA John Kerry, ben 62 nazioni tra cui persino la pacifica e neutrale Svizzera, tutte partecipanti in vario modo, dai contributi di solidarietà a quelli finanziari fino all’impegno militare diretto, alla lotta contro gli jihadisti.

E nel panorama dei “coalizzati” non manca nemmeno l’Italia che, come qualcuno ricorderà, ha inviato in Iraq armi leggere per i combattenti curdi (vedi articolo)  oltre a 4 caccia Tornado –  esclusivamente con compiti di ricognizione – e circa 280 militari come addestratori. Tutto questo avrebbe dunque dovuto condurre a uno rapido smantellamento dell’armata jihadista che invece continua in quella che sembra un’incontenibile marcia di vittoria in vittoria.

Verrebbe da chiedersi se questa “Coalizione” non sia altro che una sorta di ambigua cortina fumogena a meno che, in alternativa, non si voglia considerare che l’ISIS disponga di una potenza militare che soverchia quella occidentale e quella di tutti i suoi alleati nella regione, che oltretutto sono tra i Paesi più ricchi al mondo.

Ma allora perché è stata messa in piedi una poderosa Coalizione anti-ISIS se poi, sul terreno, combina poco o nulla?

E’ forse allora il caso di considerare questa Coalizione per quello che realmente ha dimostrato di essere, cioè un’entità che, almeno in Occidente, sembra soprattutto svolgere un ruolo mediatico per le rispettive pubbliche opinioni, disorientate dagli atti di barbarie che vedono accadere sotto i propri occhi, e che non riescono a comprendere perché non si agisca com’è invece stato fatto in altri casi quali Libia, l’Iraq, l’Afghanistan.

C’è qualcos’altro però che bisogna mettere in evidenza. Fin troppo spesso i telegiornali riportano immagini di colonne jihadiste con pick-up nuovi di zecca, sovraccarichi di armi e munizioni, a volte perfino dotati di carri armati e artiglieria.

Eppure, ci dicono, i jihadisti sono dei volontari che provengono da tutte le parti del mondo, a cominciare dall’occidente, e si presumono quindi privi di un serio addestramento militare, probabilmente scoordinati, in conflitto tra loro e con strategie diverse, il che equivale a dire scarsamente efficaci sul piano militare. Invece no.

Visti i risultati, si direbbe esattamente l’opposto. Ma oltre a questo, ciò che viene più spesso trascurato è il fatto che hanno una logistica, dispongono cioè di un’alimentazione pressoché continua di mezzi, armi e munizioni, senza i quali le loro vittorie non ci sarebbero state.

Di solito, a questa osservazione viene risposto che i jihadisti sono entrati in possesso di depositi d’armi siriani e iracheni, e che utilizzano quelli. Ma anche se questo è certamente vero non basta da solo a spiegare una disponibilità di rifornimenti bellici che data ormai dal 2011.

Indubbiamente la realtà è ben più complessa di quel che appare, a cominciare dall’ambigua Coalizione anti-ISIS che, vista in un’altra prospettiva, tolti gli apporti di circostanza (come quello italiano o della Svizzera), di fatto sembra raggruppare non tanto gli avversari dell’ISIS quanto piuttosto quelli dell’Iran e della Siria di Assad che, di fatto, sono invece gli unici che combattono l’ISIS anche se nessuno li vuole nella Coalizione.

Questo dunque può far comprendere come mai, in realtà, l’ISIS non venga efficacemente contrastato, salvo nei casi delle frange più estremiste che violano i limiti di una situazione già definita in precedenza e a più alti livelli. Questo fa comprendere certe ambiguità che si sono viste anche di recente, come ad esempio il caso della nave turca fatta bombardare dal governo libico perché accusata di trasportare armi ai jihadisti.

Oppure il caso delle forze statunitensi hanno cominciato ad addestrare ribelli siriani anti-Assad sostenendo, come ha fatto il Segretario alla Difesa Carter, che questi ribelli combatteranno sia contro Assad che contro i jihadisti. Si potrebbero poi ricordare gli attacchi USA a 3 raffinerie siriane ed il progetto turco di imporre una no-fly-zone sulla Siria che, se attuato, verrebbe unicamente a favorire i jihadisti. Non si contano poi le numerose accuse al governo saudita – tra l’altro primo importatore di armi al mondo nel 2014 (vedi articolo)  di essere il primo sponsor dell’ISIS.

Infine, un’altra anomalia riguarda Israele, il nemico per antonomasia dei fondamentalisti islamici, verso il quale però i miliziani jihadisti hanno finora dimostrato il massimo disinteresse.
La questione dell’ISIS e delle sue travolgenti avanzate impone ormai la fine di tutte queste ambiguità, ed appaiono dunque un po’ fuori tono le recenti dichiarazioni  dell’Alto Rappresentante per la Politica Estera dell’Unione Europea, Federica Mogherini, rilasciate in occasione di una premiazione dell’Istituto Studi di Politica Internazionale.

La risposta militare è una scelta necessaria ma non sufficiente” ha affermato la Mogherini, un concetto su cui, peraltro, si potrebbe in qualche modo anche essere d’accordo. Ma cosa fare allora, concretamente, per sconfiggere definitivamente l’ISIS una volta per tutte?

“Solo se l’Iraq sarà un paese solido, inclusivo e democratico, solo se la Siria si avvierà finalmente sulla strada della transizione politica e della riconciliazione nazionale, solo se sapremo mostrare e dimostrare che parole come diritti, sviluppo e pace non sono privilegio di pochi, nel mondo arabo come in Europa e nel resto del mondo”.
Bene, ora sappiamo in che modo intende procedere l’Europa. E lo sa anche l’ISIS.

Foto: RAI, Stato Islamico, Haaretz, al-Arabiya

Padovano, classe 1954, è Colonnello dell'Esercito in Ausiliaria. Ha iniziato la carriera come sottufficiale paracadutista. Congedatosi, ha conseguito la laurea in Giurisprudenza ed è rientrato in servizio come Ufficiale del corpo di Commissariato svolgendo incarichi funzionali in varie sedi. Ha frequentato il corso di Logistic Officer presso l'US Army ed in ambito Nato ha partecipato nei Balcani alle missioni Joint Guarantor, Joint Forge e Joint Guardian.

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