Lezioni di strategia

Il nuovo libro di John Lewis Gaddis mette in guardia chiunque voglia attuare piani che vadano al di là delle sue effettive capacità. Il segreto è riuscire a conciliare dentro sé stessi lo spirito tenace del riccio con lo spirito versatile della volpe.

Non finivano mai le colonne di soldati che calcavano il gigantesco ponte di barche steso sull’Ellesponto, lo stretto tra Europa e Asia, in una nebbiosa alba del 480 avanti Cristo. Forse erano un milione, di certo erano moltissimi, a testimonianza della smisurata potenza dell’imperatore persiano Serse, il “re dei re” che voleva conquistare la Grecia.

Reclutati in ogni angolo dell’impero, oltre ai persiani c’erano arabi, siriani, babilonesi, mentre egizi e fenici, più abili con le navi, formavano la flotta che appoggiava l’avanzata seguendo la costa. Il sovrano non badava agli avvertimenti del suo generale Artabano, che gli ricordava la difficoltà di mantenere un così grande esercito lontano dalle proprie basi in un territorio accidentato. In teoria, nessuno poteva fermare i persiani, men che meno le litigiose città-stato greche.

Ma il calcolo di Serse si dimostrò sbagliato fin da quando l’avanzata fu ritardata dalla resistenza opposta al Passo delle Termopili dai 300 guerrieri spartani del re Leonida. La strettoia rocciosa annullava l’enormità numerica nemica, così Leonida e i suoi bloccarono i persiani fino a farsi uccidere tutti, dando ai greci tempo prezioso per organizzarsi. Atene fu evacuata e lasciata al saccheggio, ma l’ammiraglio Temistocle preparò una rivincita navale nelle acque di Salamina, dove le agili biremi greche decimarono la flotta persiana in un’angusta baia.

Serse aveva incentrato il suo pensiero strategico sul fine della vittoria assoluta, esaltando la propria stessa dovizia di mezzi, ma sottovalutò le incognite del territorio e di genti come i greci, capaci di metter da parte le discordie pur di difendere uniti la loro libertà dal dispotismo orientale. Si era comportato come il riccio, che avanza imperterrito, fermo sul suo scopo finale, ma troppo richiuso in sé, anziché come la volpe, che si guarda attorno e, se necessario, cambia i suoi piani al variare delle situazioni.

Così, il “re dei re” andò incontro alla rovina. Sul simbolismo dei due animali, l’esperto americano di strategia John Lewis Gaddis, professore all’università di Yale, nonché Premio Pulitzer, rilegge una rassegna di esempi storici nel suo libro “Lezioni di strategia”, edito da Mondadori (pagine 360, euro 22). L’ispirazione gli è venuta da uno dei suoi maestri, il professore di Oxford Isiah Berlin, che già nel 1953 aveva ripescato un antico frammento del poeta greco Archiloco: “La volpe sa molte cose, ma il riccio ne sa una grande”.

Simboli favolistici per etichettare due modi di pensare opposti. Di solito una persona è o “riccio” o “volpe”. Talvolta, ed è secondo Gaddis il caso dei veri strateghi, appaiono menti “in grado di accogliere due idee opposte senza smettere di funzionare”. Serse era solo riccio, accecato dai suoi sogni, ma, osserva l’autore: “Poiché esistono solo nell’immaginazione, i fini possono essere illimitati.

I mezzi, invece, sono ostinatamente limitati, sono gli stivali sul terreno, le navi sul mare. I fini e i mezzi devono essere accordati, se si vuole combinare qualcosa”. In altre parole è il classico “non fare il passo più lungo della gamba”. Strateghi che assommavano in sé doti da riccio e da volpe, ampiamente ricordati nel libro, furono Ottaviano Augusto e la regina inglese Elisabetta I, che seppero modulare le mosse in proporzione ai mezzi disponibili contro i rispettivi avversari, ovvero Marco Antonio e Filippo II di Spagna, badando anche a delegare parte del comando agli esperti, senza l’ansia di voler dirigere tutto da soli.

Tale fu il buonsenso di Ottaviano nell’affidarsi all’ammiraglio Agrippa per vincere la battaglia navale di Azio, il 2 settembre 31 avanti Cristo, sconfitta finale di Antonio. Idem fece Elisabetta nel 1588 fermando i galeoni dell’Invencible Armada mediante l’equilibrio fra i servizi segreti di Sir Walsingham e i cannoni del corsaro Drake. L’arte della strategia, insomma, è l’arte di ciò che è possibile in un determinato momento. Gaddis ce lo ricorda scomodando anche Sant’Agostino, Machiavelli, Clausewitz e perfino Tolstoj, che per il professore di Yale è forse il pensatore che più ha colto la complessità della realtà, fatta di così tante variabili, apparenti e nascoste, da ridicolizzare tutte le teorie costruite a tavolino e la pretesa che gli avvenimenti da noi stessi innescati si snodino come noi vogliamo.

Lo stratega può solo abbozzare, come fa un pittore con un paesaggio, la realtà del suo scacchiere cercando di intuire le linee essenziali, il resto è fortuna, fortuna contornata dalla paura, eterna ancella di ogni guerra. E’ originale annoverare il romanziere di “Guerra e Pace” fra gli strateghi, ma di fatto la struttura stessa del suo capolavoro, oscillante fra i grandi e gli umili, fra il dettaglio e l’universale, indica quanto la condotta di un conflitto debba affidarsi alla probabilità, data l’imprevedibilità di migliaia di microeffetti cumulativi che tutto pervadono: da una rissa fra commilitoni a una moria di cavalli, da un ritardo nel disgelo alla rottura della ruota di un carretto. Tolstoj corrobora così la massima di Clausewitz secondo cui in guerra, per tre quarti si è immersi nella nebbia dell’incertezza.

Il Napoleone narrato da Tolstoj ben rappresenta quello reale che nel 1812 invase la Russia, convinto ormai solo di una sua propria, e autogiustificata, grandezza, esattamente come Serse, e incapace di concepire che i russi dello zar Alessandro e del generale Kutuzov si sarebbero semplicemente ritirati a oltranza nella steppa. Gli lasciarono Mosca, come già i greci avevano lasciato Atene ai persiani, pur di guadagnare tempo e spazio per sfiancare l’armata francese e assalirla quando era affamata e congelata dall’inverno.

Quello stesso Napoleone che, da giovane generale era stato un genio unendo in sé volpe e riccio e cogliendo trionfi, man mano che si ubriacava del potere, rimaneva solo riccio. “E’ per questo – conclude Gaddis – che la guerra deve riflettere la politica. Infatti, quando la politica riflette la guerra, è perché qualche riccio di alto rango, un Serse o un Napoleone, si è innamorato della guerra, facendone un fine in sè stesso. E si fermerà solo quando si sarà completamente dissanguato. Così, il punto culminante della sua offensiva è l’autosconfitta”.

 

Nato nel 1974 in Brianza, giornalista e saggista di storia aeronautica e militare, è laureato in Scienze Politiche all'Università Statale di Milano e collabora col quotidiano “Libero” e con varie riviste. Per le edizioni Odoya ha scritto nel 2012 “L'aviazione italiana 1940-1945”, primo di vari libri. Sempre per Odoya: “Un secolo di battaglie aeree”, “Storia dei grandi esploratori”, “Le ali di Icaro” e “Dossier Caporetto”. Per Greco e Greco: “Furia celtica”. Nel 2018, ecco per Newton Compton la sua enciclopedica “Storia dei servizi segreti”, su intelligence e spie dall’antichità fino a oggi.

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