Afghanistan e Siria: contractors alla ribalta?

Il ritiro dei soldati americani – 2.000 dalla Siria e 7.000 dall’Afghanistan – annunciato da Trump a metà dicembre e le conseguenti dimissioni del Segretario alla Difesa hanno creato i presupposti per la realizzazione di un ambizioso progetto: la privatizzazione della guerra in Afghanistan.

AegisE forse, anche della Siria. Da almeno un anno infatti Erik Prince, ex proprietario di Blackwater, ha proposto con insistenza di supportare Kabul contro talebani e terroristi attraverso un contingente privato.

La cronica instabilità del Paese asiatico, nonché l’uscita di scena di James Mattis, principale ed ultimo oppositore in carica rendono il traguardo quanto mai raggiungibile. L’attacco costato la vita a quattro americani – un contractor, 1 agente della Defense Intelligence Agency e 2 militari – a Manbij, potrebbe portare ad un maggiore ruolo dei privati anche in Siria: l’ennesima guerra al terrore dichiarata prematuramente conclusa.

 

Il piano di Prince

 Dopo che nell’estate 2017 il presidente Trump, su pressione di Mattis e McMaster, ha optato per l’invio di ulteriori 3.500 militari in Afghanistan invece dei contractors, Erik Prince ha avviato un’intensa campagna di lobbying. Alla ricerca di sostenitori, si è rivolto a tutta una serie d’interlocutori ed agenzie che potessero influenzare Casa Bianca e Governo afghano. Eloquente il video impiegato per perorare la sua causa.

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Sostanzialmente, il piano prevede un rimpiazzo dei 17.000 soldati NATO (di cui 8.500 americani) e 29.000 contractors del Dipartimento della Difesa attualmente dispiegati in Afghanistan con 6.000 contractors e 2.000 operatori delle forze speciali, incorporati tra le fila dell’Esercito afghano. I contractors, che per un 60% sarebbero ex membri delle forze speciali USA e per un 40% dei Paesi NATO, avrebbero l’appoggio di una forza aerea – anch’essa privata – per operazioni di supporto aereo ravvicinato, avio ed elitrasporto e MEDEVAC (evacuazione di feriiti dal campo di battaglia).

Si otterrebbe così un’ immediata e drastica riduzione dei costi: da circa 76 miliardi all’anno a 5 miliardi di dollari preventivati da Prince: 3,5 per  contractors, aerei e logistica e 2 per gli uomini delle forze speciali.

Altro obiettivo è la riduzione dello sforzo logistico, non solo attraverso una forza più contenuta e quindi meno esigente, ma risolvendo l’annoso problema del carburante. Tra il 2008 e 2016 le forze americane in Afghanistan hanno consumato 2,8 miliardi di galloni di carburante per un costo di 13 miliardi di dollari. L’idea sarebbe di costruire due raffinerie per trasformare il diesel in carburante avio risparmiando così denaro, riducendo il rischio di attacchi ai convogli di autocisterne e limitando la dipendenza dal Pakistan.

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Altro ingrediente fondamentale della ricetta è la soppressione delle rotazioni del personale per almeno tre anni: “90 giorni in servizio, 30 di riposo per poi tornare alla stessa unità e luogo.” Prince sostiene, infatti che il problema delle guerre in Afghanistan e Vietnam non sia mai stato il numero di truppe, bensì le modalità d’impiego.

Servono sì unità di piccole dimensioni, altamente addestrate, con risorse appropriate ed adottanti tattiche non convenzionali. Ma che possano, soprattutto, sfruttare la conoscenza dei territori e contesti acquisita sul campo e le relazioni intessute coi locali, senza dover continuamente ricominciare da capo. In 17 anni di guerra vi sono stati circa trenta o più grandi avvicendamenti che hanno avuto un effetto deleterio sullo sforzo globale.

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Al comando dei contractors, il presidente Trump dovrebbe nominare un incaricato – si era parlato di una sorta di viceré –a condurre una guerra non convenzionale contro talebani, ISIS e funzionari corrotti, nonché a mediare tra autorità afghane e talebani che intendono riconciliarsi.

Per quanto riguarda la giurisdizione, i contractors e militari sarebbero entrambi sottoposti allo Uniform Code of Military Justice – Codice di Giustizia Militare – e legge afghana.

A bordo dei velivoli, tutti ad equipaggio misto, spetterebbe esclusivamente ad un afghano “premere il grilletto”. Ogni operatore a terra, indosserebbe invece una body-cam, a disposizione degli inquirenti in caso di necessità.  Indagini e processi verrebbero condotti in Afghanistan, mentre eventuali incarcerazioni nei Paesi d’origine dei condannati o negli Stati Uniti. Costi e risarcimenti per ferite gravi o decessi, sarebbero infine coperti interamente dall’assicurazione prevista dal Defence Base Act.

 

Contractors in Afghanistan

Negli ultimi anni la presenza di contractors in Afghanistan è andata riducendosi, ricalcando quella delle truppe NATO. Tuttavia, le precarie condizioni di sicurezza hanno fatto sì che a gennaio 2019 siano ancora presenti nel Paese 29.389 contractors del Dipartimento della Difesa. Tra di loro 11.606 americani, 11.472 cittadini di Paesi terzi e 6.311 locali. Rispetto ai dati dell’ultimo rapporto del 2018, il loro numero è cresciuto del 16,4% (+4.150). La maggior parte di essi (31,5%) si occupa di logistica, seguiti da un 16,5% di sicurezza.

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I numeri di sicurezza (4.842 operatori, di cui 2.827 armati) ed addestramento (1.372), cresciuti rispettivamente di un 16,1% e 20,9%, sono indicativi.

Da una parte del ritiro progressivo di truppe straniere ed una maggior assunzione di responsabilità di quelle locali, dall’altra di una crescente instabilità e della necessità di rimpiazzare le numerose perdite. Quello appena conclusosi, infatti ha rappresentato un annus horribilis per le forze di sicurezza afghane, con ritmi di 30/40 caduti al giorno; per non parlare del 2019, nella cui sola 4° settimana sono stati uccisi 90 soldati e poliziotti governativi.

La situazione è difficile anche per i contractors. A fine novembre un compound della società britannica 4GS, a Kabul, è stato fatto oggetto di un attacco combinato: dopo l’esplosione di un’autobomba, un commando armato è penetrato nell’installazione uccidendo un britannico e quattro dipendenti afghani. Il personale di G4S, una delle società di sicurezza privata più grandi al mondo, era già stato attaccato a marzo con un’altra autobomba.

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Una lunga serie di preoccupanti episodi di violenza, inadeguatezza e corruzione ha fatto sì che l’ex presidente Kharzai, nel 2010, mettesse al bando le società di sicurezza private dal Paese. Tutte ad eccezione di quelle al servizio d’installazioni diplomatiche, militari e di organizzazioni internazionali e quelle impegnate nell’addestramento di Polizia e Forze Armate afghane. Per aggirare la legge e rimanere sul suolo afghano, molte società straniere si sono dovute registrate come società di gestione del rischio.

Una fitta rete di subappalti e joint ventures rende comunque impossibile quantificare la presenza complessiva di contractors nel Paese. Questo vale anche per quelli al servizio di altre agenzie del Governo americano – C.I.A., Dipartimento di Stato ecc. – che, a differenza del Dipartimento della Difesa, non sono obbligate a render noti i numeri.

 

E in Siria?

 Mentre sappiamo che in Siria è presente un contingente di circa 2.000 soldati americani, il numero di contractors non è stato rivelato.

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O meglio, è stato fornito il complessivo di quelli che il Dipartimento della Difesa ha dispiegato in Siria ed Iraq; senza precisazioni. A gennaio erano 6.220, tra cui 2.850 americani, 2.441 cittadini di Paesi terzi e 929 locali: una diminuzione del 1,6% rispetto all’ultimo rapporto del 2018.

In una recente intervista a Fox Business, Erik Prince ha dichiarato che i contractors potrebbero rimpiazzare le truppe americane che si stanno ritirando dalla Siria.

Come per il progetto di privatizzazione della guerra in Afghanistan, egli ha proposto il suo piano per la Siria non solo a Washington, ma anche alle Monarchie del Golfo dove gode di canali preferenziali, visto il contingente privato che sarebbe riuscito ad allestire per gli Emirati Arabi. Tuttavia, la pubblicità che si è fatto alla Fox indicherebbe un esito non proprio felice della sua attività di lobbying.

 

Oppositori e sostenitori

 Tra i principali oppositori di Prince, nell’estate 2017, vi erano esponenti molto influenti dell’amministrazione Trump: l’ex consigliere per la sicurezza nazionale H.R. McMaster, l’ex segretario di Stato Rex Tillerson, l’attuale  segretario di Stato Mike Pompeo e l’ex segretario alla Difesa James Mattis. E proprio Mattis, poco prima di dimettersi, aveva manifestato la sua preoccupazione: “Quando c’è di mezzo la credibilità degli americani, privatizzare non è probabilmente una buona idea.

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Altri antagonisti, l’ex presidente afghano Hamid Karzai e l’attuale presidente Ashraf Ghani. Oltre ad aver più volte rifiutato di riceverlo, Ghani ha cercato di ostacolare la continua spola di Prince tra Kabul, Washington ed Emirati Arabi a suon di visti e permessi negati.

Il Presidente afghano ed il suo entourage, non solo considerano impraticabile il suo piano, ma una precisa minaccia in vista delle elezioni 2019. Ghani ha dichiarato che i “mercenari stranieri non saranno mai ammessi nel Paese”, mentre il suo Consigliere per la sicurezza nazionale non permetterà che la lotta al terrorismo diventi un’ “attività a scopo di lucro”, considerando “tutte le opzioni legali contro coloro che cercano di privatizzare la guerra.

Tra i sostenitori di Prince vi erano inizialmente Steve Bannon, ex consigliere politico di Trump e Jared Kushner consigliere e genero del Presidente. Entrambi preferivano l’utilizzo di contractors ad un surge di truppe regolari. Lo stesso Trump sarebbe un sostenitore dei contractors, data l’insofferenza per tutti quei conflitti che ha ereditato e da cui non può ritirarsi così facilmente.  Ed infatti, da quando si è insediato alla Casa Bianca, il numero di contractors armati in Afghanistan è cresciuto più del 65%. Secondo l’ ultimo rapporto dell’amministrazione Obama – ottobre 2016 -vi erano solo 813 operatori armati. A gennaio 2017 essi erano saliti a 1.722. Non è dato sapere se si sia trattato di un surge voluto da Obama o da Trump, tuttavia dal Pentagono sostengono sia dovuto alla riduzione degli orari di servizio – da 12 a 8 ore – per ridurre stress e fatica oltre a coprire licenze e malattie.

In Afghanistan, l’ex di Blackwater ha trovato simpatizzanti tra comandanti minori della milizia, funzionari di gabinetto, uomini forti e candidati presidenziali: tutti desiderosi di vedere il presidente Ghani andarsene.

 

Qualche considerazione

L’opposizione ai progetti di Prince, oltre che per la sua persona ormai indissolubilmente legata alla strage di piazza Nisour a Baghdad, si deve essenzialmente ad una serie di lacune giurisdizionali in caso di reati ed alla mancanza di una precisa linea di demarcazione tra PSC – Private Security Companies – e PMC – Private Military Companies. I contractors che si occupano di sicurezza perimetrale di basi ed ambasciate o di scorta convogli, con ricorso alla forza esclusivamente per legittima difesa appartengono alle PSC: entità legali e legittime utilizzate anche da organizzazioni internazionali come ONU ed UE.

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Invece, i compiti che Prince intende assegnare ai propri uomini consistono nel dare la caccia ed ingaggiare il nemico; operazioni di assoluta prerogativa statuale. In tal caso si parlerebbe di PMC, mercenari e criminali visto il carattere attivo ed offensivo della loro missione. Una situazione molto simile a quella del Gruppo Wagner in Siria ed Ucraina oppure della Executive Outcomes.

Quest’ultima, in particolare, addestrava ufficialmente truppe in Sierra Leone ed Angola, salvo poi guidarle anche direttamente in battaglia, contravvenendo così alla Convenzione internazionale contro il reclutamento, l’utilizzazione, il finanziamento ed addestramento di mercenari delle Nazioni Unite.

Per quanto riguarda l’Afghanistan, alcuni definiscono quello di Prince, oltre che irrealistico ed opportunista, un piano affetto da un errore concettuale di fondo: i talebani hanno dimostrato una resilienza formidabile dinanzi ad una forza immensamente superiore a quella da lui proposta. Modifiche nelle regole d’ingaggio, consulenze, riorganizzazione della logistica e soppressione delle rotazioni, quindi non potrebbero stravolgere significativamente le sorti della guerra. Anzi, l’impiego di mercenari stranieri potrebbe esser sfruttato dalla propaganda talebana.

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L’Afghanistan, poi continua a rappresentare un pozzo senza fondo per il denaro pubblico ed una gallina dalle uova d’oro per i contractors. Basti pensare ai corposi investimenti in supporto ai Ministeri dell’Interno e della Difesa – 4 contratti a DynCorp International dal 2014, per un valore di 1,62 miliardi – di cui non è possibile valutare il livello d’impatto ed i progressi a causa della scarsa pianificazione e monitoraggio.

Prince si difende sostenendo di non voler privatizzare la guerra in Afghanistan, bensì di mirare a realizzare, invece  una “struttura scheletrica di supporto a lungo termine per le forze di sicurezza afghane”, in collaborazione con la CIA ed il Comando per le operazioni speciali. Accusa inoltre i consiglieri del Presidente di falsare i rapporti per far trasparire una situazione quanto più rosea e promettente possibile; ormai prossima alla pace coi talebani.

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Per quanto riguarda la Siria, attraverso i contractors l’amministrazione Trump potrebbe mantenere un paio di grandi promesse elettorali. Da una parte il ritiro di militari dai complessi conflitti mediorientali, pur proteggendo gli alleati curdi ed evitando che russi ed iraniani imperversino indisturbati nel Paese.

Dall’altra la riduzione delle spese per le operazioni militari. Qualcuno sostiene addirittura che i costi per i contractors potrebbe accollarseli qualche Paese del Golfo. Le petrol-monarchie, infatti vedrebbero il ritiro americano come una vittoria strategica dell’Iran. Vista la loro riluttanza ad inviare contingenti in Siria, per gli Arabi quella dei contractors costituirebbe comunque una presenza/deterrenza.

Ciò che non appare evidente, in quest’ottica, secondo Matt Brodsky del think tank americano, Security Studies Group è la notevole differenza tra contractors e Forze Armate americane.

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Il piano di Prince, infatti si limiterebbe alla protezione dei curdi, mentre la presenza militare americana in Siria ha contribuito a promuovere gli interessi nazionali ben oltre la missione anti-ISIS; una funzione che i contractors non potrebbero mai assolvere.

Un vantaggio nel loro impiego per le strade di Manbij o di altre città della Siria è che, come dimostrato dal recente attentato, eventuali vittime americane passerebbero maggiormente inosservate ai media e all’opinione pubblica.

Ma che accadrebbe se i contractors di Prince fossero attaccati in forze come i militari americani a febbraio? l L’USAF o qualche brigata aviotrasportata interverrebbe con decisione per dei contractors, col rischio di farsi trascinare nuovamente in un conflitto o lascerebbero accadere una carneficina di ex militari americani?

Pur con i nuovi progetti, Afghanistan e Siria sembrano ancor lontani da una soluzione efficace e definitiva. Nel frattempo, sul numero di Gennaio/Febbraio della rivista di armi Recoil, dei nostalgici hanno pubblicato una sorta di profetico annuncio sotto il logo della Blackwater: “Stiamo arrivando”.

Foto : AFP, AP, Aegis, US DoD. Twitter e Youtube

 

Nato nel 1983 a Brescia, ha conseguito la laurea specialistica con lode in Management Internazionale presso l'Università Cattolica effettuando un tirocinio alla Rappresentanza Italiana presso le Nazioni Unite in materia di terrorismo, crimine organizzato e traffico di droga. Giornalista, ha frequentato il Corso di Analista in Relazioni Internazionali presso ASERI e si occupa di tematiche storico-militari seguendo in modo particolare la realtà delle Private Military Companies.

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