L’Ora d’Oro e il costo amaro dei feriti di guerra

Se si chiedesse ad un gruppo di esperti della difesa di identificare i più importanti e significativi sviluppi ottenuti nelle tecnologie e nelle procedure operative militari nel corso degli ultimi venti o trent’anni, quasi certamente le risposte oscillerebbero tra lo “stealth” e la guerra cibernetica, con magari qualche accenno alla difesa anti-missili balistici. E si tratterebbe di risposte errate, o quanto meno incomplete. Uno dei più importanti, e anzi forse il più importante tra gli sviluppi che hanno cambiato e stanno cambiando il volto dei conflitti è senza dubbio rappresentato dagli straordinari progressi che sono stati ottenuti in tutti gli aspetti della medicina militare d’emergenza. Questo riguarda il complesso di procedure, tecnologie, mezzi, addestramento e strutture per far sì che i feriti in combattimento siano immediatamente trattati, stabilizzati (impedire che le loro condizioni si aggravino), evacuati dal campo di battaglia il più rapidamente possibile, e trasferiti in tempi brevissimi in ospedali dotati di tutte le migliori risorse della medicina moderna.

 

 

 

 

 

 

 

A partire dalla guerra del Vietnam, e sulla spinta delle esperienze di quel conflitto, gli Stati Uniti hanno condotto uno straordinario sforzo scientifico e tecnologico, sostenuto da un fortissimo impegno finanziario, per arrivare a sfruttare al meglio quella che viene definita come “Golden Hour”, “l’Ora d’Oro”: il primo, breve periodo subito dopo aver ricevuto la ferita, periodo in cui il trattamento che il colpito riceve (o non riceve) è di importanza decisiva per la sua sorte. Questo sforzo è stato perseguito lungo due direttive principali: da un lato, la crescente importanza del CASEVAC (Casualty Evacuation, evacuazione di feriti condotta senza supervisione e trattamento medico e senza velivoli attrezzati) e MEDEVAC (Medical Evacuation, trasporto di feriti o pazienti sotto supervisione medica fino a una struttura attrezzata che rappresenta una parte integrale del trattamento medico); dall’altro, il cercare di portare strutture mediche adeguate il più vicino possibile al luogo degli scontri, al punto che oggi anche i “semplici” ospedali militari mobili sono in effetti dei centri d’emergenza attrezzatissimi.

Questa vera e propria rivoluzione americana nella medicina militare d’emergenza è stata beninteso replicata, anche se su scala necessariamente più modesta, anche dagli altri principali paesi occidentali. E in ogni caso, nel quadro di operazioni militari in coalizione (che oggi tendono ad essere la norma), le strutture americane rimangono a disposizione anche degli alleati.
Tutto questo è stato messo in opera per motivazioni e obiettivi un po’ più ampi della esclusiva preoccupazione per il benessere dei soldati, e del “never leave a buddy behind”, non si lascia indietro un camerata. Un esercito di professionisti, se vuole mantenere l’indispensabile flusso di nuove reclute, deve dimostrare di prendersi sempre la massima cura dei suoi uomini, ed evitare assolutamente di essere percepito come una specie di “tritacarne” senza scrupoli. Il personale in servizio, e ancor più i giovani che potrebbero indursi a firmare, devono invece sapere di poter contare in caso di necessità su un’assistenza medica immediata e validissima, almeno pari se non addirittura superiore a quella di cui possono beneficiare dei civili vittime di incidenti stradali o sul lavoro.

 

 

 

 

 

 

Ma a parte le motivazioni, quello che conta sono i risultati – e i risultati che sono stati ottenuti non possono essere definiti in altro modo che straordinariamente, eccezionalmente positivi. Il rapporto tra morti e feriti in combattimento (KIA/WIA per i patiti della terminologia anglosassone), che era tra 1:2,5 e 1:3 durante la Seconda guerra mondiale (cioè un morto per ogni tre feriti) e ancora di 1:4 in Vietnam, è salito a 1:8 in Iraq ed è attualmente di oltre 1:10 in Afghanistan. Attenzione a comprendere bene il significato delle statistiche. Questi dati non significano certo che vi siano più feriti che in passato ma piuttosto che molti feriti, che in passato soccombevano ancora sul campo di battaglia o comunque prima di arrivare in ospedale, oggi possono essere salvati.
Si deve certo tener presente che questi risultati sono stati resi possibili non solo dagli sforzi che sono stati profusi per ottenerli, ma anche dalla natura stessa dei conflitti contemporanei: in pratica, operazioni di grande polizia coloniale, e quindi caratterizzate da scontri sporadici, di breve durata e molto localizzati, sicurezza totale delle retrovie a parte gli occasionali attentati terroristici, ecc. Ma ciò non toglie che si tratta di risultati, per ripeterlo ancora, eccezionalmente positivi.

 

 

 

 

 

 

Ma adesso, anche se nessuno ha ancora il coraggio di dirlo apertamente, si sta cominciando a rendersi conto che forse non è tutto oro quel che luccica.La minaccia principale posta dagli attuali conflitti asimmetrici è senza alcun dubbio rappresentata dalle trappole esplosive improvvisate (IED). Per loro stessa natura, queste tendono a infliggere ferite devastanti, che portano alla perdita di arti (sia traumatica, e sia dovuta a successive amputazioni chirurgiche d’emergenza) e/o a gravi ustioni. Sino ad un passato ancora recente, la maggior parte delle vittime di IED sarebbe certamente morta sul posto o subito dopo. Ma oggi, e grazie appunto agli straordinari progressi nella medicina d’emergenza, possono invece essere salvate. Il risultato finale è però che gli Stati Uniti stanno riportandosi a casa un numero proporzionalmente assai elevato di invalidi, parziali o totali: veterani mutilati (spesso multipli) e completamente sfigurati da ustioni. L’impatto di questa situazione sulle famiglie e sulla società civile nel suo complesso, anche sul solo piano psicologico, non può certo essere ignorato o trascurato. E in più, rimane la necessità di coprire gli elevatissimi costi per la riabilitazione del personale, il suo reinserimento (quando e come possibile) nel mondo del lavoro, le pensioni di invalidità, l’assistenza medica specializzata per tutto il resto della vita.


 

Le FFAA americane, e specificatamente il Department of Veterans Affairs, non si sono certo tirate indietro. Ad esempio, uno sforzo par molti versi simile a quello dedicato all’ “Ora d’Oro” è stato condotto nei settori della chirurgia plastica ricostruttiva e degli arti artificiali, e anche qui sono stati rapidamente raggiunti dei risultati straordinari che, anche al di là dello specifico problema dei veterani americani, andranno a beneficio di milioni di persone in tutto il mondo. Il problema è che tutto questo ha portato ad una vera e propria esplosione dei costi – anche perché il DVA, sotto la pressione dell’opinione pubblica e dei tribunali, ha riconosciuto il diritto a pensioni di invalidità anche a tutti coloro che risultano essere stati esposti all’ “Agent Orange” in Vietnam, e a quanti soffrono (o affermano di soffrire) di disordini post-stress traumatico, depressioni o ansie a causa del loro servizio. Come risultato, il DVA ha un bilancio di 138,5 miliardi di dollari nel FY03 (più del doppio del suo bilancio nel 2005, e un aumento del 58% rispetto al 2009), che dovrebbe salire ancora a oltre 152 miliardi nel 2014. Per mettere queste cifre nella loro corretta prospettiva: una volta effettuate le necessarie correzioni per l’inflazione, il DVA spende oggi di più di quanto non spendesse negli anni immediatamente successivi alla fine della 2.a Guerra Mondiale, nonostante la presenza di milioni di veterani (nel’anno di picco, cioè il 1947, si arrivò a spendere 87 miliardi ai valori attuali).

 

 

 

 

 

 

 

 

Il DVA non è stato minimamente toccato dai recenti tagli di bilancio, e appare del tutto escluso che possa esserlo in futuro: nessun membro del Congresso sano di mente vorrebbe mai vedere il suo nome associato ad una proposta di riduzione dei benefici garantiti ai veterani, e soprattutto agli invalidi. E’ però altrettanto evidente che il problema non potrà essere ignorato indefinitamente.
Si moltiplicano così le affermazioni e le ammissioni a mezza bocca, anche all’interno dello stesso DVA, circa il fatto che il sistema attuale è “travolto dalle richieste”, e quindi non solo “insostenibile” ma anche “inefficiente”, “troppo lento”, “inadeguato”. Almeno al momento, l’idea sembra essere quella di procedere ad una cauta revisione dei criteri per la concessione dei vari benefici (che verrebbe però presentata come a vantaggio degli stessi assistiti), e in prospettiva arrivare a scaricare la maggior parte delle relative responsabilità sul settore civile – che non sembra però molto disposto a collaborare.

Qualche nube sembra addensarsi anche sul piano psicologico. Per impedire che la presenza sin troppo evidente di invalidi e mutilati possa avere un qualche impatto negativo sui livelli di motivazione del personale in servizio, o/e sui tassi di arruolamento, si sta facendo ricorso ad una “retorica del mutilato di guerra” che ricorda abbastanza da vicino quella dell’Italia del periodo tra le due guerre: gli invalidi sono sempre descritti nei documenti ufficiali come “Wounded Warriors”, Guerrieri Feriti (rigorosamente con le maiuscole) che non hanno “perso” un arto bensì lo hanno “donato”, e così via. Se questo possa davvero servire allo scopo, o non rischi piuttosto di causare una crisi di rigetto, rimane da vedere. Ma soprattutto, ci si comincia a chiedere cosa potrebbe succedere nel caso di conflitti futuri combattuti su scala più vasta e dura rispetto all’ Iraq e all’ Afghanistan, quando non sarà più in nessun modo possibile garantire che un ferito si ritrovi, nel giro di 24 ore al massimo, in uno dei migliori ospedali del mondo.

Ezio BonsignoreVedi tutti gli articoli

Laureato in Scienze Politiche, ex-ufficiale di Marina, è da oltre trent'anni giornalista specializzato nel settore della difesa a livello internazionale. Prima con Interconair, poi con Parabellum e infine con il gruppo tedesco Mönch, presso il quale ha ricoperto gli incarichi di Redattore Capo della rivista Military Technology e al tempo stessi Direttore Editoriale per tutte le pubblicazioni in lingue diverse dal tedesco. Ha fondato la RID con Giovanni Lazzari dove è stato Redattore Capo. Attualmente cura la redazione della pubblicazione annuale World Defence Almanac.

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