La zona smilitarizzata in Libia: un’opportunità per l’Europa

Nell’editoriale del Corriere della Sera del 14 settembre 2015 intitolato “Rimettere i piedi per terra”, Angelo Panebianco analizzava con grande efficacia le inerzie occidentali a fronte di quello che definiva come il “terremoto mediorientale” in atto comprendente, allora come adesso, la guerra civile siriana, il caos libico e l’avanzata dello Stato islamico.

L’esemplificazione di tali inerzie, secondo il giornalista, risiedeva in larga parte nell’invocare abitualmente soluzioni diplomatiche ignorando che nelle zone di guerra “non può avere successo alcuna azione diplomatica che non sia sostenuta dalla forza militare e dalla disponibilità a farne uso”. Sussisteva, quindi, una grande sproporzione fra quanto l’Europa faceva o si proponeva di fare a fronte degli sconvolgimenti radicali in atto, soprattutto perché gli europei (con la parziale eccezione di francesi e inglesi), sosteneva il giornalista, “sembravano ormai largamente inconsapevoli che la pace, per durare, deve essere tutelata dalla forza e dalla volontà di usarla contro le minacce”.

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Di conseguenza, con il passare del tempo, lo spazio di manovra degli occidentali incapaci di dotarsi di strategie plausibili per contribuire alla risoluzione delle crisi nelle aree vitali per la sicurezza europea, si sarebbe progressivamente ridotto, favorendo attori più spregiudicati, come la Russia di Putin che in Siria aveva già messo gli “scarponi sul terreno”. Di qui la necessità per gli europei, convinti che la pace di cui abbiamo goduto per decenni appartenga all’ordine naturale delle cose, di scuotersi e di “rimettere i piedi per terra” ricominciando a pensare politicamente.

Dopo cinque anni, l’editoriale di Panebianco conserva tutta la sua drammatica validità dal momento che i “piedi per terra” non li abbiamo messi per niente e le opzioni diplomatiche, prive di back up militare, hanno continuato a rappresentare la soluzione preferita dai governi europei. In Italia, in particolare, il “mantra” della soluzione politica ha assunto connotati assolutamente ideologici ed è forse una delle principali cause della marginalità oramai conclamata del nostro Paese nella risoluzione della crisi libica, quella a noi drammaticamente più vicina e che avrebbe richiesto, sin dal suo insorgere, un atteggiamento molto più risoluto ed omnicomprensivo.

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Il nostro Paese ha di fatto sistematicamente ignorato i requisiti di base della deterrenza militare, risultato dell’equazione che mette in sistema la capacità dello strumento operativo nel suo complesso, con la volontà di impiegarlo e con una strategia di comunicazione che rende visibile e percepibile tale volontà. In inglese, si parla di resolve, che è molto più della semplice “volontà” in quanto descrive la “determinazione” ad impiegare la forza, quando necessario, a sostegno della propria linea politica. A forza di affermare, in tutti i consessi internazionali, che l’Italia escluderà sempre la soluzione militare sono stati annullati il prodotto dell’equazione e la funzione di supporto all’azione diplomatica auspicata da Panebianco, con le conseguenze che tutti conosciamo.

La certezza del disimpegno militare italiano “a priori” in una crisi dove invece l’impiego dello strumento militare è uno degli elementi fondamentali della sua gestione, unitamente agli altri strumenti del national power, in una regione essenziale per la tutela dei nostri interessi nazionali, ha garantito libertà d’azione illimitata a tutti gli attori interessati ad assumerne, a nostre spese, il controllo politico, militare ed economico.

Libya's UN-backed Prime Minister-designate, Fayez al-Sarraj, flanked by members of the presidential council, speaks during a press conference on March 30, 2016 in the capital Tripoli. Fayez al-Sarraj arrived in Tripoli following months of mounting international pressure for the country's warring sides to allow him to start work. / AFP PHOTO / STRINGER

Nel frattempo, i piedi per terra (quelli dei soldati) li hanno messi sul serio i turchi e i russi, con le proprie forze armate, accompagnate da diverse tipologie di forze paramilitari e irregolari, con buona pace delle milizie libiche che hanno sempre promesso ritorsioni di ogni genere nei confronti di possibili interventi occidentali salvo poi arrendersi alla schiacciante superiorità militare messa in campo dai Ankara e Mosca accettandone di fatto l’ingerenza e combattendo addirittura al fianco dei rispettivi contendenti per stare dalla parte del vincitore una volta terminate le ostilità.

L’idea che l’Europa possa schierare un contingente internazionale di soldati europei sotto egida ONU nell’area di Sirte, secondo quanto proposto alcune settimane fa dal ministro degli esteri tedesco Heiko Maas dimostrerebbe la volontà di alcuni governi europei di introdurre quelle strategie plausibili (anche se molto tardive) auspicate nell’editoriale di Panebianco. La missione avrebbe il compito di interporsi tra le forze di Al Sarraj, appoggiate dalla Turchia, e quelle del generale Haftar, sostenute dalla Russia, per porre fine alle ostilità tra i due schieramenti, garantire il rispetto del cessate il fuoco ed evitare ulteriori spargimenti di sangue nel conflitto fratricida.

 

I precedenti

E’ singolare che tale possibilità venga presa in esame a cinque anni di distanza dagli esiti non proprio felici di un precedente tentativo posto in essere dalla comunità internazionale di schierare una coalizione di paesi europei, la Libyan International Assistance Mission (LIAM) in Tripolitania. Proprio nell’estate del 2015, infatti, fervevano le trattative politiche e le attività di pianificazione per lo sviluppo di una missione, a guida italiana, che avrebbe dovuto assicurare, unitamente alle unità delle Lybian Security Forces, il funzionamento delle istituzioni del Governo di Unità Nazionale di Tripoli, garantendo la sicurezza di punti chiave della capitale e del territorio viciniore. In un momento successivo, stabilità e sicurezza si sarebbero estese progressivamente a tutto il territorio libico e l’operazione si sarebbe trasformata in una missione a guida ONU.

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In tale contesto, l’incerta leadership nazionale, che non riusciva a chiarire alla comunità internazionale quali fossero i piani in corso venne affiancata, per così dire, dall’iniziativa degli inglesi. La conferenza per discutere gli elementi della crisi libica e porre le basi per la redazione della direttiva strategica per l’intervento ebbe luogo a Londra e non a Roma dove era naturale che dovesse avvenire. Inglese fu il consigliere militare di Bernardino León, il Rappresentante Speciale delle Nazioni Unite in Libia, il generale in congedo Adrian Foster che ricopriva l’incarico di Vice Consigliere Militare del Dipartimento per le operazioni di peacekeeping dell’ONU a New York, che prese saldamente in mano il coordinamento delle consultazioni.

La “visione” dell’operazione fu il risultato di un compromesso tra i molti attori che cercarono di influenzare lo sviluppo del security track, cioè della linea d’azione per definire il contesto di sicurezza da realizzare a seguito dell’accordo politico in corso di negoziazione con il generale Haftar, a quel tempo non ancora così forte come ora. Le Nazioni Unite, l’Unione Europea, il Governo di Unità Nazionale a Tripoli, la Camera dei Rappresentanti a Tobruk, le milizie, i principali contributori europei (Italia, Gran Bretagna e Francia) e gli Stati Uniti.

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Si arrivò quindi a definire i contorni di una operazione di stabilizzazione che sposava si l’idea di un contingente internazionale, ma con presenza e attività che dovevano essere “poco visibili” dal momento che in ottemperanza del principio Libya first, sarebbe spettato alle forze di sicurezza libiche realizzare le condizioni per lo schieramento della LIAM circoscrivendone i compiti e l’entità. Ed è proprio su questi ultimi elementi che avvennero i dibattiti più accesi.

I francesi furono gli unici europei a contrastare l’idea di assegnare al contingente compiti di sicurezza (con l’eccezione della force protection) e in ogni caso il principio della LIAM in supporto alle forze libiche difficilmente avrebbe consentito il conseguimento degli obiettivi politico militari della missione, che includevano il contenimento del terrorismo e dei traffici illegali in Libia, oltre alle consuete missioni di addestramento e consulenza di ogni genere.

Quindi, nell’incertezza dei compiti e dei ruoli da assumere, il numero di soldati da schierare non fu mai esattamente concordato. Il range delle possibilità andava dai quasi 30.000 alle poche centinaia, a seconda di come si interpretavano i ruoli della LIAM e delle forze libiche. Poi, l’accordo politico non vide mai la luce e la comunità internazionale giudicò troppo rischiose le condizioni sul terreno per poter pensare di procedere con la missione.

 

Una missione difficile ma necessaria

Oggi, l’iniziativa l’ha presa la Germania, a partire dalla Conferenza di Berlino dello scorso gennaio fino a giungere alla recente proposta del ministro degli Esteri, Heiko Maas, di istituire una fascia smilitarizzata tra i due contendenti libici nel settore posto tra Sirte e la base aerea di al-Jufra.

I tedeschi assicurano senza dubbio una credibilità politica di assoluto rispetto, anche se le loro forze armate sono soggette a molti vincoli e restrizioni d’impiego. I britannici non ci sono più e stanno uscendo dall’Europa. Il loro main focus, dal punto di vista militare, è il confronto strategico con la Russia, che sostengono assieme agli Stati Uniti sia come paese che nell’ambito della NATO.

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Si sono comunque schierati con tre elicotteri in Mali in appoggio all’operazione francese Barkhane e alla missione delle Nazioni Unite (MINUSMA) per non perdere di vista gli sviluppi degli avvenimenti in una regione strategicamente collegata con la Libia. La Francia costituisce un’incognita dal momento che Berlino e Parigi sono in competizione per la leadership europea e si vedrà in quale misura i francesi lasceranno libertà di manovra ai tedeschi.

Nonostante il cessate il fuoco e le aperture al negoziato delle ultime ore, la situazione sul terreno è immensamente più complessa di quella di cinque anni fa e lo spiegamento di una forza d’interposizione tra due schieramenti è potenzialmente molto pericoloso per la stessa natura dell’operazione (si rischia di “prenderle” dalle due parti) ed è quindi necessario definire con assoluta certezza le regole del gioco: prima di tutto lo scopo e gli obiettivi da raggiungere sino a definire il profilo della missione e le regole d’ingaggio.

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Il “cosa fare” (nell’immediato e nel medio-lungo termine) e il “perché” devono essere definiti necessariamente prima del “come” e, ora come allora, gli interessi e la posta in gioco nel contesto della crisi libica dei paesi europei non sono omogenei, così come la disponibilità a mettere a rischio la vita dei propri soldati non è per tutti scontata.

Gli europei hanno la necessità di mettere i piedi per terra in Libia per poter rientrare nella partita della gestione della crisi, che deve includere l’aspetto prioritario della gestione dei flussi migratori e della lotta al traffico degli esseri umani. Soprattutto per l’Italia, questo dovrebbe fornire uno dei “perché” più importanti.

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Tutto questo, chiaramente, avrebbe un prezzo. Quand’anche le forze di al-Sarraj e di Haftar acconsentissero al ritiro da alcune posizioni per costituire una zona smilitarizzata (ipotesi già respinta dal portavoce di Haftar mentre la Turchia, principale sponsor di Tripoli, si è detta disposta a discuterla) e le due coalizioni accettassero di buon grado una risoluzione dell’ONU a “copertura” della missione (che non si riuscì ad ottenere cinque anni fa), i rischi non mancherebbero.

Un’eventuale forza europea destinata a presidiare la zona smilitarizzata potrebbe trovarsi esposta alla reazione delle milizie libiche e delle altre forze irregolari in campo, determinate a sfidare i nuovi arrivati e a testare la “tenuta” della missione e la cabina di regia europea dovrebbe districarsi in mezzo a situazioni e scenari in continua evoluzione e difficilmente prevedibili.

Un banco di prova potenzialmente durissimo, ma auspicabile e necessario in quanto potrebbe essere una delle ultime opportunità per gli europei di riprendere parte dell’iniziativa che per troppo tempo è stata lasciata ad altri.

Foto Libya Express e Libya Observer

 

Nato a Vicenza nel 1960, è stato il vice comandante dell'Allied Rapid Reaction Corps (ARRC) di Innsworth (Regno Unito), capo di stato maggiore del NATO Rapid Reaction Corps Italy (NRDC-ITA) di Solbiate Olona (Varese), nonché capo reparto pianificazione e politica militare dell'Allied Joint Force Command Lisbon (JFCLB) a Oeiras (Portogallo). Ha comandato la brigata Pozzuolo del Friuli, l'Italian Joint Force Headquarters in Roma, il Centro Simulazione e Validazione dell'Esercito a Civitavecchia e il Regg. Artiglieria a cavallo a Milano ed è stato capo ufficio addestramento dello Stato Maggiore dell'Esercito e vice capo reparto operazioni del Comando Operativo di Vertice Interforze a Roma. Giornalista pubblicista, è divulgatore di temi concernenti la politica di sicurezza e di difesa.

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