L’ascesa degli Houthi da miliziani dello Yemen a corsari del Mar Rosso
Negli ultimi mesi lo scoppio del conflitto fra Israele e Hamas ha spinto non solo gli sciiti libanesi Hezbollah, ma anche i ribelli yemeniti Houthi (o Huthi), raggruppati nel movimento Ansar Allah, a intervenire con attacchi di disturbo rivolti a Israele e soprattutto al traffico navale da e per lo stato ebraico lungo la nevralgica rotta del Mar Rosso. Le azioni di droni e missili attuate dai miliziani sciiti yemeniti, alleati dell’Iran non meno che Hezbollah e Hamas, hanno rivelato quanto sia vulnerabile la via d’acqua che passa dallo stretto di Bab El Mandeb, collegante il Mar Rosso al Mare Arabico e all’Oceano Indiano, da cui passa, grazie al canale di Suez che la collega al Mediterraneo, fra il 10% e il 15% del commercio navale mondiale. Numerose compagnie di navigazione hanno nelle scorse settimane interrotto il transito dall’area, deviando le loro navi cargo sull’assai più lunga rotta del periplo dell’Africa. E gli Stati Uniti hanno lanciato il piano per una missione navale internazionale di pattugliamento e protezione delle navi mercantili. Cos, gli Houthi si sono imposti all’attenzione del mondo, mostrandosi di fatto una potenza regionale munita di un arsenale relativamente ampio e favorita dalla posizione geografica a guardia dello stretto di Bab El Mandeb, forti di un’esperienza accumulata negli anni della dimenticata guerra civile nello Yemen, contrassegnata dall’intervento dell’Arabia Saudita.
E’ all’insegna dell’interdizione delle rotte marittime passanti dal canale di Suez che è iniziato il 2024. E la tendenza iniziata nell’autunno 2023 sull’onda dei ripetuti attacchi, inefficaci militarmente ma riusciti sotto il profilo dell’intimidazione, portati dagli yemeniti sciiti Houthi al naviglio in transito dallo sbocco del Mar Rosso s’è confermata durevole e probabilmente destinata a persistere ancora per settimane o mesi.
Le azioni della milizia yemenita, da anni sostenuta dall’Iran, sono apertamente legate al conflitto Israele-Hamas e probabilmente pianificate di comune accordo con gli ayatollah iraniani e le milizie palestinesi. Non a caso, il 3 gennaio 2024 s’è appreso che nell’attacco israeliano del giorno precedente, con cui un drone ebraico ha ucciso alla periferia di Beirut, in Libano, il vicecapo politico di Hamas, Saleh Al Arouri, fra gli altri 6 membri di Hamas annientati dal raid c’era anche Samir Effendi, detto anche Abu Amer, esponente del braccio militare del movimento, le Brigate Al Qassam, ma soprattutto considerato dagli israeliani “l’uomo di contatto fra Hamas e gli Houthi”.
Ulteriore indizio di un asse coordinato, il 1° gennaio fonti governative iraniane hanno informato l’agenzia IRNA che uno dei maggiori emissari del movimento sciita yemenita, Mohammed Abdel Salam, ha incontrato a Teheran il presidente del Consiglio di sicurezza iraniano, contrammiraglio Ali Akbar Ahmadian, parlando con lui di “interessi comuni e questioni di sicurezza regionale”.
Poi, il 3 gennaio, è stato divulgato dal Jerusalem Post che Salam ha incontrato anche Mohammed Ghalibaf, uno dei “pezzi da 90” del Consiglio della Shura iraniana, e il ministro degli Esteri Hossein Amir Abdollahian. Nel medesimo pomeriggio, le esplosioni che nel cimitero iraniano di Kerman hanno causato 103 morti durante le celebrazioni per il quarto anniversario dell’uccisione del generale Qasem Soleimani da parte di un drone americano in Iraq, sono state attribuite a Israele. E fra le ritorsioni minacciate dagli iraniani potrebbe essere contemplato anche un salto di qualità nelle azioni degli alleati Huthi.
Già nella notte fra il 2 e il 3 gennaio, l’ente britannico United Kingdom Maritime Trade Operations, che per conto della Royal Navy monitora la sicurezza dei traffici navali, è stato il primo a segnalare un nuovo attacco Houthi, il primo del 2024. L’UKMTO ha dapprima parlato di “tre esplosioni avvertite in un raggio fra 1 e 5 miglia nautiche (da 1,8 a 9,2 km) di distanza da un cargo che incrociava nello stretto di Bab El Mandeb”.
La nota inglese proseguiva: “Il comandante non segnala danni alla nave e l’equipaggio è salvo. Le autorità stanno indagando”. Più tardi, il Central Command americano ha dato a intendere che le esplosioni erano probabilmente legate al lancio di “due missili balistici antinave” da parte dei miliziani yemeniti. Stando al comunicato del CENTCOM: “Molteplici navi mercantili hanno riportato l’impatto dei missili nelle acque circostanti, ma nessuno ha riportato danni. Gli attacchi mettono a rischio la vita di marinai innocenti e ostacolano il libero flusso del commercio internazionale”.
Poche ore dopo, sono stati gli stessi Houthi a rivendicare il duplice lancio. Uno dei loro maggiori portavoce, il generale Yahya Sarea, ha affermato: “Abbiamo preso di mira la nave portacontainer CMA CGM Tage, diretta in Israele. Avevamo mandato messaggi di avvertimento all’equipaggio, che però non ci ha prestato attenzione”. Con riferimento all’impegno militare americano nell’area, che potrebbe contemplare non solo la difesa delle navi, ma anche incursioni nel territorio yemenita, ha aggiunto: “Nessun attacco americano passerà senza risposta o punizione”.
La compagnia francese di navigazione CMA ha precisato che il cargo non si dirigeva verso lo stato ebraico, bensì verso l’Egitto, ma, d’altronde, la pretesa degli Houthi di ostacolare solo navi che abbiano a che fare con Israele sembra solo una parvenza di giustificazione per danneggiare, in realtà, un po’ tutto il commercio via Suez.
A testimonianza della gravità della situazione, il 2 gennaio è stato anticipato dall’inviato francese alle Nazioni Unite, Nicolas de Riviere, che l’indomani si sarebbe tenuta una riunione del Consiglio di Sicurezza ONU, la prima dell’anno, dedicata alla crisi nel Mar Rosso: “La situazione è brutta. C’è una ripetizione di violazioni e azioni militari in quest’area”.
Poco dopo è stato precisato che il Consiglio di Sicurezza si sarebbe tenuto il 3 gennaio, alle 15.00 ora di New York, le 21.00 in Italia. E il portavoce della missione USA all’ONU, Nate Evans, ha definito “i numerosi e ingiustificati attacchi degli Houthi” una “grave minaccia al commercio internazionale”.
In serata, il Consiglio di Sicurezza ONU ha condannato la condotta degli sciiti yemeniti, chiedendo loro di cessare i lanci di ordigni, ma con diverse sfumature. Per il viceambasciatore USA Christopher Lu: “Il ruolo dell’Iran è la radice del problema perché Teheran ha reso possibili queste capacità degli Houthi”. L’ambasciatore russo Vassilij Nebenzia, condividendo il generico monito agli yemeniti ha invece imputato “la radice del problema all’estensione del conflitto fra Israele e Hamas”, criticando gli Stati Uniti per il loro “opporsi a un piano di cessate il fuoco”.
Cina e Giappone hanno accompagnato i loro interventi alla constatazione del pericolo per le rotte vitali per le loro economie, sia nel senso dell’importazione di idrocarburi e materie prime, sia in quello dell’esportazione verso l’Occidente di prodotti finiti.
Gli Stati Uniti, tuttavia, imbaldanziti dall’organizzazione della missione internazionale di pattugliamento navale Prosperity Guardian, si sono premurati di coinvolgere altri 11 paesi alleati, fra cui Gran Bretagna, Italia e Bahrein, per redigere un avvertimento collettivo agli Houthi: “Gli attacchi sono illegali, inaccettabili e destabilizzanti. Non c’è giustificazione legale per prendere di mira intenzionalmente navi da guerra e navi civili”.
E poi: “Quasi il 15% del commercio marittimo globale passa attraverso il Mar Rosso, compreso l’8% del commercio globale di cereali, il 12% del petrolio commercializzato via mare e l’8% del commercio mondiale di gas naturale liquefatto. Le compagnie di navigazione internazionali continuano a reindirizzare le loro navi attorno al Capo di Buona Speranza, aggiungendo costi significativi e settimane di ritardo nella consegna delle merci e, in ultima analisi, mettendo a repentaglio la circolazione di cibo, carburante e assistenza umanitaria in tutto il mondo”.
Per inciso, il riferimento ai rischi per la distribuzione mondiale di cibo riecheggia simili ansie (e narrazioni) legate alla guerra Russia-Ucraina e alla partenza dal Mar Nero delle navi granarie dei due paesi. Ciò dimostra quanto la protezione dei trasporti marittimi rimarrà sempre una delle bussole strategiche più importanti anche in futuro. Specie se fra ulteriori crisi da interdizione dei traffici si paventi un conflitto USA-Cina nel Pacifico che coinvolga gli stretti della Malacca e della Sonda.
Ciò che è sicuro è che gli Houthi, per anni quasi dimenticati dal mondo e considerati attori relativamente marginali, importanti solo nel circoscritto scacchiere della guerra civile yemenita e della sua propaggine in termini di scontri con l’Arabia Saudita, sembrano aver compiuto un salto di qualità nel presentarsi come minaccia credibile sul piano globale.
Hanno acquisito un credito militare e diplomatico forse sovradimensionato rispetto ai mezzi tecnici a loro disposizione, ma non del tutto, considerato che hanno capitalizzato la loro posizione di catenaccio sullo stretto di Bab El Mandeb. Senza contare il loro intreccio col “grande fratello” iraniano, che li introduce in gioco geopolitico di più ampio respiro rispetto alla loro “agenda” locale. Gli eventi degli ultimi mesi non hanno fatto che corroborare tale dinamica.
“Ppartigiani di Dio”
Il vero nome del movimento degli sciiti yemeniti è Ansar Allah, ovvero “Partigiani di Dio”, ma è più noto col nome del clan fondatore, Houthi. Sciiti di confessione zaidita, si organizzarono fin dal 1994 nel movimento creato dal predicatore Hussein Al Houthi, che si ispirò molto al partito armato libanese Hezbollah. Dopo aver animato le prime proteste contro il governo sunnita del presidente Ali Abdullah Saleh, il gruppo venne visto come una minaccia crescente dal governo yemenita e preso di mira dalla polizia. Nel 2004 il fondatore Hussein proclamò l’insurrezione contro Saleh, ma venne ucciso. Al suo posto assurse a capo di Ansar Allah suo fratello Abdul Malik Al Houthi (nella foto sotto), tuttora in sella.
Nonostante molte difficoltà, il movimento poté arroccarsi nell’Ovest del paese, specie nelle regioni di Saada e Al Jawf, resistendo per anni. Quando nel 2011 le proteste popolari delle “primavere arabe” raggiunsero anche lo Yemen, il potere di Saleh iniziò a vacillare e gli Houthi guadagnarono posizioni. Nel 2014 conquistarono la capitale Sanaa e si allearono col decaduto Saleh contro il nuovo presidente Abdurabbu Mansur Hadi, che fuggì ad Aden creandovi un governo rivale.
Senza dilungarci nei dettagli della guerra civile yemenita, ci limiteremo a ricordare che già allora l’Iran iniziava a sostenere Ansar Allah con armi e consulenti militari, che andavano ad aggiungersi agli arsenali catturati nelle caserme dell’esercito yemenita presso la capitale.
Nel marzo 2015 iniziò la lunga stagione dell’intervento dell’Arabia Saudita, a capo di una coalizione che comprendeva anche gli Emirati Arabi Uniti, per stroncare la minaccia sciita yemenita, interpretata da Riad, non a torto, come un aggiramento strategico alle spalle da parte dell’Iran. Già nel 2016, ai bombardamenti aerei della coalizione saudita, gli Houthi iniziarono a replicare con lanci di missili balistici denominati Burqan 1 e fatti passare per ordigni di origine locale ma in realtà forniti da Teheran.
Si tratterebbe di una versione potenziata, con gittata di 800 km, del vecchio missile sovietico a corto raggio Scud. Poiché molti Scud erano presenti negli arsenali yemeniti catturati da Ansar Allah, non è ancora del tutto chiaro se maestranze iraniane li abbiano modificati in loco o se siano stati importati direttamente dall’Iran.
Gli esperti di Jane’s ritengono che siano stato modificati in Yemen, probabilmente dagli iraniani che avrebbero importato solo piccole componenti e attrezzature necessarie. Coi vettori Burqan, poi elaborati nel Burqan 2 da 1000 km, gli Huthi hanno lanciato vari attacchi contro obbiettivi in profondità nella stessa Arabia Saudita, per esempio mirando più volte alla base aerea “Re Fahd” di Taif e anche all’aeroporto “Re Abdulaziz” di Gedda, nonché alla stessa Riad.
Per la maggior parte sono stati intercettati dai missili Patriot che i sauditi hanno comprato dagli Stati Uniti, ma in molti casi hanno causato danni. Così il 22 luglio 2017 un Burkan 2 avrebbe incendiato una raffineria della Aramco presso Yanbu, poi il 25 marzo 2018 venne colpita Riad. Frattanto l’arrivo dall’Iran di droni marini Shark-33 aveva permesso, il 30 gennaio 2017, di colpire e danneggiare nel Mar Rosso la fregata saudita Al Madinah.
Già nel 2016 la US Navy sequestrò un cargo che cercava di contrabbandare armi iraniane in Yemen, destinandole agli Houthi. Non stupisce che da allora abbiano realizzato, con componenti importate, droni aerei come il Qasef-1, considerato la copia yemenita dell’Ababil-T iraniano, con soli 200 km di autonomia. A esso è seguita poi la serie dei Samad, arrivati fino a oltre 1.500 km di raggio d’azione.
Il 7 marzo 2021 gli Huthi lanciarono 14 droni e 8 missili balistici sugli impianti petroliferi della Aramco a Ras Tanura, sulla costa orientale della penisola arabica. Il 24 marzo, andò distrutto un grande deposito di greggio al terminal di Jizan, mentre gli Huthi lanciavano missili anche sulle basi militari saudite di Dammam, Najran e Asir. Sebbene i Patriot riuscissero a distruggere la maggior parte degli ordigni. Era per Riad la dimostrazione che l’asse Iran-Ansar Allah era più coriaceo che mai.
Nel frattempo il panorama stesso della guerra civile yemenita si era complicato con la sostanziale suddivisione dello Yemen in tre territori principali, quello dominato dagli sciiti di Ansar Allah nell’Ovest, più due governi yemeniti rivali, uno nel Sud sostenuto dagli Emirati Arabi Uniti e uno nell’Est filo-saudita.
In piccole zone erano inoltre presenti nuclei di al-Qaeda nella Penisola Araba (AQAP) e dell’ISIS, talvolta colpiti da incursioni di droni e forze speciali americane. Proprio il governo filo-saudita il 4 aprile 2021 processò per spionaggio un ufficiale dei pasdaran iraniani catturato durante combattimenti contro gli Houthi ed evidentemente colà schierato come consigliere militare.
Teheran, del resto, scortava i suoi mercantili diretti alla costa yemenita controllata dagli sciiti con una nave-spia, camuffata essa stessa da cargo, la Saviz, che però il 6 aprile venne danneggiata da mine posate probabilmente da Israele, mentre era al largo di Gibuti. La Saviz dovette così lasciare il Mar Rosso e in seguito è stata rimpiazzata da un altro vascello-spia dei pasdaran, la Behshad, tuttora presente nella zona.
Israele non ammise di aver attaccato le mine alla chiglia della Saviz, ma il giorno successivo il New York Times scrisse: “Israele ha avvisato gli Stati Uniti di aver attaccato la nave iraniana. E’ stata una ritorsione israeliana per i precedenti attacchi iraniani a navi israeliane. Gli israeliani avrebbero aspettato che una portaerei americana presente nella zona, la Eisenhower (nella foto sotto), si allontanasse di 200 miglia dalla Saviz”.
Il 9 maggio 2021 l’incrociatore americano Monterey intercettò e seguì nel Mare Arabico un cargo carico di armi russe e cinesi forse destinate agli Houthi, infine abbordato da un elicottero Blackhawk decollato dalla nave statunitense. Il 5 settembre successivo Ansar Allah sparò nuovi missili e droni alle raffinerie di Ras Tanura, sebbene i sauditi avessero sostenuto di averli tutti abbattuti. Il 23 dicembre 2021 le navi americane Tempest e Typhoon della 5a Flotta USA bloccarono una ulteriore nave “senza nazionalità” che recava a bordo 1.400 kalashnikov e 226.000 cartucce.
La nave aveva a bordo 5 persone di nazionalità yemenita. I militari americani dichiararono che da “dettagli non rivelati si suppone che la nave tragga origine dall’Iran” e sia implicata anche col sostegno di Teheran agli Houthi. Dal 2 aprile 2022, con un cessate il fuoco propiziato dall’ONU e via via rinnovato, il conflitto yemenita è entrato in una fase di stasi, salvo scontri isolati sul territorio.
Ciò che conta, è che oggi le due maggiori parti in conflitto, Ansar Allah e l’Arabia Saudita, hanno cessato di combattersi. E la tenuta dell’intesa, o quantomeno della tregua, è stata facilitata dopo il marzo 2023 dallo storico accordo mediato dalla Cina fra Iran e Arabia Saudita, per la normalizzazione dei rapporti diplomatici. In anni di conflitto, le milizie Houthi hanno potuto accumulare esperienze e armi sufficienti a poter condizionare gli equilibri nel Mar Rosso con sforzi e spese relativamente limitate, sempre grazie al sostegno iraniano.
Capodanno di battaglia
Iln2023 si è chiuso con una vera e propria battaglia navale, per quanto piccola, nel Mar Rosso. Rappresenta il culmine di un crescendo di tensione e azioni protrattesi negli ultimi due mesi.
E fa presagire ulteriori sviluppi. Il 31 dicembre 2023 la nave portacontainer Maersk Hangzhou, battente bandiera di Singapore e appartenente alla compagnia danese Maersk, è stata dapprima bersagliata con “missili balistici” lanciati dalla costa occidentale dello Yemen, feudo dei ribelli yemeniti sciiti Houthi, sostenuti dall’Iran, per poi subire un fallito assalto di pirateria. Uno dei missili ha colpito la nave, pur senza provocare gravi danni, ma il cargo ha subito chiesto aiuto via radio a due navi da guerra americane incrocianti nei paraggi, i cacciatorpediniere Gravely e Laboon, unità gemelle classe Arleigh Burke. Il Gravely ha captato col radar due ulteriori missili sparati dagli Houthi e li ha abbattuti con missili antimissile Standard SM-2 oppure SM-6.
La nave civile non ha subito grosse conseguenze, stando all’ente britannico UK Maritime Trade Operations (UKMTO) che monitora i rischi per la navigazione commerciale: “L’incidente è avvenuto a circa 55 miglia nautiche (101 km) a Sud-ovest del porto yemenita di Hodeidah. Il comandante ha riferito di un forte scoppio accompagnato da un lampo sul lato sinistro della prua della nave”.
La limitata portata dell’esplosione e la distanza relativamente contenuta, un centinaio di km, dal porto di Hodeidah, che è la maggior roccaforte degli Houthi accredita che questi ultimi possano aver utilizzato per l’attacco missili balistici di risulta Qaher, i quali non sarebbero altro che vecchi antiaerei SA-2 Guideline di origine sovietica, alias S-75 Dvina nella designazione russa originaria, forniti molti anni fa allo Yemen e in seguito modificati in rudimentali balistici terra-terra dai suddetti ribelli.
Armi per le quali si ipotizza una gittata massima di 250 km e che sarebbero ideali per azioni di intimidazione a breve raggio nella porzione meridionale del Mar Rosso, senza badare troppo né alla precisione, né alla potenza della testata esplosiva, che probabilmente è rimasta quella originale (o similare) a frammentazione con spoletta di prossimità dell’SA-2. Gli yemeniti filoiraniani riserverebbero invece, presumibilmente, ordigni di maggiore gittata e potenza distruttiva ai lanci dimostrativi verso Israele, o comunque obiettivi a maggiore distanza.
Quello che è stato in sostanza il 23° attacco al traffico marittimo orchestrato dagli Houthi a partire dal 19 novembre, ha avuto poche ore dopo un seguito inaspettato con un vero e proprio tentativo di arrembaggio da parte di pirati membri essi stessi del movimento Ansar Allah.
Nella medesima giornata del 31 dicembre, alla Maersk Hangzhou (nella foto sotto) si è infatti avvicinata una flottiglia di 4 piccole imbarcazioni veloci, sorta di motoscafi o lance, cariche di miliziani armati. Gli scafi pirati si sarebbero portati fino a soli 20 metri di distanza dalla murata dell’unità mercantile e i miliziani a bordo avrebbero iniziato una sparatoria con le guardie armate imbarcate. L’arrembaggio è stato scongiurato giusto per il tempo necessario affinché un nuovo appello radio della Maersk Hangzhou alla US Navy causasse un ulteriore intervento di soccorso.
Un numero imprecisato, due o più, di elicotteri si è levato sia dal cacciatorpediniere Gravely, sia dalla portaerei Eisenhower, anch’essa in navigazione nell’area, dirigendosi verso la nave danese. A quanto ricostruito dalle fonti militari statunitensi, dai loro motoscafi i pirati yemeniti hanno iniziato ad aprire il fuoco contro i velivoli ad ala rotante USA, i quali hanno reagito distruggendo tre delle imbarcazioni, uccidendo 10 miliziani e ferendone 2. Così ha spiegato un comunicato del CENTCOM che ha competenza sul Medio Oriente: “Gli elicotteri della US Navy hanno risposto al fuoco per legittima difesa affondando tre imbarcazioni e uccidendone gli equipaggi, mentre la quarta unità è fuggita. Non ci sono danni a personale o mezzi USA”.
La società Maersk ha poi confermato, il 1° gennaio 2024, che “l’equipaggio della Hangzhou è illeso”. Ha però ammesso di dover “sospendere per 48 ore il transito di navi da Bab El Mandeb”.
E’ una, pur momentanea, retromarcia rispetto a quanto dichiarato il 26 dicembre scorso dalla compagnia, che dopo aver deviato nei giorni precedenti attorno all’Africa le sue navi, aveva poi valutato di riprendere la via di Suez, fiduciosa nell’operazione navale a guida americana Prosperity Guardian, a cui parteciperà anche l’Italia.
Di fatto, quindi, la doppia azione degli Houthi, missilistica e di tentata pirateria, è riuscita almeno nell’intento di seminare ancora l’incertezza e il panico fra gli operatori commerciali attivi lungo la rotta del canale di Suez. Certo, l’annunciata missione Prosperity Guardian dovrebbe a sua volta costituire un deterrente nei confronti degli Houthi. Ma nelle prime ore del 2024 sembravano ancora prevalere titubanze a Washington circa l’opportunità di limitarsi a difendere le navi di volta in volta assalite, oppure agire preventivamente contro gli sciiti yemeniti di Ansar Allah.
A seguito dell’intervento della Marina americana a protezione della Maersk Hangzhou, il portavoce del Consiglio della Sicurezza Nazionale USA, John Kirby (nella foto), ha affermato: “Noi non cerchiamo un conflitto più ampio nella regione e non cerchiamo un conflitto con gli Houthi. La miglior condotta per loro sarebbe cessare questi attacchi, come abbiamo più volte ribadito”.
Sulla prospettiva di eventuali attacchi aeronavali alle basi Houthi nello Yemen Occidentale, Kirby s’è limitato ad aggiungere: “Non escludiamo nulla in un verso o nell’altro, ma abbiamo chiarito pubblicamente agli Houthi, e privatamente ai nostri alleati nella regione, che prendiamo seriamente queste minacce e che prenderemo le giuste decisioni”.
Nonostante il presidente americano Joe Biden sia riluttante a estendere al Mar Rosso il già strisciante conflitto tra le forze armate USA e altre milizie filoiraniane, come le Kataib Hezbollah stanziate tra Iraq e Siria, il New York Times ha anticipato il 1° gennaio 2024 che “funzionari del Pentagono hanno preparato piani per colpire basi di missili e droni nello Yemen”.
Washington è ancora frenata dal timore di far saltare la tregua fra Houthi e Arabia Saudita dopo i lunghi anni della guerra civile yemenita, ma il vice ammiraglio in congedo Kevin Donegan, ex comandante della 5a Flotta USA, sentito dal New York Times, ha esortato ad agire, commentando: “Se gli Stati Uniti non rispondono alla minaccia posta dagli Houthi alle navi e al personale militare statunitense, inviteranno a ulteriori attacchi poiché i gruppi nemici inizieranno a pensare che attaccare una nave americana comporti un basso rischio di ritorsioni”. In sostanza, pare che ferva in questi primi giorni di gennaio 2024 in America un dibattito interno ai vertici politico-militari su quanto debba essere realmente estesa un’operazione militare a tutela della navigazione nel Mar Rosso, per scoraggiare ulteriori attacchi Houthi.
Da Londra, il ministro della Difesa britannico Grant Shapps (nella foto) ha ammonito a Capodanno: “Siamo pronti ad agire per scoraggiare le minacce alla libertà di navigazione nel Mar Rosso”. Per il Daily Telegraph, Gran Bretagna e USA stanno preparando piani congiunti di attacco contro gli Houthi, oltre a una dichiarazione congiunta che suona come un “ultimo avvertimento”.
Intanto l’Iran ha confermato di fatto, una volta di più, il suo sostegno ad Ansar Allah. All’indomani dell’attacco alla nave della Maersk, il 1° gennaio l’agenzia iraniana Tasnim ha annunciato che è entrata nel Mar Rosso una nave della Marina di Teheran, la fregata Alborz della 94° flottiglia. E’ una vecchia nave da 1.100 tonnellate, operativa dal 1971, cioè dai tempi dello scià Reza Palhevi, ma rimodernata con missili antinave Noor. Nulla di eccezionale dal punto di vista della potenza militare, si tratta più che altro di un’unità utile a “mostrare la bandiera”.
La sua presenza può comunque essere utile agli alleati di Teheran dal punto di vista della ricognizione, dell’intelligence e, nello specifico, del monitoraggio del traffico aeronavale, civile e militare, in transito dalla zona, come già la nave-spia Beshahd, segnalata in quelle acque fin da novembre.
Fino allo spazio
Come nel caso degli sciiti libanesi Hezbollah e dei loro “cugini” iracheni Kataib Hezbollah, che hanno iniziato a lanciare razzi e droni rispettivamente su Israele e sulle basi americane in Iraq e Siria poco dopo lo scoppio della nuova guerra fra Hamas e Israele, anche il movimento yemenita Ansar Allah, in quanto parte della galassia di milizie alleate dell’Iran, si è gettato nella mischia con tentativi di colpire lo Stato ebraico grazie al suo nutrito arsenale di missili e droni.
Di fronte alle enormi difficoltà nel penetrare con vettori poco sofisticati le difese antimissile di Israele e dei suoi alleati, presto gli Huthi si sono convinti a privilegiare attacchi, assai più remunerativi, contro la navigazione commerciale lungo la rotta di Suez, obbiettivo assai più alla loro portata, sia come capacità di deterrenza, sia come agevole vicinanza geografica. Il che, in effetti, li ha portati a perturbare, entro una certa misura, il commercio mondiale.
Non sono passate nemmeno due settimane da quel 7 ottobre 2023, quando il feroce attacco terroristico di Hamas alle comunità di civili israeliani sul confine con la Striscia di Gaza ha provocato la massiccia reazione delle forze armate ebraiche, che anche gli Houthi hanno cominciato a partecipare, pur marginalmente al conflitto, in seguito divenuto una sorta di “guerra parallela”, per parafrasare una vecchia espressione di Mussolini, di interdizione della navigazione. Il 19 ottobre, “in solidarietà col popolo palestinese”, il movimento yemenita ha lanciato verso Israele, scaglionati nell’arco di ben 9 ore, un totale di 4 missili da crociera e 15 droni intercettati tuttavia da un cacciatorpediniere classe Arleigh Burke, il Carney.
L’unità americana ha abbattuto tutti gli ordigni utilizzando missili SM-2, con raggio di protezione massimo efficace per circa 170 km di raggio e 25 km di quota. Secondo la US Navy “erano diretti verso Nord” e avrebbero potuto raggiungere lo sbocco ebraico sul Mar Rosso, cioè la città portuale Eilat, incuneata tra Egitto e Giordania in fondo al Golfo di Aqaba, anche se si sarebbero trovati di fronte le difese israeliane. La distanza fra lo Yemen e Israele in linea d’aria è di circa 1600-1700 km e ciò implica che gli Huthi abbiano utilizzato per questo e successivi attacchi droni a lungo raggio Samad 3, di pretesa realizzazione locale, ma probabilmente realizzati in Yemen grazie a maestranze e materiali iraniani.
Il loro raggio d’azione potrebbe toccare 1800 km, mentre nel settore dei missili da crociera, gli Houthi dispongono di ordigni Quds, che sarebbero null’altro che i “cruise” iraniani della famiglia Sumar/Paveh derivati locali del vecchio Kh-55 sovietico.
Nelle settimane seguenti sono proseguiti ripetuti tentativi degli Houthi di colpire Israele e in particolare Eilat. Fra il 27 e il 31 ottobre almeno due droni, probabilmente ancora Samad 3, e un missile da crociera Quds 4 sono stati lanciati verso Eilat. Ma mentre i droni sono precipitati per errore in territorio egiziano, il Quds 4 è stato rilevato dai radar della difesa aerea israeliana che ha ordinato lo “scramble”, il decollo su allarme, di un caccia F-35I Adir, la versione israeliana del moderno caccia americano Lockheed-Martin.
L’aviogetto da caccia ha raggiunto il “cruise” yemenita mantenendosi a distanza ravvicinata, tanto da filmarlo, e lo ha abbattuto apparentemente con un missile aria aria di tipo non divulgato, ma forse un AIM-9X Sidewinder a guida infrarossa, più adatto alle brevi distanze d’ingaggio. Il video di questa prima intercettazione antimissile da parte di un F-35 è stato poi diffuso da Tsahal, le forze armate israeliane, il 2 novembre.
Ma il 31 ottobre s’è verificato un evento ancor più importante, sebbene rivelato da Israele solo ai primi di novembre. Dallo Yemen è decollato alla volta dell’area di Eilat un missile balistico Qadr 110 (o Ghadr 110), bistadio a combustibile liquido, che è in sostanza una versione dello Shahab 3 iraniano con gittata di 1950 km e con capacità di raggiungere un apogeo della parabola balistica fra 200 e 500 km di quota, in sostanza toccando l’altitudine delle orbite spaziali più basse. A quanto riportato, già il volo dell’ordigno Houthi, di per sé, rappresenterebbe un primato in campo militare, trattandosi del lancio missilistico operativo, in reale azione bellica, di maggior gittata mai registrato finora, escludendo quindi collaudi ed esercitazioni. Ma anche la controparte israeliana ha conseguito un primato ancor più storico.
Per abbattere il vettore in arrivo gli israeliani hanno utilizzato un missile antimissile Arrow 2 a guida radar e, nella fase terminale, infrarossa. Arma operativa dal 2000 e mai usata prima dello scorso autunno, se si esclude nel 2017 l’abbattimento di un missile antiaereo siriano che minacciava di colpire un caccia dello Stato ebraico che aveva appena attaccato obbiettivi nel territorio di Damasco. E’ in grado di arrivare a una quota massima di 200 km e a una velocità di 10.000 km/h, con un raggio d’azione massimo di 150 km. Dotato di spoletta di prossimità e testata esplosiva, l’Arrow 2 può distruggere il missile bersaglio anche senza impatto diretto, purché gli si avvicini in un raggio di circa 50 metri, sufficiente a investirlo con le schegge della deflagrazione.
Così è stato e l’antimissile ebraico ha distrutto il Qadr 110, ormai avviato nella fase discendente della sua parabola, a una quota che secondo le fonti israeliane era “superiore a 100 km di quota”. Ora, 100 km è l’altitudine convenzionalmente indicata come “linea di Von Karman”, dal nome del famoso ingegnere aeronautico Theodore Von Karman, e considerata simbolicamente il confine fra l’atmosfera vera e propria e lo spazio, stante il crollo della residua densità dei gas circumterrestri al di sopra di essa.
Perciò la riuscita intercettazione, il 31 ottobre 2023, del balistico Qadr 110 sparato dagli Huthi da parte di un Arrow 2 israeliano è entrata nella Storia come il primo “combattimento spaziale” in reali condizioni belliche.
Un primato che, in effetti, sembra non aver goduto della meritata attenzione da parte della maggioranza della stampa e della popolazione mondiali. L’importanza dell’evento non sarà certo sfuggita, però, a una più ristretta cerchia di esperti e addetti ai lavori e tutte le maggiori forze aerospaziali del mondo, forse a cominciare dalle US Space Forces americane, staranno tuttora studiando tutti i dati disponibili sulla vicenda, cercando per giunta di ricavare anche le informazioni riservate tramite spionaggio o sofisticate estrapolazioni.
Dopo l’abbattimento, un comunicato militare israeliano ha fatto capire come la dimostrazione dell’efficacia dello scudo antimissile Arrow sia un preciso ammonimento all’Iran e alle sue forze balistiche, come noto controllate dal Corpo delle Guardie Rivoluzionarie (pasdaran).
L’intercettazione “prova all’Iran, il quale era dietro al lancio e ha fornito il missile, che Israele ha la capacità di agire contro il suo programma missilistico e questo aspetto potrebbe avere vaste implicazioni per il conflitto regionale”. Paradossalmente gli yemeniti armati dagli iraniani sembrano a prima vista espressione di un mondo “primitivo” sul piano militare, quanto di più lontano dalla conquista dello spazio. Ma il pregiudizio non tiene conto della crescente facilità con cui la tecnologia missilistica balistica, per certi aspetti più semplice ed economica di quella propriamente aeronautica, diventa via via disponibile a un sempre maggior numero di nazioni.
Israele ha bissato il successo il 9 novembre, distruggendo un altro missile Qadr 110 con una versione più evoluta del suo antibalistico, l’Arrow 3, forte di un raggio d’azione di ben 2400 km e arriva anch’esso a quote orbitali di 200 km, in modo da intercettare i missili balistici, che escono dall’atmosfera al culmine della loro traiettoria parabolica, con molto anticipo.
L’Arrow 3, sviluppato dall’azienda aerospaziale israeliana IAI insieme all’americana Boeing è in servizio dal 2017 ed è stato cofinanziato dagli Stati Uniti con 1,2 miliardi di dollari. La riuscita intercettazione ha soddisfatto la Germania poiché poche settimane prima, il 19 ottobre, la Commissione Bilancio del Bundestag di Berlino aveva dato l’assenso definitivo all’acquisto, per 4 miliardi di dollari di euro, di batterie di Arrow 3 che verranno consegnate dal 2025 presso la base tedesca di Holzdorf.
Nelle settimane seguenti sono stati lanciati ulteriori vettori verso Israele, di cui ricorderemo solo alcuni esempi. Il 14 novembre, mentre a Eilat risuonavano le sirene d’allarme, un balistico yemenita è stato ancora abbattuto da un sistema Arrow e secondo le fonti israeliane “l’ordigno non è entrato nel nostro territorio”. Il 22 novembre è stato il turno di un missile da crociera abbattuto da un F-35I (nella foto sotto) ancora al di sopra del Mar Rosso, prima che l’ordigno arrivasse alle coste ebraiche. Oltre un mese dopo, il 26 dicembre le forze israeliane hanno dichiarato che “un bersaglio aereo ostile”, senza specificare se missile da crociera o drone, è stato intercettato da un altro caccia F-35I Adir al largo delle coste egiziane del Sinai.
Gli israeliani non hanno dato molti dettagli su questa che è la terza azione anti-cruise o anti-drone effettuata con successo da un F-35, e che come tale potrebbe fare scuola, insieme alle altre due, fra gli analisti delle forze aeree che utilizzano il caccia Lockheed-Martin. Stampa e tivù egiziane, per esempio l’emittente Al Qahera, hanno però parlato di “testimoni che hanno visto qualcosa precipitare nel Golfo di Aqaba”.
Alcune esplosioni, riferibili all’intercettazione, sono state udite dagli abitanti della città egiziana costiera di Dahab, nel Sud del Sinai, situata a 125 km a Sud di Eilat, e localizzate a circa 2 km al largo. Cittadini egiziani hanno riferito: “Abbiamo udito una forte esplosione che proveniva dalla direzione del mare e poi abbiamo visto uno strano oggetto cadere in acqua”. Gli israeliani non hanno identificato con precisione il velivolo ma dalle immagini riprese dall’aviazione e divulgate nelle ore successive, sembra non un missile da crociera Quds, bensì un drone della famiglia Samad, riconoscibile dalle ampie ali diritte e dagli impennaggi di coda a farfalla.
La minaccia al traffico marittimo
Gli attacchi degli sciiti yemeniti al territorio di Israele non hanno sortito effetti, diversamente da quelli compiuti all’indirizzo delle navi in transito dal Mar Rosso. Lo stretto di Bab El Mandeb, la cui larghezza minima è di soli 26 km, sembra già portare nel suo nome un presagio di sventura. In arabo significa infatti “Porta del lamento funebre”, poiché nei secoli passati, le correnti l’hanno reso pericoloso e famigerato tra i naviganti.
Gli Houthi non controllano il tratto di costa direttamente affacciato sul punto più stretto, bensì il litorale più settentrionale dove si stende il porto di Hodeidah, da dove comunque possono agevolmente lanciare vettori sull’area. Ed è significativo che già il 1° novembre i miliziani yemeniti abbiano abbattuto con le loro difese antiaeree un UAV americano MQ-9 Reaper (nella foto sotto) che volava lungo le coste del paese arabo per raccogliere informazioni. Gli Huthi sembravano già ammonire gli Stati Uniti circa eventuali violazioni del loro spazio aereo, il che rende più difficile prevedere le loro azioni.
L’abbandono della rotta del canale di Suez da parte di un numero crescente di grandi compagnie internazionali di navigazione commerciale, se prolungato, avrà effetti notevoli sull’economia mondiale. Da Suez negli ultimi decenni è passato, in media, fra il 10 e il 15% del commercio mondiale, per quantità di beni totalizzante fra 900 milioni e 1,2 miliardi di tonnellate l’anno. Passano dalla via d’acqua che taglia il Sinai circa il 10% del petrolio mondiale, l’8% del gas naturale liquefatto e il 30% dei container merci.
L’importanza di questa via d’acqua è stata anche negli ultimi anni in costante crescita. Nell’intero 2022 sono passate da Suez 23.583 navi, in aumento del 15% sul 2021, quando erano state 20.694, mentre nel 2020, complici le ripercussioni della pandemia Covid, erano state ancor meno, 18.830. Il record giornaliero come numero di navi in passaggio, secondo il presidente dell’Autorità del Canale, l’egiziano Osama Rabie, si è avuto il 6 agosto 2022, quando in 24 ore si sono contate 89 navi, per un totale di 5,2 milioni di tonnellate. Un precedente record quotidiano s’era realizzato il 2 agosto 2019, con 81 navi, ma per ben 6,1 milioni di tonnellate.
L’importanza del traffico dal canale risalta dal mappamondo, considerando che, ad esempio, la rotta fra Singapore e Rotterdam, se costretta a passa dal Capo di Buona Speranza, con periplo dell’Africa, risulta del 40% più lunga, con 21.700 km, contro i 15.500 km nel caso della scorciatoia dal Sinai. La rotta africana comporta un viaggio più lungo mediamente di circa due settimane, con prevedibili ritardi e strozzature nelle consegne di idrocarburi, materie prime e prodotti finiti. E l’Italia è particolarmente esposta, essendo stato calcolato che da Suez passa, fra entrambe le direzioni, il 40% dell’import ed export del nostro paese, con un valore stimato di 154 miliardi di euro l’anno, stando a quanto divulgato il 7 gennaio dal centro studi SRM legato al gruppo bancario Intesa Sanpaolo.
Da novembre 2023 ai primi di gennaio 2024 si sono registrati, finora, almeno 25 fra attacchi e tentativi di attacco degli Houthi al traffico navale nel Mar Rosso, con vari tipi di droni e missili. Ciò ha già portato, tra fine dicembre e inizio gennaio, a un crollo del 38% nel numero di navi in passaggio da Suez. E la discesa della china potrebbe non arrestarsi tanto presto.
E’ chiaro che gli Huthi, secondo i canoni della strategia marittima, non possono sicuramente conseguire il controllo del mare (“sea control” per gli anglosassoni). Ma giocando sulla paura, in altre parole facendo vero terrorismo marittimo, sembrano aver conseguito almeno un parziale diniego del mare (“sea denial”), il che, per una formazione come Ansar Allah, non sembra risultato di poco conto.
La prima eclatante azione è stata l’arrembaggio per via aerea della nave cargo Galaxy Leader, battente bandiera delle Bahamas e in viaggio dalla Turchia all’India per conto della società giapponese Nippon Yusen, ma di proprietà della società Galaxy Maritime del miliardario israeliano Abraham Ungar.
Il 19 novembre 2023 un vecchio elicottero Mil Mi-17, parte degli arsenali dell’esercito yemenita catturati dagli Houthi, ha raggiunto in mare aperto la nave e si è abbassato sulla coperta dello scafo facendo scendere un commando di miliziani armati che, come si vede nel video girato dagli stessi Houthi e ampiamente diffuso per propaganda, hanno preso possesso dell’unità. La Galaxy Leader è stata dirottata a Hodeidah, dove tuttora l’equipaggio è in ostaggio degli sciiti yemeniti. Sono 25 uomini di varia nazionalità: 17 filippini, 3 ucraini, 2 bulgari, 2 messicani e 1 rumeno.
L’azione di pirateria era stata preceduta di poche ore da un proclama in cui il portavoce di Ansar Allah, Yahya Sarea, informava che sarebbero state “prese di mira tutte le navi di proprietà o gestione israeliana”. Ormeggiata al molo yemenita, la Galaxy Leader è anche diventata una sorta di “trofeo” e il 6 dicembre gli Huthi hanno diffuso video in cui la mostravano come un’attrazione turistica, con alcuni miliziani che ne visitavano i ponti e si scattavano foto “selfie” col Kalashnikov a tracolla.
Fin dall’abbordaggio della Galaxy Leader è stata reputata credibile l’ipotesi che gli iraniani abbiano fornito assistenza di intelligence e navigazione agli Houthi, come ribadito ancora il 23 dicembre dalla portavoce del Consiglio di Sicurezza Nazionale USA, Adrienne Watson: “Il sostegno iraniano ha consentito agli Houthi di lanciare attacchi contro Israele e obiettivi marittimi, sebbene l’Iran abbia deferito l’autorità decisionale agli Houthi. Essi però farebbero fatica a rintracciare e colpire le navi commerciali. Il sostegno iraniano è basilare.
L’intelligence degli Houthi dipende dai sistemi di monitoraggio dell’Iran”. Da mesi incrocia tra il Mar Rosso e il Golfo di Aden la nave iraniana Behshad (nella foito sotto), costruita in Cina dai cantieri Guangzhou e in apparenza cargo appartenente alla compagnia iraniana Rahbaran Omid Darya. Ma sarebbe in realtà una nave spia camuffata. Lunga 174 metri e dislocante fino a 23.000 tonnellate, la Behshad appare esternamente un mercantile, ma potrebbe recare radar a lunga portata nascosti fra benne e gru, nonché hangar, in coperta o nella chiglia, da cui lanciare sia droni aerei o sottomarini. Il porto base ufficiale della Behshad figura quello di Qeshm, nell’omonima isola iraniana presso lo Stretto di Hormuz. Sarebbe da lì che il probabile vascello SIGINT è spesso salpato a partire dal 2021 per frequenti crociere nel Mar Rosso, come quella che sta tuttora conducendo dallo scorso autunno.
Dopo il dirottamento della Galaxy Leader, è stato un crescendo esponenziale di raid volti a seminare insicurezza sulla rotta di Suez. La mattina del 23 novembre gli Houthi hanno indirizzato uno sciame di droni-kamikaze contro uno dei cacciatorpediniere americani classe Arleigh Burke in pattugliamento nella zona, il Thomas Hudner.
Come divulgato dal CENTCOM su X: “L’Hudner ha abbattuto droni d’attacco multipli lanciati dai territori dello Yemen controllati dagli Houthi. I droni sono stati distrutti mentre la nave era in pattuglia nel Mar Rosso. La nave e l’equipaggio non hanno sofferto alcun danno”. Non è noto il tipo di droni utilizzati. Se si fosse trattato di Shahed 136 di fattura iraniana (come possibile) la nave Hudner, data la ridotta velocità degli ordigni in arrivo, attorno ai 200 km/h, potrebbe averli distrutti polverizzandoli col cannone da difesa di punto Phalanx a canne rotanti, asservito al radar e capace di sparare 4500 colpi al minuto, senza scomodare costosi missili antiaerei.
Il giorno seguente un drone kamikaze ha colpito, con limitati danni, la portacontainer di bandiera maltese CMA CGM Symi, il cui equipaggio è rimasto incolume. La nave era salpata dal porto di Sohar, in Oman, diretta in India, ed è proprietà della Eastern Pacific Shipping di Singapore, a cui partecipa un altro imprenditore israeliano, Idan Ofer. E’ stata colpita dal velivolo-robot nell’Oceano Indiano, a una distanza comunque compatibile col raggio d’azione di 2500 km di cui è accreditato lo Shahed. Resta il dubbio se l’ordigno sia stato lanciato dagli Houthi o dall’Iran.
Il 26 novembre un motoscafo con 5 pirati poi rivelatisi somali ha tentato di arrembare il cargo Central Park, che incrociava nel golfo di Aden carico di acido fosforico. La nave batte bandiera liberiana, ma appartiene alla società Zodiac Maritime del miliardario israeliano Eyal Ofer, fratello del citato Idan. L’equipaggio ha chiesto aiuto via radio a una vicina nave americana, il cacciatorpediniere Mason, sempre di tipo Arleigh Burke. La nave USA ha fatto rotta verso il cargo e il suo arrivo ha spinto i pirati a fuggire col loro motoscafo, ma sono stati inseguiti e si sono arresi.
La US Navy ha fatto sapere che si trattava di somali, ma non si sa se possano essere collegati agli Houthi. Certo è che, poco dopo, dalle coste dello Yemen due missili balistici sono stati lanciati sull’area di mare dove si trovavano la Mason e la Central Park. I missili yemeniti, forse del tipo Qader o Toofan, di derivazione iraniana, si sono inabissati a “10 miglia nautiche” (18 km) dalla posizione della nave americana e del cargo. Il lancio yemenita ricorda vagamente i due missili Scud che il colonnello libico Muhammar Gheddafi lanciò nel 1986 nelle acque di Lampedusa. E certamente hanno contribuito ad alimentare la psicosi del Mar Rosso. Il 29 novembre un drone Samad 2 (nella foto sopra) , versione yemenita dell’iraniano KAS-04, è stato captato dai radar del cacciatorpediniere statunitense Carney in avvicinamento alla nave ed è stato subito distrutto.
Fuga dalla rotta maledetta
Con l’affastellarsi delle operazioni di interdizione poste in essere dagli sciiti yemeniti, l’autorità inglese UKMTO, che si occupa per la Royal Navy di vigilare sulla sicurezza del traffico marittimo commerciale, ha “invitato alla cautela” tutti i cargo in transito dallo stretto di Bab El Mandeb. Ma già il 3 dicembre, mentre il cacciatorpediniere Carney veniva attaccato da tre attacchi di droni, scaglionati nell’arco di 5 ore, alcuni missili balistici venivano lanciati all’indirizzo di tre cargo, i panamensi Number 9 e Sophie II e lo Unity Explorer delle Bahamas, danneggiati non gravemente per la testata limitata degli ordigni.
Il 6 dicembre, della sicurezza del Mar Rosso hanno parlato al telefono il premier israeliano Benjamin Netanyahu e quello britannico Rishi Sunak, il quale ha sottolineato l’invio nella regione dell’HMS Diamond (nella foto sotto), cacciatorpediniere Type 45 della Royal Navy.
La prima unità navale europea impegnata materialmente contro gli Houthi è stata però la fregata francese Languedoc, classe Aquitaine, ossia del tipo italo-francese FREMM, che la notte fra il 9 e il 10 dicembre ha rilevato due droni in arrivo dallo Yemen mentre si trovava a 110 km al largo di Hodeidah.
La fregata francese li ha centrati entrambi, probabilmente utilizzando i missili antiaerei Aster 15 di cui è munita. L’intercettazione della Languedoc ha per inciso costituito un rassicurante collaudo per l’efficacia delle difese aeree delle fregate multiruolo FREMM possedute anche dalla Marina Italiana, a maggior ragione considerando che attualmente si trova nella regione la FREMM italiana Virgilio Fasan. (nella foto sotto).
Appena un paio di giorni dopo, il 12 dicembre, dallo Yemen due missili da crociera sono decollati mirando alla nave norvegese Strinda, che portava cisterne per prodotti chimici. Uno dei vettori ha colpito la nave danneggiandola, ma il secondo è stato intercettato ancora dalla fregata francese Languedoc.
Nei tre giorni seguenti, altre 5 navi mercantili sono state fatte oggetto di attacchi con droni e missili degli Houthi, fra cui la Ardmore Encounter, che il 13 dicembre ha respinto un tentativo di abbordaggio da parte dei pirati yemeniti grazie al fuoco delle guardie di bordo, per poi essere mancata da alcuni missili balistici. E la MSC Palatium III, che il giorno 15 è stata colpita da un altro balistico, sufficiente ad appiccare un incendio e spingerla a invertire la rotta lasciando la zona. Il 16 dicembre, poi, il “destroyer” Carney è stato bersagliato da ben 14 droni, tutti abbattuti dai sistemi antiaerei.
Lo stesso giorno, un drone è stato annientato anche dall’unità inglese Diamond. Il crescendo di azioni ha infine portato le prime grandi compagnie a sospendere la navigazione attraverso il Mar Rosso, sancendo i primi effetti pratici della campagna di “sea denial” varata dal movimento Ansar Allah.
Fra 14 e 16 dicembre hanno annunciato l’interruzione della loro attività nell’area, con conseguente deviazione delle imbarcazioni lungo il continente africano, ben 4 compagnie: la francese CMA CGM, la danese Maersk, la tedesca Hapag-Lloyd e l’italo-svizzera Mediterranean Shipping Company (MSC). Il 18 dicembre la celebre compagnia petrolifera britannica British Petroleum ha imposto l’alt alle sue petroliere, inviandole sulla rotta del Capo di Buona Speranza. Poche ore dopo è stata la volta di tre colossi della navigazione commerciale dell’Estremo Oriente, la taiwanese Evergreen e le cinesi COSCO e OOC. Per la COSCO, in particolare, si tratta di una difficoltà in più nella sua sospettata strategia da Cavallo di Troia della Marina Cinese nel conquistare punti di appoggio logistici e di intelligence nei maggiori porti del mondo.
La Cina, preoccupata in generale per le sue linee commerciali legate alla Nuova Via della Seta, che non possono essere totalmente compensate dalle direttrici via terra lungo l’Eurasia e dalla rotta del Nord lungo le coste della Russia, probabilmente medita di spingere Teheran a controllare maggiormente l’attività degli Huthi.
Il governo di Teheran, dal canto suo, è andato ripetendo di non avere responsabilità. Il 19 dicembre il viceministro degli Esteri iraniano Ali Bagheri Kani, in conferenza stampa a Tokyo, mentre visitava il Giappone, compratore di greggio persiano, ha detto: “Il gruppo yemenita Houthi agisce in modo indipendente per quanto riguarda i suoi attacchi e il sequestro delle navi collegate a Israele nel Mar Rosso e nel Mar Arabico, in segno di protesta per la guerra contro i palestinesi di Gaza. Non è giusto mettere in relazione le misure indipendenti del gruppo yemenita con altri Paesi”.
Una incauta ammissione, dettata anche dalla voglia di far propaganda, è però arrivata il 23 dicembre da un comandante della Guardia Rivoluzionaria iraniana, il generale Mohammad Reza Naqdi: “Chiuderemo il Mediterraneo alle potenze occidentali. Si aspettino la chiusura del Mediterraneo, dello Stretto di Gibilterra e d’altre vie d’acqua. Abbiamo intrappolato le potenze occidentali a Bab al Mandeb e nel Mar Rosso”.
Sempre il giorno 23, un drone ha attaccato nell’Oceano Indiano la nave cisterna MV Chem Pluto, della compagnia indiana Macsons, salpata dall’Arabia Saudita verso il porto indiano di Mangalore. L’impatto s’è verificato a 400 miglia nautiche (740 km) da Vareval ed è stato monitorato dalla Guardia Costiera indiana e dall’ente britannico UK Marine Trade Operations, secondo cui: “Sono stati segnalati danni strutturali ed è stata imbarcata acqua, ma non si registrano vittime. Si consiglia alle navi di transitare con cautela e di segnalare attività sospette”.
La posizione della nave è compatibile con un attacco da un drone proveniente dall’Iran stesso o dallo Yemen. Dal canto suo, il Dipartimento di Stato USA ha varato il 28 dicembre 2023 un pacchetto di sanzioni volte a colpire i finanziamenti iraniani a favore di Ansar Allah. Obbiettivo delle misure finanziarie di Washington sono tre istituti di cambio situati in Yemen e Turchia, ma soprattutto il capo dell’Associazione degli Agenti di Cambio di Sanaa, Nabil Al Hadha, ritenuto responsabile del trasferimento di milioni di dollari al movimento sciita yemenita grazie a Said Al Jamal, uomo di contatto con la Forza Quds delle Guardie Rivoluzionarie iraniane.
Operazione Prosperity Guardian
Di fronte al pericolo dello sconvolgimento delle catene di approvvigionamento globali, gli Stati Uniti hanno lanciato il 18 dicembre 2023 l’idea di una coalizione navale internazionale destinata a pattugliare il Mar Rosso e il Golfo di Aden per difendere i traffici mercantili. E’ stato il segretario alla Difesa USA Lloyd Austin ad annunciare il progetto, proprio mentre si trovava in Medio Oriente insieme al generale Charles Q. Brown, nuovo capo degli Stati Maggiori riuniti USA.
Quel giorno hanno visitato insieme in Bahrein la base Naval Support Activity di Muharraq Island, dove trova sede la Quinta Flotta USA. Poi l’indomani hanno proseguito per il Qatar, paese che pure ospita molti capi di Hamas, fra cui il segretario politico Ismail Haniyeh. Lì hanno ispezionato la base aerea americana di Al Udeid, avamposto del Central Command.
Battezzando l’operazione col nome Prosperity Guardian, a simboleggiare la difesa della prosperità dei paesi occidentali, Austin ha confermato che “la nuova iniziativa di sicurezza sarà sotto l’ombrello delle Combined Maritime Forces e sotto la guida della sua Task Force 153”. Cioè a guida americana. Ha enumerato i paesi chiamati a parteciparvi, in base alla loro esperienza contro i pirati: “I paesi che devono cooperare contro sfide da attori non statali con missili o droni contro i cargo, sono Gran Bretagna, Bahrein, Canada, Francia, Italia, Olanda, Norvegia Seichelles e Spagna”.
Sulla partecipazione dell’Italia, già il 18 dicembre erano emerse indiscrezioni da parte di funzionari del Ministero della Difesa, secondo cui: “Il nostro paese contribuirà con una nave del tipo FREMM, una fregata che, date le sue capacità antiaeree e antimissile, sarebbe indicata per difendere le unità mercantili.
A essere inviata nell’area sarà la FREMM Virginio Fasan, che già in febbraio è previsto assuma la guida della missione antipirateria Atalanta. Ma inviandola con un mese d’anticipo, potrà svolgere una missione di Maritime Awareness, ovvero sorveglianza della zona con i suoi radar, i cui dati possono essere condivisi con gli alleati”.
Poi, il ministro della Difesa Guido Crosetto ha parlato con Austin spaziando fra “importanza della libera navigazione, impatto sul commercio internazionale e opzioni per prevenire ripercussioni sull’economia internazionale e i prezzi delle materie prime”. Ecco perché, ha concluso il ministro: “L’Italia farà la sua parte per contrastare l’attività terroristica di destabilizzazione degli Houthi”. Poco dopo è stato riferito che la Fasan sarebbe salpata entro pochi giorni per farla idealmente passare dal canale di Suez attorno al 24 dicembre.
Il 20 dicembre il capo stesso di Ansar Allah, Abdul Malik Al Houthi, ha reagito con in un discorso televisivo, in cui ha tacciato gli americani di essere “complici degli orribili crimini che accadono in Palestina”. Poi ha criticato “quei paesi europei come Francia, Germania e Italia che hanno una nera storia coloniale alle spalle”, sostenendo che “non ci aspettiamo che svolgano un ruolo positivo a beneficio del popolo palestinese”.
E poi: “L’America cerca di militarizzare la regione. Dobbiamo agire contro la missione internazionale perché danneggia la navigazione. Se gli Stati Uniti attaccheranno lo Yemen, faremo delle navi americane bersaglio per i nostri missili”.
Il che in verità è già accaduto. Alla nuova missione internazionale sembra essere mancata, almeno finora, un po’ di coesione, poiché entro la fine di dicembre dalla struttura di comando ufficiale di Prosperity Guardian si sono sfilate, pur per motivi diversi, Italia, Francia e Spagna.
Il nostro paese, infatti, per motivi di politica interna, ha deciso di mantenere l’impiego della fregata Fasan inquadrato nella preesistente missione antipirateria Atalanta, già approvata dal Parlamento di Roma. Ciò sebbene, di fatto, la nostra unità, dovendo pattugliare in sostanza un’area geografica vicinissima allo scacchiere delle operazioni degli Houthi, potrà sempre accorrere in aiuto degli alleati in caso di bisogno.
La Spagna ha reso noto che non avrebbe sottoposto sue unità navali a un comando internazionale che non fosse NATO o UE, di fatto cassando la leadership americana nell’operazione. Parimenti ha decretato la Francia, che manterrà la fregata (FREMM) Languedoc nell’area, ma sottoposta unicamente al comando di Parigi.
L’annuncio della missione è sembrato inizialmente ridare fiducia ad alcune compagnie, come la danese Maersk e la francese CMA-CGM che hanno deciso il 24 dicembre di riprendere i transiti dal canale di Suez. Una scelta che inizialmente è sembrata azzeccata di fronte a nuovi successi della US Navy nel contrastare gli Houthi. In particolare, stando a quanto comunicato dal Pentagono, il 27 dicembre sistemi aerei e navali della US Navy hanno abbattuto “nell’arco di 10 ore” un totale di 17 ordigni yemeniti, suddivisi in “12 droni kamikaze, 3 missili balistici antinave e 2 missili da crociera”. A intercettare i vettori sono stati una nave da guerra classe Arleigh Burke, ovvero il cacciatorpediniere lanciamissili Laboon, e aerei da caccia F/A-18 Super Hornet decollati dalla portaerei Eisenhower, che da giorni si è spostata dal Golfo Persico al Golfo di Aden.
Il Central Command (CENTCOM) ha precisato che “non ci sono stati danni alle navi presenti nella zona e non sono stati segnalati feriti”. Come ha spiegato dalla CNN, la nave Laboon può aver utilizzato da grande distanza missili SM-2 contro i missili da crociera e i droni ed SM-6 contro quelli balistici, mentre droni a distanza più ravvicinata possono essere stati distrutti con i cannoncini a tiro rapido Phalanx. Gli aerei Super Hornet possono aver distrutto alcuni dei droni con missili aria-aria Sidewinder o AMRAAM, oppure col cannoncino di bordo Vulcan da 20 mm.
Nelle ore precedenti le forze Houthi avevano lanciato un missile verso la nave portacontainer MSC United VIII, salpata dall’Arabia Saudita alla volta del Pakistan, ma senza troppi danni e senza feriti fra l’equipaggio. Lo stesso giorno gli Stati Uniti ricevevano però uno schiaffo dall’Arabia Saudita, rifiutatasi di entrare a far parte della missione di protezione. “L’escalation non è nell’interesse di nessuno”, ha detto il ministro degli Esteri saudita, principe Faisal Bin Farhan, interprete della volontà di Riad di non compromettere la pace raggiunta con gli Houthi dopo anni di guerra.
La missione Prosperity Guardian non pareva ancora suscitare sufficiente fiducia negli operatori navali civili tra fine dicembre 2023 e i primi di gennaio 2024. Il 29 dicembre, infatti, le compagnie giapponesi Mitsui O.S.K. Lines e Nippon Yusen ribadivano che avrebbero proseguito a far deviare i propri cargo attorno all’ Africa Meridionale, evitando come la peste il Mar Rosso e Suez. Per giunta, il 2 gennaio Maersk ha comunicato che sarebbe ritornata sulla sua decisione di pochi giorni prima, fermando di nuovo le sue imbarcazioni dirette verso il Mar Rosso. Nel frattempo, la fregata italiana Fasan si è portata nella zona e, scendendo da Suez verso Sud, il 4 gennaio avrebbe oltrepassato Bab El Mandeb, uscendo dal Mar Rosso e portandosi nel Golfo di Aden.
Sempre il 4 gennaio, indiscrezioni riferite a NBC News da due anonimi funzionari hanno parlato di una riunione della Sicurezza Nazionale USA, presieduta il giorno precedente alla Casa Bianca dal vice-consigliere John Finer, per esaminare opzioni di intervento militare diretto contro le aree dello Yemen occupate dalle milizie Houthi.
Infatti appare abbastanza chiaro che l’efficacia della missione Prosperity Guardian potrebbe risultare dimezzata, se si limitasse a mere reazioni difensive, senza contemplare raid con aerei, droni o anche forze speciali, per distruggere mezzi e infrastrutture avversarie impedendo i lanci dei vettori. La riunione non sembra essere stata decisiva, tantopiù che lo stesso presidente Joe Biden era assente, ancora in vacanza per le feste d’inizio anno.
Il portavoce del Pentagono, generale Pat Ryder, ha evitato di commentare l’ipotesi di possibili attacchi americani allo Yemen, mentre il viceammiraglio Brad Cooper, capo delle forze navali USA in Medio Oriente, ha ribadito, pur con parole sibilline, che Prosperity Guardian è eminentemente difensiva: “Tutto ciò che accade al di fuori degli aspetti difensivi costituirebbe un’operazione del tutto differente”.
Invita invece ad azioni più incisive il generale dei Marines Frank McKenzie, in pensione dal 2022 dopo aver comandato le forze USA in Medio Oriente, che sul Wall Street Journal ha scritto: “La risposta indecisa dell’amministrazione Biden agli attacchi degli alleati dell’Iran nel Mar Rosso, come anche in Siria e Iraq ha fatto fallire la deterrenza. Dobbiamo applicare la violenza che Teheran capisce”.
Intanto, il 4 gennaio gli Houthi hanno sfoderato, per la prima volta in questa crisi, un drone marittimo di superficie, o USV (Unmanned Surface Vessel) che è esploso in acqua “a circa 2 miglia nautiche di distanza da navi americane e commerciali”, secondo le imprecise notizie trapelate.
Potrebbe trattarsi di uno degli Shark-33 spesso usati nella guerra civile yemenita, anche se non è sicuro. Il 6 gennaio, inoltre, un ulteriore drone aereo è stato intercettato dalla nave americana Laboon, secondo quanto comunicato dal CENTCOM: “Un velivolo senza pilota lanciato dalle aree dello Yemen controllate dagli Houthi, sostenute dall’Iran, è stato abbattuto per legittima difesa dal cacciatorpediniere Laboon e nessuno è rimasto ferito. L’incidente è avvenuto in prossimità di numerose navi commerciali”.
Il 10 gennaio il membro dell’ufficio politico degli Houthi, Mohamed al-Bukaitielli ha affermato che “l’obiettivo non è affondare o impadronirsi di navi legate a Israele ma piuttosto costringerli a utilizzare il Capo di Buona Speranza come leva di pressione economica su Israele per fermare i crimini di genocidio a Gaza”. Queste azioni sono “un atto morale e legittimo” e gli insorti yemeniti sono “in guerra” con Israele per la loro offensiva militare nella Striscia di Gaza. Inoltre, ha denunciato che la coalizione navale guidata dagli Stati Uniti per proteggere la navigazione dagli attacchi Houthi rappresenta “una pericolosa escalation che ha portato all’espansione della guerra”. “Le minacce americane e britanniche non ci spaventano e non ci dissuaderanno dal continuare la lotta per sostenere gli oppressi”, ha affermato il responsabile Houthi.
Il CENTCOM ha annunciato ieri di aver sventato l’attacco degli Houthi intercettando 18 droni modello OWA, due missili da crociera antinave e un missile antinave nel 26° attacco sulle rotte commerciali del Mar Rosso dal 19 novembre.
Il ministro della Difesa britannico, Grant Shapps, ha dichiarato che accusato l’Iran di coinvolgimento, affermando: “Non c’è assolutamente alcun dubbio che gli iraniani stanno aiutando gli Houthi fornendo la guida necessaria per gli attacchi nel Mar Rosso”. Shapps ha detto, in una breve dichiarazione pubblicata sul suo account su “X” che una nave da guerra britannica ha distrutto diversi droni d’attacco con i suoi cannoni e missili. Ha anche avvertito che se questi attacchi illegali continueranno, gli Houthi ne pagheranno le conseguenze, sottolineando che la Gran Bretagna adotterà le misure necessarie per proteggere la navigazione internazionale.
Nelle ultime ore infine il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato una risoluzione che condanna “nei termini più forti” i molteplici attacchi Houthi contro le navi nel Mar Rosso chiedendo di cessare immediatamente tale comportamento e di rilasciare la Galaxy Leader, una nave mercantile gestita dal Giappone con legami con un uomo d’affari israeliano, e i suoi 25 membri dell’equipaggio.
Redatta da Stati Uniti e Giappone, la risoluzione afferma che dovrebbe esserci rispetto per il diritto internazionale che sostiene l’esercizio dei diritti e delle libertà di navigazione da parte degli operatori di navi mercantili e commerciali. Ha inoltre osservato che gli Stati membri hanno il diritto di difendere le proprie navi dagli attacchi.
Mohammed Ali al-Houthi (nella foto sopra) ha risposto affermando che Israele deve ”fermare immediatamente tutti gli attacchi che ostacolano la vita a Gaza” e che il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite dovrebbe garantire che milioni di palestinesi a Gaza siano liberati dalla ”guerra israeliana e dall’assedio americano” del territorio. L’assedio militare di Israele è una ”arma mortale” che ha trasformato il territorio palestinese nella ”più grande prigione in cui viene praticata la punizione penale collettiva”, ha detto al-Houthi. ”Ciò che stanno facendo le forze armate yemenite rientra nel quadro della legittima difesa”, ha affermato. “La decisione adottata sulla sicurezza della navigazione nel Mar Rosso è un gioco politico e sono gli Stati Uniti a violare il diritto internazionale”, ha aggiunto.
Foto: Maritime Traffic, SL, BBC, US Navy, Royal Navy, Marina Militare, EIA, IDF, Press TV. US DoD, Ansar Allah e al-Jazeera
Mirko MolteniVedi tutti gli articoli
Nato nel 1974 in Brianza, giornalista e saggista di storia aeronautica e militare, è laureato in Scienze Politiche all'Università Statale di Milano e collabora col quotidiano “Libero” e con varie riviste. Per le edizioni Odoya ha scritto nel 2012 “L'aviazione italiana 1940-1945”, primo di vari libri. Sempre per Odoya: “Un secolo di battaglie aeree”, “Storia dei grandi esploratori”, “Le ali di Icaro” e “Dossier Caporetto”. Per Greco e Greco: “Furia celtica”. Nel 2018, ecco per Newton Compton la sua enciclopedica “Storia dei servizi segreti”, su intelligence e spie dall’antichità fino a oggi.