OPERAZIONE BARKHANE: LA GUERRA DI PARIGI AI JIHADISTI NEL SAHEL

La conferenza stampa era quasi conclusa. Jean-Yves Le Drian, ministro della difesa francese, non ne aveva ancora accennato. Eppure erano già le 19 di mercoledì 11 marzo. I giornalisti presenti erano ormai intenti a scrivere i pezzi sulla gran mole di temi trattati. E la notizia è uscita all’ultimo, quasi in secondo piano anche se non è certo irrilevante.

L’Operazione Barkhane che da un anno vede i militari francesi e dei Paesi del Sahel impegnati a contrastare i miliziani jihadisti sarà rinforzata, sia per mantenere la pressione sui gruppi jihadisti operanti nell’area sahelo-sahariana, sia per puntellare gli sforzi africani nel contrasto a Boko Haram. La Francia non sarà in prima linea contro i terroristi nigeriani, ma interverrà «nel sostegno logistico e informativo alle forze ciadiane, nigerine e camerunensi, impegnate sul terreno». È solo il caso di ricordare che, dall’8 marzo, Ciad e Niger hanno sferrato una vasta offensiva contro i santuari di Boko Haram nel nord-est della Nigeria.

La Francia appoggia le manovre con una Cellula di coordinamento e contatto, istituita in Ciad, al Posto comando di teatro dell’Operazione Barkhane. I paesi del Lago Ciad vi si scambieranno le informazioni e tenteranno di coordinare le risposte. Parigi sta già spingendo i suoi ricognitori aerei fino alle frontiere nigeriane e sul nord del Camerun. Almeno ufficialmente non penetra oltre. Monitora la situazione, ma sta preparando il terreno a qualche manovra d’urgenza.

Tanto è vero che ha attivato un distaccamento di coordinamento e contatto, sostenibile autonomamente, a Diffa, nell’estremo sud del Niger. Per il momento, ha benedetto l’alleato ciadiano, molto ben agguerrito. N’Djamena dispone di un esercito di 30mila uomini: proiettarne 2mila a meno di 800 chilometri dalle basi non è un problema. Il Mali (3mila km), nel 2013, lo ha dimostrato. Un’ulteriore conferma arriva dalla storia militare: meno di 35 anni fa, N’Djamena ha inflitto una dura lezione anche ai regolari di Gheddafi, abbagliati da mire espansionistiche. I suoi soldati non temono le perdite sul campo.

E nemmeno le azioni violente, se solo si pensi all’hybris pugnace mostrata contro la ribellione interna, costellata da un alto tasso di caduti. Sono ben equipaggiati (per gli standard africani): materiali francesi degli anni 70-80; veicoli rustici, ma moderni e una pletora di blindati leggeri, ad alta mobilità. Allineano una variante dei Sagaie con torretta dell’AML-90, meglio nota come ERC-90 Lynk.

Non più di 4 mezzi però. Sulla carta sarebbero disponibili anche 62 AML-90 di una quarantina d’anni, cui si sommano i 20 ‘Eland’ di origine sudafricana, consegnati una decina di anni fa, senz’altro in perfetto stato. Certo, il cannone da 90 millimetri non è il massimo, ma abbina alla portata una discreta potenza di fuoco. Fra i 4×4 blindati, si segnalano 22 Bastion Patsas, più 110 VLRA e qualche camion Kerax per la logistica pesante. Sono in linea anche i 4×4 ALTV di Renault Trucks Defense, ben protetti, più una quarantina di VAB ceduti dai francesi nel 2008. Quanto occorre per il teatro nigeriano.

I ciadiani e i nigerini continueranno ad avere il sostegno dei francesi. Parigi fornirà soprattutto carburanti e intelligence, spostando alcune pedine e rinvigorendo le capacità di sorveglianza aerea. Come? L’operazione Sangaris in Centrafrica passerà a breve da 2.000 a 1.700 uomini e il ministro Le Drian ha lasciato presagire che sarà la forza assegnata all’Operazione Barkhane ad avvantaggiarsene. Un quarto Rafale con tanto di pod RECO NG è arrivato nel weekend scorso a N’Djamena, mentre un terzo drone Reaper è atteso in Niger per l’estate.

Sarà un rinforzo leggero, non ancora quantificato, forse dell’ordine del 10%, forze fresche che si sommeranno ai 3.000-3.200 uomini dispiegati dal 1° agosto 2014 fra i due quadranti dell’operazione Barkhane: Gao (in Malì) a ovest, e N’Djamena a est. Ma si potrebbe arrivare fino a 4mila uomini, secondo fonti non ancora confermate, citate da Jean Marc Tanguy.

I francesi stanno studiando i dettagli da almeno sei mesi. In ottobre, Jean-Pierre Bosser, capo di stato maggiore dell’Esercito, era stato abbastanza chiaro: «possiamo continuare ad avere un dispositivo concentrato esclusivamente a nord e ignorare la minaccia che incombe a sud?». Il Generale parlava a Lille, al quartier generale del Corpo di Reazione Rapida.

Aveva già in mente che Barkhane avrebbe fatto un salto di qualità, prendendo in considerazione le minacce a 360°. Nel frattempo, il 15-16 dicembre, si teneva a Dakar un importantissimo forum sulla sicurezza, su iniziativa franco-senegalese. Al centro della scena i conflitti e i problemi della sicurezza in Africa, continente nel quale la Francia ha il grosso degli effettivi attualmente in OPEX (Opérations Extérieures): 5.600 uomini su un totale di circa 8.500.

A Dakar, c’era Jean-Yves Le Drian, impegnato in colloqui bilaterali con i partner regionali. Ma alle tavole tematiche sull’antiterrorismo e la COIN (contro insurrezione) sedeva anche il generale Grégoire de Saint-Quentin, numero 1 del COS. Il Comando per le Operazioni Speciali schiera attualmente nell’area sahelo-sahariana 400-500 uomini.

Il Burkina Faso è il centro di gravità dei commando che armano la task force Sabre, il pendant SF di Barkhane. Trovi incursori del 1° RPIMa, del 13° RDP, del CPA 10 e della FORFUSCO, assistiti da un pugno di elicotteri del 4° RHFS e dai velivoli ad ala fissa del ‘Poitou’. Quando ha preso la parola il generale Christophe Gomart, capo dell’intelligence militare (DRM), il dibattito verteva ormai sul controllo delle frontiere. Idriss Déby, presidente del Ciad, aveva il dente avvelenato e ha subito guadagnato il palcoscenico, non lesinando critiche alla Francia e alla NATO, colpevoli a suo dire di non aver concluso il lavoro iniziato in Libia nel 2011.

Difficile dargli torto. Tutti hanno convenuto sul pantano attuale (trou noir) nel Sud libico: per Ibrahim Boubacar Keïta, presidente maliano, vengono da lì molti dei problemi attuali della sub-regione e, soprattutto, del suo paese. Camerun, Niger e Ciad hanno colto l’occasione per enfatizzare la minaccia montante di Boko Haram, facendo maturare nei francesi l’idea della cellula di coordinamento e gli sviluppi successivi.

Cominciare a sguarnire il Centrafrica è oggi la seconda mossa dei vertici d’Oltralpe, anche se lo scenario non è del tutto pacificato. Gli ex-ribelli della Séléka, ormai divisi in 3 fazioni, sono sempre attivi, come le milizie anti-balaka (prevalentemente cristiane), in buona parte manipolate dal clan di François Bozizé, l’ex-presidente della RCA. I due rivali si scontrano periodicamente. L’ultima volta il 17 dicembre, a Mbrés, 300 chilometri a nord della capitale. Combattimenti scoppiati pochi giorni dopo la cerimonia di riconciliazione fra le due fazioni, sotto l’egida della MINUSCA (Mission Intégrée multidimensionnelle de Stabilisation des Nations Unies en République Centrafricain). Molto si spera nelle prossime elezioni presidenziali e legislative, che dovrebbero tenersi al più tardi in agosto.

Ma i francesi non hanno più tempo. Vogliono disimpegnarsi e passare la mano ai peacekeepers dell’ONU, perché la situazione nella fascia sahelo-sahariana si sta deteriorando. I gruppi terroristici che sembravano esser stati annichiliti a Gao, Timbuctù e nella battaglia decisiva del massiccio di Tigharghâr (2013) non sono stati affatto debellati. Secondo l’agenzia Reuters si stanno riorganizzando e riequipaggiando, anche grazie all’instabilità endemica della Libia e della Nigeria settentrionale.

Secondo un rapporto riservato delle Nazioni Unite, che abbiamo potuto consultare, in caso di bombardamenti sui feudi terroristici di Derna, Ghadames e del Fezzan, i jihadisti si ridispiegherebbero nell’area sahelo-sahariana, in primis nel Mali settentrionale, destinazione principe della galassia estremista gravitante sulla Libia.

I  legami fra i gruppi saheliani e libici sono assodati: al-Qaeda nel Maghreb islamico (AQMI), gli Almoravidi, Ansar al-Sharia e ISIS ignorano le frontiere ufficiali. Dal triangolo Ubari-Sebha-Murzuk, i terroristi compiono incursioni nel Mali settentrionale (dall’Ifoghas a Timétrine), e in Niger, lungo un asse di oltre un migliaio di chilometri che, attraverso il valico di Salvador, segue la frontiera fra il Niger e l’Algeria.

I confini sono porosi ma ben presidiati dalle sole forze di sicurezza algerine. La Tunisia rischia: il capo della branca autoctona di Ansar al-Sharia, Abu Iyadh, sarebbe stato localizzato a Sabrata, protetto dalle milizie dell’omologo libico Omar Mokhtar Madhuni, ucciso a dicembre dai regolari libici.

I membri di Ansar pare abbiano  campi di addestramento in Tripolitania e da lì organizzerebbero raid oltreconfine, riparando nei santuari tunisini del Monte Chaambi, prossimo all’Algeria, dove jihadisti algero-tunisini hanno affrontato di recente le forze armate di Tunisi.

La presenza di forze militari franco-occidentali in Mali (Barkhane e MINUSMA) è per i terroristi un ulteriore catalizzatore, se non altro per giustificare gli appelli alla guerra santa. La connection Mali-Libia è testimoniata da varie notizie d’intelligence: il capo degli Almoravidi, Mokhtar Belmokhtar, è ufficialmente introvabile. Alcuni sostengono si trovi nella regione di Bengasi, mentre la sua famiglia sarebbe nel sud-ovest della Libia, dove è stato segnalato più volte anche Iyad Ag Ghali, capo del movimento jihadista maliano i Ansar-Dine. Le notizie si accavallano visto che un inviato di Der Spiegel avrebbe incontrato Ghali nella regione maliana di Kidal.

Il rischio odierno è una saldatura fra i vari gruppi citati che farebbe entrare nella dinamica pan-regionale Boko Haram, già legato in passato ai terroristi maliani dell’ex MUJAO (Movimento per l’unicità del Jihad in Africa Occidentale). La nuova strategia espansiva bokoharamista verso il Sahel, già palesatasi con gli attacchi in Niger, aggiunge un ulteriore tassello al quadro d’instabilità della regione in progressivo deterioramento.

In Mali, si registra una recrudescenza degli attacchi terroristici e anche Bamako ne ha fatto le spese. L’ultimo attentato nella capitale è stato rivendicato l’8 marzo dagli Almoravidi. I fanatici qaedisti l’avrebbero ordito come rappresaglia all’eliminazione di Amhed el-Tilemsi, membro fondatore del MUJAO, ucciso a Tabankort da un commando francese della task force Sabre, il 10 dicembre scorso. A nord le truppe di Parigi stanno sequestrando regolarmente imponenti quantità di armi, munizioni e materiali bellici.

A fine dicembre, il GTD-O (Groupement Tactique Désert Ouest) della forza Barkhane ha rinvenuto a poca distanza da Bourem mortai da 82 mm, due missili spalleggiabili SA-7, fortunatamente incompleti, e una tonnellata di HME (Home Made Explosive), utile a congegnare IED (Improvised Explosive Device). I caschi blu della MINUSMA (Multidimensional Integrated Stabilization Mission in Mali) sono drammaticamente esposti ai raid terroristici: almeno 40 dei loro sono morti nell’ultimo anno.

Non meno precaria è la situazione dei militari maliani: il 5 gennaio, un attacco di AQMI ha ucciso almeno 8 soldati nel sud del Paese, a Nampala, vicino alla frontiera mauritana. Non accadeva da almeno due anni, da quando gli jihadisti erano stati sloggiati dalle regioni meridionali.

Ma veniamo ai dettagli della forza francese dell’Operation Barkhane che opera in Niger, Mali, Burkina Faso, Mauritania e Ciad. Un teatro immenso, per lo più desertico. Vasto quasi quanto l’Europa, è tuttavia arcinoto ai francesi che l’hanno tenuto in pugno durante l’epoca coloniale. A Parigi guardano con fiducia forse eccessiva ai trascorsi di successo.

Poco più di quarant’anni fa, forze aeroterrestri francesi intervennero in Ciad, per una campagna contro insurrezionale dall’esito favorevole. Impegnarono tremila uomini, quanti ne conta oggi l’operazione Barkhane. La sfida è enorme, i mezzi e gli uomini pochi, anche se la strategia si basa su una logica di partenariato regionale e sulla collaborazione del G5 Sahel, attivo dal febbraio 2014.

Da un punto di vista organizzativo non c’è soluzione di continuità rispetto al passato, cioè alle operazioni Serval ed Épervier. Il nuovo stato maggiore è sempre a N’Djamena, all’interno della base aerea 172 «Sergent-chef Adji Kosseï », che già ospitava il quartier generale di Épervier e dei vari distaccamenti francesi succedutisi nell’operazione.

Se Kosseï è il centro nevralgico del quadrante orientale della forza Barkhane, da Gao, in Mali, opera il cosiddetto “fuseaux Ouest”, dispositivi dotati di un gruppo tattico composto da una compagnia di fanteria, uno squadrone leggero e un distaccamento di elicotteri.

Tutti si appoggiano su un dispositivo aereo regionale coordinato dalla capitale ciadiana: il JFAC AFCO (Joint Force Air Component Afrique Centrale et de l’Ouest ), su 6 Rafale, un Transall C-160, un Hercules C-130, un tanker C-135FR e 4 elicotteri Puma.

La componente terrestre del GTID Est è imperniata su 30 blindati, fra Sagaie e VAB, un centinaio di camion logistici (TRM, GBC, CCP e Scania) e 1.300 uomini del 3o RPIMa, del 1o RHP, del 28o RT e dello squadrone 1/67 Pyrénées, più lo stato maggiore dell’operazione.

Fra l’aeroporto di Gao e la vecchia base aerea delle forze armate maliane, i francesi hanno impiantato la «Plateforme opérationnelle Désert», attiva nell’ovest. Gao era stata al contempo piattaforma logistica e base avanzata dell’operazione Serval. Oggi vi sono schierati 1.300 uomini e un distaccamento di elicotteri molto eterogeneo: 12 macchine di cinque tipi diversi, più un Pilatus PC6 ad ala fissa per i voli di collegamento. Lo SGAM (Sous Groupement Aéromobile) affianca due Gazelle a due Tigre, quattro Puma a due Cougar ammodernati e due NH-90, secondo le stime di Frédéric Lert e i report dell’EMA, l’agenzia d’informazioni del Ministero della Difesa francese.

Niamey, in Niger ospita invece i mezzi da ricognizione, compresi i due Harfang e i due Reaper dello squadrone 1/33 Belfort, purtroppo disarmati, già in volo sul Sahel per oltre 2.000 ore, in missioni PREO (Préparation Renseignement de l’Espace Opérationnel). Ma il dispositivo ISR può contare anche sui droni dell’US Air Force, ubicati ad Agadez, tanto equidistante dal Nord del Mali e dal Sud della Libia, quanto prossimo al Nord della Nigeria.

La base nigerina di Niamey accoglie anche cacciabombardieri e pattugliatori Atlantique 2. La quarta base del dispositivo Barkhane è a Ouagadougou, sede del gruppo di forze speciali dell’operazione Sabre. Il quadrilatero principale è completato da una serie di punti d’appoggio, più o meno permanenti, usati da vari distaccamenti d’oltralpe. In Niger, i francesi hanno ripristinato un vecchio forte dell’epoca coloniale, Madama, nel lontano nord, oggi base operativa avanzata, operativa in toto dal 1° luglio 2015. La base, dotata di una pista d’atterraggio, è in posizione strategica a un centinaio di chilometri dalla frontiera libica e si appoggia anche sull’esercito autoctono e le forze americane di stanza a Dirku, più a sud.

A proposito, l’AFRICOM (il comando statunitense per le operazioni in Africa) ha appena concluso le grandi manovre addestrative con le forze speciali dell’area, durante le esercitazioni annuali della serie Flintlock, incentrate quest’anno sul contrasto a Boko Haram.

Ma torniamo a Madama, dove fervono gli eventi. A inizio febbraio, la base contava già oltre 200 militari, appartenenti a un sottogruppo del 3° RPIMa (reggimento paracadutisti fanteria di Marina) e ai genieri del 25° RGA che sta compiendo uno sforzo enorme sulle piste d’aviazione. Il parco veicoli è modesto: allinea qualche VAB, una decina di VBL, due Sagaie e alcuni VLRA. Pochi i movimenti aerei. I genieri del 25o sono ancora affaccendati nell’allungamento della vecchia pista in laterizio: 800 metri già saliti a 1.300, con un obiettivo finale di 1.800.

Già vi stazionano due elicotteri Puma Resco dell’Armée de l’Air. A fine dicembre, la base ha accolto il posto comando tripartito dell’operazione Mangouste che ha coinvolto 370 militari francesi, 70 nigerini e 110 ciadiani, investendo entrambi i versanti della frontiera fra il Ciad e il Niger, dove è stata sequestrata una tonnellata di droga.

Tornando ai punti d’appoggio vale la pena segnalare quelli in Ciad, dove sorge la piccola base “Capitaine Michel Croci” di Abéché,  660 chilometri a est di N’Djamena. Nel nord, a 780 chilometri dalla capitale, sorge a sua volta l’avamposto di Faya-Largeau, già teatro di un’aspra battaglia nel 1987 durante l’invasione libica del Ciad. Distanze enormi, che stanno mettendo a dura prova la logistica francese. Poi c’è Tessalit, in Nord-Mali, attualmente sede dei  commando paracadutisti dell’aeronautica (CPA 20).

Punti d’appoggio sorgono anche a Kidal, Timuctù e Ansongo. Il dispositivo può contare sulle riserve di uomini e sull’ingresso rapido in teatro di tre basi arretrate permanenti, a Dakar, Abidjan e Libreville, dal ruolo logistico prioritario in direzione del Sahel.

Francesco PalmasVedi tutti gli articoli

Nato a Cagliari, dove ha seguito gli studi classici e universitari, si è trasferito a Roma per frequentare come civile il 6° Corso Superiore di Stato Maggiore Interforze. Analista militare indipendente, scrive attualmente per Panorama Difesa, Informazioni della Difesa e il quotidiano Avvenire. Ha collaborato con Rivista Militare, Rivista Marittima, Rivista Aeronautica, Rivista della Guardia di Finanza, Storia Militare, Storia&Battaglie, Tecnologia&Difesa, Raid, Affari Esteri e Rivista di Studi Politici Internazionali. Ha pubblicato un saggio sugli avvenimenti della politica estera francese fra il settembre del 1944 e il maggio del 1945 e curato un volume sul Poligono di Nettuno, edito dal Segretariato della Difesa.

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