Il ritorno dei 15 mila foreign fighters in Siria e Iraq

AdnKronos – Nello Stato Islamico, l’autoproclamato Califfato tra Iraq e Siria, ci sono circa “15mila foreign fighters”. Ora che il Daesh (lo Stato Islamico) ha perso parecchi territori, “il 61% in Iraq e il 28% in Siria” rispetto all’agosto del 2014, inclusi molti pozzi petroliferi, per l’Is è più difficile mantenere le proprie infrastrutture finanziarie e “pagare i propri combattenti”. Pertanto, “il numero dei foreign fighters che rientrano in patria, specialmente verso l’Europa e il Maghreb, è previsto in crescita”. Lo spiega Tanya Mehra, ricercatrice dell’International Centre for Counter-Terrorism (ICCT), think tank con sede all’Aja, in un rapporto sui “Foreign Terrorist Fighters (FTF): Trends, Dynamics and Policy Responses”, che fa il punto della situazione.

Pur avendo perso terreno in Siria e Iraq, il Daesh si è allargato ad altre aree, nota la Mehra, in particolare “Afghanistan, Yemen ed Africa Orientale”, oltre ad avere stretto legami con gruppi attivi in Libia e con Boko Haram nell’Africa Occidentale. La presenza crescente di al-Qaeda nel Maghreb, la nascita di al-Qaeda nel Subcontinente indiano e le “crescenti ambizioni” di Al Shabaab nell’Africa Orientale “aumentano il rischio di attacchi terroristici”.

“Nel 2016 un’ondata di attacchi terroristici, non solo in Siria e in Iraq, ma anche fuori da queste zone di conflitto, in Indonesia, Kenya, Usa, Bangladesh e Francia segnalano che la minaccia non sta ancora diminuendo”, rileva la ricercatrice. Molti Stati sono “sempre più coscienti” dei rischi potenziali connessi ai foreign fighters rientrati in patria. “Stime indicano che il 30% dei Foreign Terrorist Fighters sono tornati a casa o si sono spostati in altri Stati”, continua.

Diversi Paesi come la Francia, il Belgio e gli Usa, continua la ricercatrice dell’ICCT, “hanno indicato che il numero dei Foreign Terrorist Fighters diretti verso la Siria e l’Iraq è calato in misura significativa, con altri Paesi che prevedono diminuzioni nel prossimo futuro. La maggior parte degli FTF arruolati con il Daesh in Iraq e Siria proviene dal Nordafrica, dal Medio Oriente e dall’Asia Centrale, ma numeri significativi arrivano anche dall’Europa e dall’Asia Sudorientale”.

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Comunque, non tutti gli stranieri andati in Siria e in Iraq per il Jihad si sono uniti all’Is, dato che “un numero considerevole combatte con Jabhat Fatah al-Sham, già conosciuta come Jabhat al-Nusra. L’anno scorso il gruppo ha informato che il 30% dei suoi effettivi erano stranieri”. E non ci sono informazioni affidabili che indichino che il numero degli Ftf che combattono con Jabhat Fatah al-Sham “si sia ridotto”.

Ci sono anche, ricorda la studiosa dell’ICCT, alcuni FTF che si recano in Siria e in Iraq per combattere non per, ma contro Daesh e Jabhat Fatah al-Sham, e che spesso si uniscono ai peshmerga curdi. “La maggior parte di questi circa 300 FTF sono maschi, occidentali e hanno esperienza militare”, spiega. Mentre calano gli arrivi di FTF in Siria e Iraq, “l’instabilità in Libia sta attirando volontari, provenienti in particolare da altri Paesi africani”. Al largo delle coste della Sicilia, gli FTF “si sono uniti a cellule di al Qaida e del Daesh”. Il flusso di volontari del Jihad verso la Siria e l’Iraq “è diminuito come risultato degli sforzi militari, ma anche per altre azioni intraprese dagli Stati, dall’aumento della condivisione di informazioni ai controlli più stringenti alle frontiere”.

La Turchia, per esempio, ha introdotto delle unità di analisi del rischio negli aeroporti e ai valichi di frontiera: a luglio 2016, Ankara aveva deportato 3.500 sospetti FTF e aveva negato l’ingresso a 2.200 sospetti Ftf in un periodo di 18 mesi, continua l’ICCT.
Nel luglio scorso, l’Interpol disponeva di un database con circa 7.500 FTF di 60 Paesi: i principali contributori al database sono Belgio, Russia, Tajikistan, Francia e Paesi Bassi. All’interno dell’Ue il database Focal Point Travellers dell’Europol contiene oltre 3mila FTF verificati: nel 2015 c’è stato un cospicuo aumento degli alert nel Schengen Information System e gli Stati membri dell’Ue hanno “inviato più informazioni riguardanti i procedimenti giudiziari in corso e le condanne”.

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Tuttavia, malgrado gli sforzi, “questi dati – sottolinea la ricercatrice – non riflettono il vero numero degli FTF che hanno lasciato l’Europa, stimato a 5mila”. Ne mancano all’appello circa 2mila, dunque (alcuni possono essere morti nel frattempo, ma verosimilmente non tutti). “Per ridurre il gap significativo tra il numero di FTF nei database e il loro vero numero, gli Stati dell’Ue devono aggiornare sistematicamente le banche dati multilaterali e migliorare la condivisione delle informazioni”, aggiunge Mehra.

Il ritorno a casa dei foreign fighters europei non è il solo flusso rilevante osservato in questi mesi: secondo l’ICCT “diverse centinaia” di Ftf libici sono tornati dai campi di battaglia in Iraq e Siria per di FTF libici sono tornati dai campi di battaglia in Iraq e Siria per unirsi a Daesh e Is in Libia, in quella che “appare come una mossa strategica per espandere la presenza globale dell’organizzazione”.

Dinamiche “simili” si possono prevedere in Tunisia, “dove un numero significativo di FTF si presume stiano ritornando, con il possibile intento di portare a termini attacchi terroristici. E va ricordato che “reduci tunisini dalla Libia non solo sono risultati coinvolti negli attacchi terroristici verificatisi in Tunisia nel 2015 e nel 2016, ma svolgono anche un ruolo importante nel reclutamento locale degli FTF”. Non tutti i foreign fighters tornano a casa per commettere attentati: “Alcuni sono disillusi dopo aver praticato il terrorismo, impreparati per la brutalità e le atrocità che si verificano laggiù, mentre altri rimangono delusi dalla vita nel Daesh e abiurano le proprie precedenti convinzioni”, spiega l’esperta.
Tuttavia, altri ritornano “con l’intento e la capacità tecnica di condurre degli attacchi terroristici”, dato che “l’esportazione sistematica del terrore che pare un nuovo elemento nella strategia del Daesh. Molti di coloro che hanno perpetrato gli attacchi di Parigi, Bruxelles e Parigi erano foreign fighters”, ricorda la Mehra.

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“Il coinvolgimento di Ftf negli attacchi verificatisi a Jakarta, Parigi, Burxelles ed Istanbul – prosegue la Mehra – nella pianificazione, nel reclutamento o nell’attuazione degli attentati, dimostra la capacità di organizzazioni terroristiche come il Daesh di mobilitare gli FTF ritornati a casa e di coinvolgere terroristi di ‘produzione propria’, talora chiamati combattenti telecomandati a distanza”. Uno dei rischi concreti che gli Stati devono prevenire è quello della radicalizzazione dei carcerati: secondo l’ICCTnelle prigioni dovrebbero essere implementati dei programmi di riabilitazione per estremisti violenti e foreign fighters.
Inoltre, in Paesi quali l’Indonesia, i Paesi Bassi e il Regno Unito, gli FTF e gli estremisti violenti vengono separati dagli altri prigionieri, per evitare che le carceri diventino dei centri di radicalizzazione e reclutamento, anche se, da sola, una misura simile potrebbe non bastare.

Per affrontare in modo adeguato la questione dei foreign fighters che tornano a casa, secondo Tanya Mehra, “gli Stati dovrebbero avere una gamma di strumenti a disposizione, dalle misure preventive a quelle penali, da quelle amministrative a quelle riabilitative”, che dovrebbero essere applicate analizzando “caso per caso”, tenendo conto di diversi fattori, primo tra tutti il “rischio potenziale” che un FTF rientrato a casa costituisce per la società e “la gravità” dei crimini commessi.

Foto: Stato Islamico

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