L’INTELLIGENCE DI AL BAGHDADI

di Daniele Raineri da Il Foglio del 17 agosto 2016

Sui giornali internazionali circola il nome di Abu Muhammad al Adnani, siriano di 39 anni, capo dell’intelligence militare dello Stato islamico e organizzatore e ispiratore degli attacchi a sorpresa all’estero, lontano dalle basi del gruppo in Iraq e in Siria. Al Adnani è l’uomo delle stragi che più hanno fatto parlare i media negli ultimi quattordici mesi, come Sousse in Tunisia nel giugno 2015, Parigi nel novembre 2015, Bruxelles nel marzo 2016 e altre innumerevoli.

Qui si usa la definizione “servizio di intelligence militare dello Stato islamico” perché di questo si tratta, a partire da alcune procedure usate (ricordate la telecamera di sorveglianza installata di nascosto vicino alla casa del direttore di una centrale nucleare in Belgio?) per finire con il nome in arabo, “AMNI”, che vuol dire sicurezza ed è un termine usato nei paesi del medio oriente per indicare la sicurezza di Stato. In questo caso, dello Stato islamico.

E’ possibile che l’abbiate visto trascritto anche come “EMNI”, perché nell’arabo del Levante alcune “a” tendono a diventare “e” e le fonti che parlano sono appunto siriane.

Se si va a consultare il SITE, il costosissimo database a pagamento che cataloga la propaganda dei gruppi terroristici (come se non bastasse fare pochi passi su Internet per ottenere la stessa propaganda, gratis) il nome di al Adnani appare per la prima volta nell’estate del 2011 con il titolo di “portavoce dello Stato islamico”: legge un messaggio audio lungo in occasione del Ramadan, il primo di una serie che è arrivata al numero venticinque.

Per noi in Europa il più importante sarà il numero venti, che come quasi tutti gli altri prende il titolo da un versetto del Corano ed è stato messo su Internet il 22 settembre 2014, poche ore prima che cominciassero i raid aerei americani in Siria.

Quel discorso di al Adnani è la piattaforma politica degli attentatori in Europa: annulla le differenze tra civili e militari e li mette entrambi nella stessa categoria dei bersagli possibili, chiama i musulmani occidentali a diventare la quinta colonna dello Stato islamico in Europa, e a realizzare così un contrappasso (siamo noia inviare i nostri soldati in mezzo a voi e non più il contrario), esorta a uccidere con ogni mezzo – “se non potete altrimenti, investiteli con l’automobile”.

Nel 2014 non lo sapevamo ancora, ma al Adnani lavorava almeno dall’anno prima alla creazione di un’organizzazione clandestina che avrebbe dovuto compiere attentati in Europa, come è avvenuto a Parigi e Bruxelles – e realizzare così uno schema classico del gruppo: invocare nella propaganda come aspirazione pubblica un fatto che in segreto si sa già che accadrà, per dare l’impressione agli spettatori che il piano dello Stato islamico marcia ineluttabile.

Oggi i simpatizzanti aspettano con ansia l’uscita dei suoi discorsi ufficiali, cominciano a fare circolare con ore di anticipo la notizia dell’uscita imminente (qariban inshallah è la parola d’ordine: presto, se Dio vuole) e creano un senso di attesa pari a quello che precede i messaggi di Abu Bakr al Baghdadi – un senso d’attesa che finisce per contagiare anche chi è esterno al gruppo: l’ultima volta, la sera di sabato 21 maggio, alcuni giornalisti americani hanno speculato molto a proposito del fatto che al Adnani stesse per rivendicare l’abbattimento dell’aereo passeggeri egiziano precipitato nel Mediterraneo, si temeva un bis dell’attentato di ottobre nel Sinai, ma non era vero e il messaggio audio parlava di tutt’altro.

I discorsi di al Adnani sono scritti in un ostile che gli estimatori trovano intenso e poetico e che tutti gli altri detestano e definiscono prolisso, troppo enfatico e bizzarro.

Da un paio d’anni e nel giro di poche ore lo Stato islamico mette su Internet anche le traduzioni del messaggio in inglese, francese e russo, a riprova dello sforzo per raggiungere un’audience più ampia di quella araba.

A partire dal 2016 c’è uno spezzone audio di un suo discorso in ogni video dello Stato islamico, della durata di almeno pochi secondi, quasi come se fosse obbligatorio – e finora ne sono già usciti non meno di duecento: in tutti a un certo punto parte il sonoro di una frase, magari a commento di una scena clou, e appare il sottopancia immancabile “voce dello sceicco guerriero Abu Muhammad al Adnani hafidhahullah– che Dio lo protegga”.

Quest’anno i video citano più al Adnani che al Baghdadi, capo del gruppo.

Fonti in Siria dicono al Foglio che quando al Adnani (vero nome: Taha Subhi Falaha ) era un giovane di Binnish, una piccola città vicino Idlib, nel nord del paese, pensava soprattutto a giocare a carte ea calcio e di quel periodo c’è pure una sua foto in maglietta e calzoncini durante un torneo con la squadra dell’Ikhwaa. Più o meno nello stesso periodo al Baghdadi giocava a calcetto nel suo quartiere di Baghdad, in Iraq, con il nomignolo lusinghiero di “Messi”.

Pochi anni dopo, e molto prima del suo futuro califfo, al Adnani è così apprezzato dentro lo Stato islamico in Iraq (o per essere più precisi: dentro un gruppo che ha preceduto la nascita dello Stato islamico) che il suo capo di allora, il giordano Abu Mussab al Zarqawi, gli dice: “Non chiedermi l’autorizzazione per fare le cose, dammi soltanto degli aggiornamenti su cosa fai”, massima concessione di autonomia e fiducia.

Al Adnani comincia a firmare con questo nome di guerra a metà 2011 ma come si vede nelle foto d’archivio pubblicate in questa pagina si era già piazzato da un anno al centro della propaganda dello Stato islamico, facendo alcuni cameo non dichiarati nei filmati (come Alfred Hitchcock, che amava fare apparizioni brevi nei suoi film) o parlando davanti alla telecamera in forma anonima – senza farsi riconoscere o meglio facendosi riconoscere soltanto dai suoi e da alcuni osservatori informati.

Se si va a ripescare la vecchia propaganda dello Stato islamico messa su Internet nel 2010 è lui lo speaker non identificato che presta la sua voce a quelle immagini (è probabile che gli uomini dello Stato islamico fossero così pochi che Adnani, appassionato di lingua araba, sia stato messo a fare lo speaker grazia alla forbitezza, tanto il suo dialetto siriano è molto simile all’accento iracheno).

E’ anche l’uomo a piedi nudi che pranza e chiacchiera assieme ad altri sotto una tenda in un video di quell’anno, con la faccia oscurata per ragioni di sicurezza, la scena è amichevole ma si vede bene che infilato nella giberna dei caricatori di proiettili di Adnani c’è il cavo con l’interruttore rosso della cintura esplosiva.

E’ lui, sempre con il volto oscurato, che si fa riprendere mentre guida alcuni addestramenti militari in mezzo al deserto di al Anbar con un esercizio che è un grande classico dei campi d’addestramento del jihad – spara con i lkalashnikov nella sabbia vicino a due reclute che intanto devono concentrarsi a colpire due bersagli lontani prima da in piedi e poi accosciati e sdraiati, e c’è da dire che ha una buona mira.

Alla fine di un altro filmato che celebra i cinque anni dello Stato islamico c’è la scena invero desolante di un piccolo coro di guerriglieri che canta a botta e risposta un nasheed, un inno del jihad, ed è al Adnani a dirigere, inginocchiato in prima fila – il coro è stonato in modo doloroso.

Ed è ancora lui l’uomo in piedi e mascherato che commemora Osama bin Laden in un video in cui lo Stato islamico fa l’eulogìa del capo di al Qaeda ucciso da un raid americano in Pakistan nel maggio 2010.Insomma, al Adnani lavora a favore dei posteri e da anni cura la sua immagine di eminenza della guerra santa.

Presto o tardi, dopo la sua morte, qualcuno dello Stato islamico si incaricherà di raccogliere questi filmati e di ripubblicarli con il volto in chiaro, a suo maggior beneficio.

C’è da notare che se pure si tratta di video prodotti sei anni fa che appaiono come il lavoro di dilettanti, contengono già lo stesso preciso diktat ideologico di adesso senza che ci siail bisogno di aggiornare una virgola: necessità storica del ritorno del califfato, distinzione tra i veri musulmani (noi dello Stato islamico) e i loro nemici (tutti gli altri), rappresaglia cieca e ultra-violenta contro chiunque non aderisca al progetto nei paesi arabi (i finti musulmani, traditori e apostati)oppure ardisca ostacolarlo da fuori, quindi gli oppositori esterni (gli infedeli, gli ebrei).

Questo è l’orizzonte di continuità immutabile del jihad con cui tocca fare i conti. Al Adnani si è arruolato in un gruppo di combattimento a ventitrè anni, era l’iniziodel 2000 in Siria, e ha continuato a combattere la stessa campagna ultra-islamista e a pronunciare le stesse parole d’ordine mentre a Washington si succedevano quattro amministrazioni diverse, Bush 1 e 2e Obama 1 e 2.

Tra poco, salvo imprevisti che possono arrivare sotto forma di un attacco di drone, al Adnani potrebbe arrivare a vedere il quinto mandato americano della sua vita da volontario della guerra santa.

La differenza tra la propaganda di oggi con al Adnani in altissima definizione e quella di sei anni fa è che allora lo Stato islamico era un gruppo in piena crisi e rischiava l’estinzione da un momento all’altro.

I capi erano uccisi o catturati, gli uomini non erano che poche centinaia, forse meno (rispetto ai più di quarantamila del 2014, e ci sono fonti che danno numeri più alti), la capacità di compiere attacchi era precipitato del novanta per cento (una bomba dove prima ne mettevano dieci: questo è un crollo ammesso da un forum islamista dell’epoca, al Ikhlaas), il flusso impetuoso di volontari dall’estero si era quasi interrotto del tutto, ridotto a uno sgocciolio di pochi fanatici, perché il progetto in Iraq non esercitava più il suo fascino, non aveva funzionato e sembrava abortito per sempre.

Oggi gli apologeti dello Stato islamico chiamano quegli anni tra il 2009 e il 2011 “il periodo del deserto”, o “della vita selvaggia”, come un tempo di prove e tribolazioni che doveva anticipare i trionfi del 2014 e anzi renderli ancora più eroici.

E infatti testimonianze, foto e filmati sono afflitti da scene e ambientazioni poverissime, capanne in mezzo al nulla, pochi uomini che cantano inni di battaglia, lavano i piatti, recitano monologhi religiosi, fanno il bagno nei fiumi, come se essere ancora vivi fosse già unaprova di forza.

C’è una scena in cui al Adnani, con le braccia pallide che tradiscono un’esistenza passata al chiuso, si complimenta con un suo uomo che ha appena catturato due grosse lucertole ed è chiaro che si finirà per metterle in pentola (al Adnani è come al solito senza volto, ma si capisce che è lui da altri dettagli).

Ecco, per misurare l’arroganza estrema di al Adnani, arroganza dimostrata dalla sue dichiarazioni di guerra contro uno spettro amplissimo e universale di nemici (praticamente tutti, da Israele all’Iran, dai ribelli siriani alla Russia), c’è da comprendere questo, lui è uno dei pochi a essere passato attraverso il collo di bottiglia di quegli anni in cui si proclamava l’avvento prossimo del califfato e intanto si masticavano rettili.

Quando al Adnani nel 2011 diventa direttore della propaganda, si vede un cambiamento netto. Per anni lo Stato islamico aveva tentato di farsi passare per uno Stato autentico, con tanto di “ministri” e di “rimpasti di governo”, a partire dalla creazione nel 2006.

Per questo motivo gli annunci politici erano letti da uno speaker acconciato in modo sontuoso e vestito alla araba, davanti a un desk e a un computer, in modo da poter sembrare il giornalista di una qualche tv del Golfo – a patto di non fare caso alle parole e alla bandiera nera sovraimpressa in un angolo dello schermo.

Adnani getta via questo set formale e torna alle origini: lo Stato islamico è un gruppo di combattimento, il set dev’essere marziale, i capi devono parlare in tenuta da battaglia oppure ancora meglio con i vestiti neri così cari al califfato abbaside, e poi sfondi di deserti e pietraie, jeep armate di mitragliatrici, volti mascherati, spade che puntano verso l’alto, barbe e giberne colme di caricatori.

C’è un punto tra i tanti che ancora non è chiaro. Conosciamo il vero volto di Adnani perché nel maggio 2005 gli americani lo hanno arrestato nella regione di al Anbar e lo hanno imprigionato a Camp Bucca, nel sud dell’Iraq, per cinque anni, e gli hanno scattato le foto per la scheda del carcere, e di lui girano anche un altro paio di fotografie da libero.

Perché allora nella propaganda dello Stato islamico ha sempre il volto oscurato?

Quando nel giugno 2014 ha parlato davanti a una telecamera assieme a un altro comandante famoso dello Stato islamico, Omar il ceceno, per celebrare la fine della linea di frontiera tra Siria e Iraq, anche allora in quell’occasione il suo volto era mascherato.

Forse al Adnani, come molti altri capi, crede nel valore protettivo di eliminare ogni traccia di sé dal mondo, o forse ha cambiato lineamenti, perché sa che da almeno un anno l’apparato di sorveglianza americano gli sta dando la caccia, come pure i servizi segreti dell’Europa occidentale e quelli dell’Iraq.

All’inizio di agosto il New York Times ha pubblicato un’intervista a un disertore dello Stato islamico, Harry Sarfo, nella cella di una prigione di massima sicurezza della Germania.

Sarfo racconta di essere entrato a far parte delle squadre speciali di europei che sono arruolati dall’Amni, l’intelligence diretta da al Adnani, per essere spediti in Europa a fare attentati.

E racconta anche che al termine di un addestramento brutale che dura settimane hanno avuto il privilegio di incontrare al Adnani in persona, ma che l’hanno fatto con una benda sugli occhi.

In teoria sono gli uomini più fidati dello Stato islamico, l’élite chiamata alle operazioni clandestine per compiere massacri all’estero, eppure nemmeno loro oggi possono vedere un volto che in teoria potrebbero trovare in due secondi su Google.

In ogni caso, Omar il ceceno, che è uno dei capi di cui si hanno più immagini, è stato trovato e ucciso in quella sequenza di raid americani che nell’ultimo anno hanno azzoppato la leadership dello Stato islamico negli ultimi mesi – e che si dice sia alimentata da un informatore interno. Al Adnani, il più ricercato, per ora è sfuggito.

I video che celebravano l’anniversario dello Stato islamico nel 2010, quando al Adnani ha assunto la direzione della propaganda, sono terminati: forse non c’era più bisogno di festeggiare la mera sopravvivenza.

Nel 2013, a soltanto tre anni di distanza da quelle inquadrature in mezzo a un nulla che sembrava non riguardarci, come fosse un pianeta lontano, al Adnani, grazie al cambiamento totale delle condizioni in medio oriente, ha cominciato a mandare i primi infiltrati della sua rete nelle città dell’Europa per lanciare campagne di attentati, quando fosse arrivato il momento più opportuno.

Il primo arresto di un suo uomo è stato nel dicembre 2013 a Nizza. Al Adnani ha presieduto al cambiamento interno dell’AMNI, l’intelligence dello Stato islamico: da servizio di controspionaggio che era, per individuare le spie o i possibili disertori – e si sa che il gruppo ha liquidato centinaia di membri caduti in disgrazia o accusati di complottare contro i leader – è diventato anche uno strumento di aggressione all’esterno.

Sarfo, il disertore, dice che l’AMNI ha la facoltà di servirsi delle migliori risorse del gruppo e se mette gli occhi sopra un volontario promettente, per esempio un europeo appena arrivato e senza precedenti, “pulito”, con un passaporto valido, ha la precedenza nell’arruolamento.

Così, mentre i servizi di sicurezza di una decina di paesi tentano senza successo di sorvegliare tutti i potenziali attentatori e sono sopraffatti dalla vastità dell’incarico, conviene prendere nota: l’abilità di approfittare delle distrazioni altrui, di superare i periodi di crisi e di tornare in rimonta sono la specialità di al Adnani e in generale del suo gruppo.

E sembra tanto più importante adesso, mentre ci si avvicina – con lentezza, città dopo città, combattimento dopo combattimento – a una seconda morte apparente dello Stato islamico.

Foto: Stato Islamico

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