L’incendio sul sottomarino del mistero

Una cortina di silenzio è stata stesa ufficialmente dal governo russo sulla tragedia accaduta nei giorni scorsi a bordo di un sottomarino speciale da grande profondità impegnato in una poco chiara missione nel Mare di Barents. Ed è curioso che il Ministero della Difesa di Mosca non si stia preoccupando, fino a questo momento, di confermare o smentire le indiscrezioni diffuse dalla stampa fin dalle prime ore dopo l’incidente, secondo le quali l’unità vittima dell’incendio a bordo che ha ucciso la maggior parte dell’equipaggio sarebbe, con ogni probabilità, il poco noto AS-12 Losharik a propulsione nucleare, specializzato in immersioni abissali grazie alla sua peculiare struttura a batisfere interne.

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Sebbene la Russia abbia parlato genericamente di una “missione di ricerca scientifica sul fondo dei mari artici”, senza rivelare ulteriori dettagli, è possibile, o quantomeno plausibile che, date le capacità dell’AS-12, non sia estraneo un possibile piano per intercettare, o disturbare, le comunicazioni telefoniche e telematiche che corrono nei numerosi cavi sottomarini poggiati sulla pianura abissale nell’Oceano Atlantico.

Che si sia trattato di una vera missione operativa di ascolto Sigint, probabilmente non completata, oppure di un semplice addestramento a una missione solo ipotizzata, quello che è certo finora è che la Voenno-Morskoj Flot, la “Flotta Militare di Mare” russa, piange nuovi caduti fra i propri sommergibilisti, rinnovando un dramma già vissuto in passato, specialmente con l’incidente del sottomarino K-141 Kursk affondato nel 2000 con la conseguente morte del centinaio di uomini a bordo.

 

“Una grave perdita”

Era martedì 2 luglio 2019, quando si è diffusa la notizia dell’incendio scoppiato la sera precedente a bordo del sottomarino. Fin dalle prime ore si è saputo che i morti erano 14, con un numero imprecisato di altri membri intossicati dai fumi e ricoverati in ospedale non appena il battello in avaria è stato rimorchiato alla base navale di Severomorsk.

Nel comm5aac108589188d3c128b471b-750-375entare a caldo il dramma, il presidente russo Vladimir Putin, ha subito ammesso tra le righe che non si trattava di una missione subacquea qualsiasi, virando subito sull’irrinunciabile aspetto umano e parlando di quanto grave sia stata la perdita di un equipaggio valente e non comune. “Non era un mezzo navale normale, voi tutti sapete che era un mezzo di ricerca, con un equipaggio altamente qualificato. A bordo c’erano sette capitani di primo rango e due Eroi della Russia. È stata una perdita terribile per la flotta e le forze armate in generale”.

Così Putin mentre incontrava davanti alle telecamere il ministro della Difesa Sergei Shoigu, a cui ha ordinato una severa inchiesta sull’accaduto e che è partito per Severomorsk, dove è arrivato nella mattinata del 3 luglio. E a proposito dell’inchiesta, ha chiesto di dirigerla personalmente il nuovo comandante in capo della Marina russa, l’ammiraglio Nikolaj Evmenov, che da appena due mesi, dal 3 maggio, è entrato in carica subentrando al predecessore, ammiraglio Vladimir Korolyov. Certo, per Evmenov è davvero una grana, dover affrontare uno smacco del genere proprio nei primi mesi del coronamento della sua carriera, e per questo ha dichiarato di volersi mettere personalmente a capo dell’indagine.

C’è però ben più del prestigio personale in ballo in questa faccenda, data la natura “speciale” del mezzo e della missione. A tutt’oggi, gli ultimi dettagli emersi riguardavano anzitutto l’identità dei caduti, divulgata la sera del 3 luglio dopo oltre 48 ore di riserbo.

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Si tratta dei capitani di primo rango Denis Dolonskiy, Nikolai Filin, questi primi due già decorati in passato come Eroi della Russia, Vladimir Abankin, Andrei Voskresenskiy, Konstantin Ivanov, Denis Oparin e Konstantin Somov; poi, dei capitani di secondo rango Aleksander Avdonin, Sergei Danilchenko e Dmitri Soloviev; dei capitani di terzo rango Victor Kuzmin e Vladimir Sukhinichev; infine del capitano-tenente Mikhail Dubkov e del tenente colonnello Alexander Vasilyev.

Come ricordavano i primi comunicati, i 14 morti si sono sacrificati per cercare di circoscrivere l’incendio scatenatosi a bordo dell’AS-12 alle 20.30 di lunedì 1° luglio, impedendo anzitutto la perdita totale dell’unità e salvando la vita a un numero imprecisato di altri compagni, ma che dev’essere stato attorno alla decina di persone.

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In seguito è emerso, dopo che il sottomarino danneggiato è stato esaminato allo scalo di Severomorsk, che il fuoco si sarebbe innescato nel comparto delle batterie elettriche. Ciò pare compatibile con la notizia secondo la quale, quattro o cinque membri dell’equipaggio sarebbero tuttora in terapia a causa delle esalazioni tossiche scaturite dai componenti chimici delle batterie.

Il fuoco, comunque, non ha raggiunto, stando alle versioni ufficiali, il reattore nucleare che alimenta il mezzo e le rilevazioni sui livelli di radioattività compiute nelle ore seguenti da parte degli stessi russi e dei vicini norvegesi non hanno evidenziato anomalie. La Norvegia, comunque, aveva dichiarato il 2 luglio che la propria Agenzia per la Sicurezza Nucleare aveva ricevuto, nelle prime ore dopo la sciagura, dalla Russia una comunicazione secondo cui c’era stata “un esplosione di gas a bordo di un nostro sottomarino di acque profonde”. Mosca ha subito dopo smentito di aver lanciato questo allarme a Oslo, ma ci si chiede se un messaggio avventato del genere non possa aver riguardato quella che potrebbe essere una causa alternativa dell’incidente, ossia una fuga di gas radioattivo, forse vapore acqueo del circuito di raffreddamento del reattore, in seguito a mente fredda negata.

 

Missione top secret

E’ comunque comprensibile che i russi siano avari di dettagli su questo episodio, tanto che il portavoce del Cremlino Dimitri Peskov ha spiegato: “Il comandante supremo ha tutte le informazioni, ma questi dati non possono essere resi pubblici, perché sono assolutamente riservati. E’ normale che non siano divulgati”. Il governo russo non ha mai parlato dell’AS-12 come del tipo di unità protagonista suo malgrado del fattaccio, ma dopo che questa informazione tecnica è stata divulgata, per prima dalla stampa russa fin dal 2 luglio, e subito ripresa dalla stampa britannica, nessuno l’ha efficacemente messa in dubbio.

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Dubbio, o meglio interrogativo, che viceversa è emerso sul tipo di missione che l’equipaggio stava conducendo al momento dell’incendio. La flotta russa ha diramato solo che “l’unità conduceva ricerche scientifiche sulla topografia del fondale marino nel Mare di Barents, in acque territoriali russe”. Il comunicato di dice tutto e non dice niente e semmai la sua utilità è più che altro quella di tranquillizzare la Norvegia, dato che le basi navali russe del golfo di Murmansk, in cima alla penisola di Kola, si trovano a 100 km in linea d’aria dai confini con il paese scandinavo membro della NATO.

A prima vista, la stampa popolare di tutto il mondo potrebbe pensare che l’estremo riserbo con cui i russi trattano questo incidente sia dovuto a una sorta di “imbarazzo” attribuito al governo di Mosca per il fatto di dover fare i conti, ancora una volta, con un incidente subacqueo.

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L’uomo della strada potrebbe perfino pensare, semplicisticamente, che “i sommergibili ce l’hanno coi russi”. In realtà, è vero che fu tremenda per numero di vittime la tragedia del K-141 Kursk, che il 12 agosto 2000 inghiottì, sempre nelle gelide acque di Barents, tutti i suoi 118 uomini a causa della disastrosa esplosione nel locale siluri. Se però si guarda agli incidenti di entità apprezzabile occorsi a sottomarini militari di tutti i paesi dell’ultimo ventennio, su un totale di circa 35 eventi, fra gravi e meno gravi, solo in 6 casi si è trattato di unità russe, cioè un sesto del totale.

Molti incidenti hanno riguardato unità americane, britanniche, indiane, con una pletora di casi dall’incendio alla collisione. E’ vero che fra gli incidenti russi se ne contano alcuni con molti morti, come per esempio l’affondamento con 9 uomini del K-159 il 30 agosto 2003 o la morte di 20 uomini sul K-152 Nerpa l’8 novembre 2008 per una fuga di gas. Ma non sono da meno, per esempio, la morte di tutti i 70 uomini del cinese Ming n.361 Grande Muraglia, affondato il 16 aprile 2003, o il più recente dramma dei 44 membri dell’equipaggio dell’argentino San Juan, inabissatosi il 16 novembre 2017.

A parte il dramma delle famiglie dei caduti e l’imprescindibile cordoglio per il loro lutto, ciò che preoccupa la Marina russa è il fatto che l’incidente ha portato sotto i riflettori una unità subacquea supersegreta impiegabile per lo spionaggio abissale.

 

Un mezzo subacqueo unico

Basti pensare che dell’AS-12 Losharik, nonostante sia operativo da una quindicina d’anni, non sono mai state diffuse chiare immagini e che le prime abbastanza eloquenti vennero riprese per puro caso solo nel 2015 durante un servizio fotografico della rivista Top Gear, dedicato a un’automobile di lusso ripresa su una strada costiera del Mar Bianco, cogliendo sullo sfondo l’unità militare in cabotaggio.

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E sì che le origini dell’AS-12 risalgono alla fine dell’Unione Sovietica, poiché fu nel 1988 ai cantieri Sevmash di Severodvinsk su progetto di una squadra di ingegneri capeggiati da Yuri Konovalov. L’idea era quella di realizzare un veicolo subacqueo speciale in grado di raggiungere profondità abissali, dove nessun sistema attualmente esistente potrebbe rilevarlo.

La costruzione fu interrotta a causa del crollo dell’URSS nel 1992, ma riprese non appena possibile, finchè l’AS-12 fu varato nell’agosto 2003. I dati sono ancora oggi stimati e si pensa che sia lungo fra 60 e 74 metri, con un dislocamento di 2000 tonnellate in immersione. L’equipaggio sarebbe di soli 25 uomini a causa della particolare struttura interna, che illustreremo fra poco, mentre il reattore nucleare che lo muove garantirebbe circa 15.000 cavalli di potenza sull’albero dell’elica.

hqdefaultGli si attribuisce una velocità massima di 30 nodi, o 55 km/h, in immersione, ma è soprattutto importante la sua capacità di raggiungere acque profondissime stimate in almeno 3000 metri, forse anche fino a 6000.

Il segreto strutturale dell’unità, sta nel fatto che, sotto il guscio idrodinamico che lo rende esternamente simile a un qualsiasi altro sommergibile, l’AS-12 cela una struttura abitabile di sette batisfere in titanio collegate fra loro. E’ all’interno delle sfere che si trovano i compartimenti dell’equipaggio e i principali apparati, il che spiega anche perché l’equipaggio sia relativamente limitato, data la scarsità di spazio interno. Peraltro, è proprio la struttura interna a sfere che ha propiziato all’unità il nome di Losharik.

Questo era infatti il nome di un bizzarro, quanto poetico, personaggio di un vecchio cartone animato sovietico del 1971, una sorta di cavallino il cui corpo era formato da una serie di sfere colorate. Altra peculiarità è che non imbarca  armi, perlomeno non ufficialmente, ma probabilmente solo sensori, elettromagnetici o sonori, che servono per attività di intelligence.

 

Ascoltare il mondo

La vita operativa dell’AS-12 Losharik si svolge in un reparto speciale, la 29° Brigata Sottomarina Separata, che ha la sua base avanzata a Gadzhievo, nella baia di Olenya allo sbocco del golfo di Murmansk. Fanno parte di questa squadra una serie di altri sottomarini russi speciali e anche di grosse unità che possono trasportarli fino negli oceani aperti fungendo da nave-madre. Ufficialmente si tratta di una unità di ricerca inquadrata in un cosiddetto GUGI, o Glavnoe Upravlenie Glubokovodnik Isspledovanii, cioè Primo Direttorato delle Ricerche Abissali.

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Fra i grossi battelli subacquei che possono “traghettare” l’AS-12 fino alla zona di operazioni figura il BS-64 Podmoskoviye, un ex-sottomarino SLBM classe Delta IV modificato con lunghi lavori, dal 2000 al 2015, per ricavare dallo spazio dei pozzi di lancio dei missili una sorta di hangar per trasportare sottomarini più piccoli sul dorso. Analogamente, la brigata riceverà presto, quando sarà pronto, l’ingrandito K-329 Belgorod, che è stato varato pochi mesi fa, il 23 aprile 2019, ed è in fase di completamento con previsione di operatività forse già nel 2020 o 2021. Messo in cantiere fin dal 1992, subì una storia travagliata. Inizialmente sospeso nel caos dei primi anni post-sovietici, fu ripreso nel 2000 e il grosso dello scafo era finito già nel 2004, ma dubbi susseguenti portarono a una estesa riprogettazione.

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Dal 2012 i nuovi lavori ne hanno aumentato la lunghezza da 154 a 184 metri, rendendolo di fatto il sottomarino più grande del mondo, avendo superato la classe Akula. In verità foto satellitari diffuse nel giugno 2019 e che mostrano il Belgorod ormeggiato vicino al K-549 Knyaz Vladimir, lasciano pensare, per raffronto, molti analisti che esso sia anche più lungo di 184 metri, forse su  (nella foto a lato) 200 metri, a maggior conferma dell’essere il più grande sottomarino di sempre.

Ebbene, per l’AS-12, che già di per sé è accreditato di un’autonomia di sei mesi, il poter essere trasportato lontano, anche dall’altra parte del mondo, da simili colossi, significa poter allargare su un campo globale la sua attività, che molti in Occidente temono possa essere l’intercettazione Sigint dei segnali viaggianti sui cavi sottomarini che costituiscono la principale, e più affidabile, ossatura delle comunicazioni intercontinentali.

Questo e altre unità abissali di diverso modello, ma simili nelle prestazioni generali, come l’AS-13, AS-15, AS-21 e AS-35, dà corpo a preoccupazioni crescenti espresse in ambito NATO. Nel dicembre 2017 l’ammiraglio americano Andrew Lennon, comandante della forza sottomarina della NATO dichiarò al Washington Post: “Abbiamo notato nei paraggi del cavi sottomarini un’attività subacquea russa che non pensavamo avremmo mai visto.

La Russia si sta chiaramente interessando alle infrastrutture sottomarine della NATO”. Il 2 febbraio 2018, inoltre, Business Insider segnalava una serie di avvertimenti da parte di alti ufficiali anglo-americani che avevano fatto irritare l’ambasciata russa di Londra.

Infatti l’ex-direttore del GCHQ, il dipartimento di intercettazioni britannico paragonabile alla NSA americana e che già fu famoso nella Seconda Guerra Mondiale per aver violato i codici tedeschi con la macchina Ultra, Robert Hannigan, dichiarò: “Nella guerra ibrida è possibile modificare l’economia del Regno Unito, anche senza metterla in ginocchio, tagliando solo alcuni cavi in fibra ottica. Si potrebbero rallentare le cose e con il trading automatico si potrebbe rendere la vita molto difficile se uno lo volesse, senza dover affrontare un conflitto completo”.

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Gli faceva eco nientemeno che l’ammiraglio americano James Stavridis: “Le forze dei sottomarini russi hanno intrapreso attività di monitoraggio e targeting dettagliate nelle vicinanze dell’infrastruttura di cavi sottomarini del Nord Atlantico. Hanno la capacità di fare un colpo mirato, causando un danno potenzialmente catastrofico”.

Sul fondo degli oceani ci sono 380 cavi, fra principali e secondari, attraverso i quali passa praticamente il 97 % delle telecomunicazioni mondiali. E con le tecnologie attuali sono praticamente senza difesa, anche perché la loro stessa estensione di centinaia o anche migliaia di chilometri rende impossibile una sorveglianza capillare lungo l’interezza dei loro tracciati. Perciò si può ben dire che in questo caso l’offensiva supera largamente la difensiva, come non solo i russi, ma già gli americani avevano capito.

 

Gli eredi di Ivy Bells

A dispetto degli allarmi NATO, va ricordato che gli stessi americani furono pionieri dell’ascolto dei cavi avversari, e potenzialmente della loro interruzione in caso di guerra, con la famosa Operazione Ivy Bells, condotta dal 1971 al 1981 sul fondo del Mare di Okhotsk. La US Navy mandò il sottomarino nucleare speciale Halibut, con a bordo un mini-sottomarino DSRV, a porre apparati di registrazione sul cavo che collegava Vladivostok alla base di sottomarini sovietici di Petropavlovlsk.

Gli apparati, fissati sul cavo in un tratto a profondità moderata, sui 120 metri, captavano e registravano le comunicazioni russe su cassette che venivano prelevate periodicamente, sembra ogni sei mesi. L’operazione fu interrotta quando gli americani scoprirono, con rammarico, che l’apparecchio era stato rimosso. Ciò perché il segreto era stato rivelato da uno delle più famose spie degli ultimi decenni, il funzionario NSA Robert Pelton, che dal 1980 si era messo a lavorare per i sovietici.

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E’ presumibile che operazioni del genere siano state portate avanti dagli americani e anche dai sovietici su vari altri cavi sottomarini, e che, semplicemente, siano ancora avvolte dal segreto. Come segrete restano missioni e reali capacità del sottomarino nucleare americano NR-1, in servizio dal 1969 al 2008, ufficialmente per “scopi di ricerca” e capace di immergersi fino a 900 metri dichiarati, ma forse molto di più.

Come si vede, dunque, l’AS-12 Losharik è tutto sommato in buona compagnia e rappresenta un fronte avanzato di una silenziosa guerra negli abissi per ascoltare o minacciare i contatti intercontinentali.

Nel caso specifico delle unità russe di base nella penisola di Kola, l’obbiettivo più vicino è senz’altro il cavo norvegese che corre da Breivika, non lontano da Capo Nord, fino a Longyearbyen, nelle isole Svalbard, ma strategicamente appare di poco conto, se non per ottenere informazioni di rimando su cambiamenti dell’allerta delle forze norvegesi che potrebbero dare indizi di una più generale mobilitazione della NATO.

Gli obbiettivi più importanti sono sicuramente le decine di cavi che passano dalla Gran Bretagna, la quale fin dal 1800, ai tempi dell’Impero Britannico, aveva saputo farsi snodo fondamentale della nascente rete di cavi telegrafici, mantenendo poi questa posizione centrale anche negli ultimi cento anni per lo sviluppo delle comunicazioni Europa-America. Solo nel tratto di costa fra la Cornovaglia e il Galles si concentrano almeno sei cavi transatlantici principali, che poi corrono per 5000 chilometri sulla piana abissale dell’oceano fino agli Stati Uniti. I cavi si collegano alla costa britannica nelle località di Bude, Highbridge, Brean, Oxwich Bay, Portchurno e Sennen Cove.

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E guarda caso, fu su una scogliera vicina a Bude che nel 1971 venne costruita in Gran Bretagna di una delle maggiori stazioni di intercettazione del sistema Echelon, quella di Morwensto (nelle foto a lato e sopra), in Cornovaglia, dedicata all’ascolto di tutte le comunicazioni intercontinentali via satellite e anche via cavo.

Inizialmente in questa base, anch’essa gestita insieme da inglesi e americani, c’erano solo due antenne a parabola, diventate nove nell’arco dei successivi vent’anni. Oltre a puntare le sue antenne sui satelliti geosincroni posizionati sopra l’Oceano Atlantico e l’Oceano Indiano, il centro di Morwenstow scandaglia da oltre un quarantennio il traffico telefonico e in tempi più recenti telematico, che passa dai vicini approdi costieri dei cavi.

Come si vede, che lo si faccia sopra o sotto l’acqua, la sostanza non cambia. E del resto non c’è ragione per cui ciò che hanno fatto e possono fare gli anglo-americani, sia di per sé meno deprecabile di ciò che i russi si sentono in diritto di poter fare per pareggiare il conto a livello strategico e mantenere equilibri importanti per la stabilità globale.

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Le comunicazioni a lungo raggio via cavo, che restano ancora oggi una spina dorsale del mondo moderno, sono esposte e indifese, sia a captazioni, sia a rischi di distruzione fisica, poiché battelli simili all’AS-12, anche di altre nazioni potrebbero in teoria posare su queste “arterie” anche esplosivi, eventualmente con detonatori preprogrammati o innescabili via radio in un dato momento, nel caso una crisi degeneri in guerra aperta.

A profondità di migliaia di metri non esiste ancora una reale possibilità di pattugliamento o combattimento, per quel che si sa, per contrastare la minaccia.

E il segreto con cui i russi cercano ancora di coprire l’attività della 29a Brigata, o di altri eventuali reparti similari è comprensibile, dato che il confronto abissale rappresenta un nervo scoperto per tutte le potenze, stante la chilometrica massa d’acqua che annulla di fatto il vantaggio tecnologico della sorveglianza continua in tempo reale. E quindi ritarda enormemente qualsiasi reazione a un’azione ostile sulle strutture sommerse.

 

 

Nato nel 1974 in Brianza, giornalista e saggista di storia aeronautica e militare, è laureato in Scienze Politiche all'Università Statale di Milano e collabora col quotidiano “Libero” e con varie riviste. Per le edizioni Odoya ha scritto nel 2012 “L'aviazione italiana 1940-1945”, primo di vari libri. Sempre per Odoya: “Un secolo di battaglie aeree”, “Storia dei grandi esploratori”, “Le ali di Icaro” e “Dossier Caporetto”. Per Greco e Greco: “Furia celtica”. Nel 2018, ecco per Newton Compton la sua enciclopedica “Storia dei servizi segreti”, su intelligence e spie dall’antichità fino a oggi.

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