Armenia: l’ennesimo fronte aperto dal neo-ottomanesimo di Erdogan

Dopo le incursioni militari in Siria, l’intervento in Libia e l’espansionismo marittimo ai danni della Grecia, in questi giorni la Turchia neottomana del presidente Recep Tayyp Erdogan si tuffa a capofitto in un nuovo fronte geopolitico, appoggiando la guerra dell’Azerbaijan contro l’Armenia per il territorio del Nagorno Karabakh. A dispetto di tutti gli appelli internazionali per una tregua, da Ankara giungono parole di incoraggiamento agli azeri, oltre ad aiuti concreti in uomini e armi. Ankara rischia però di infilarsi in un vicolo cieco, moltiplicando impegni per cui potrebbe scoprire di non avere forze sufficienti e ottenendo solo l’effetto di moltiplicare il numero dei suoi avversari, rimanendo isolata.

 

La mattina del 30 settembre 2020 il ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu ha per la prima volta evocato la possibilità di un coinvolgimento diretto della Turchia nel conflitto che da alcuni giorni divide, per l’ennesima volta, l’Armenia cristiana e l’Azerbaijan musulmano, paese quest’ultimo di ceppo turcomanno e perciò beniamino di Ankara. Riprendendo ancora le accuse rivolte dagli azeri agli armeni riguardo al fatto di essere gli iniziatori dei combattimenti, ha detto: “Con questo attacco l’Armenia dichiara di ignorare il sistema ed il diritto internazionale.

A questo si deve rispondere. L’Azerbaigian sta combattendo sul proprio territorio. In quale parte del mondo l’occupante e gli occupati sono trattati allo stesso modo? Abbiamo dichiarato che se l’Azerbaigian desidera risolvere questo problema sul campo, saremo al suo fianco”.

Ankara ha finora negato, a dispetto di vari indizi, che suoi uomini e perfino suoi aeroplani da caccia, stiano effettivamente già aiutando gli azeri nel corso di quella che il governo di Baku ha fatto passare per una “controffensiva” scattata dal 27 settembre in risposta a non meglio precisati “attacchi armeni” con cannoneggiamenti notturni.

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Di fatto, però, si ha l’impressione che sia in atto un piano premeditato dall’asse Baku-Ankara per strappare agli armeni il territorio del Nagorno Karabakh, che essendo a maggioranza armena è ormai da 30 anni sotto la protezione di Erevan, non a torto se sui considerano le drammatiche persecuzioni sempre subite ai tempi dell’Impero Ottomano dal popolo armeno, avanguardia cristiana circondata da popoli islamici.

Cavusoglu ha iniziato a evocare ciò che ancora non ammette, che la Turchia è in verità già scesa nell’arena e le sue frasi sono arrivate proprio il giorno dopo che, il 29 settembre, un aereo d’assalto armeno Sukhoi Su-25 è stato abbattuto da un caccia turco F-16.

Notizia che deve aver fatto riflettere il ministro degli Esteri di Ankara sul fatto che il coinvolgimento turco col passare dei giorni diventerà comunque sempre più evidente. La portavoce ufficiale delle forze armate armene, Shushan Stepanyan, ha dichiarato nel pomeriggio del 29: “Caccia F-16 turchi sono decollati alle 10.30 di stamattina dalla base di Ganja, nel territorio dell’Azerbaijan e durante una loro missione di combattimento un F-16 ha abbattuto un Su-25 armeno, il cui pilota è morto da eroe”.

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Ankara nega, ma intanto le difese antiaeree armene hanno abbattuto almeno un paio di droni Bayraktar TB-2 (nella foto sotto) analoghi a quelli inviati da Erdogan in Libia e in più occasioni impiegati in Siria.

E il 30 settembre il Ministero della Difesa armeno ha annunciato che “l’Azerbaijan sta conducendo attacchi aerei nella parte settentrionale della linea di contatto (del Nagorno Karabakh, n.d.r.). Droni turchi e caccia multiruolo F-16 dell’aviazione turca si sono alzati in volo.

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Il nemico agisce da lontano, senza entrare nell’area coperta dai sistemi di difesa aerea. Sono usati missili aria-terra a lungo raggio”. Il che è fattibilissimo poiché l’aviazione turca dispone di numerosi missili aria-terra con gittate anche di 150-250 km, la maggior parte di fattura americana, come l’AGM-88 HARM, ma anche modelli indigeni come il missile da crociera SOM.

Peraltro, la rivendicazione del 30 settembre da parte azera di aver “distrutto una postazione antiaerea armena S-300”, senza specificare le modalità dell’azione, potrebbe essere una conferma indiretta dell’uso di AGM-88 HARM lanciati da F-16 turchi, dato che tali missili sono studiati per colpire le emittenti radar della contraerea, in quel tipo di missioni che gli americani, fin dall’epoca del Vietnam, hanno battezzato in gergo “Wild Weasel” (“donnola selvaggia”).

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Erevan afferma inoltre che “nel Karabakh sono state intercettate via radio conversazioni fra piloti che parlavano turco”. L’Azerbaijan nega tutto e, a posteriori, un suo consigliere governativo, Hikmet Hajiyev, ha perfino azzardato una sua spiegazione alternativa del presunto abbattimento del Su-25.

“Le nostre informazioni indicano che due aerei Su-25 sono decollati dal territorio armeno martedì. Entrambi gli aerei sono esplosi dopo la collisione con una montagna”. La versione azera sembra francamente poco probabile, sostenendo che non uno, ma addirittura due velivoli nello stesso momento siano finiti contro una montagna per errore congiunto di due piloti che dovevano conoscere bene il loro territorio, tantopiù che le immagini di questi giorni provenienti dallo scacchiere sembrano mostrare condizioni di bel tempo.

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Gli armeni, che schierano anche nuovi Sukhoi Su-30SM (nella foto sipra),  hanno mostrato foto dei rottami del Su-25 abbattuto da un caccia turco e un portavoce del Ministero della Difesa di Erevan, Artsrun Hovhannisyan, ha dichiarato che “gli F-16 turchi vengono visti volare in coppia”  (qui il confronto tra le forze aeree armene e azere).

 

Piano di conquista

I combattimenti continuano senza tregua e, almeno per il momento, l’appello lanciato nella tarda serata del 29 settembre dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU per un immediato cessate il fuoco è caduto nel vuoto. Il giorno dopo, il presidente dell’Azerbaijan, Ilham Aliyev, ha negato il coinvolgimento turco spiegando che “quello della Turchia è un sostegno morale, e nient’altro”, ribadendo che, secondo lui, le truppe azere stanno solo “proteggendo il territorio”.

Si sa però che a Baku considerano la popolazione armena in Nagorno Karabakh come una frattura della propria integrità territoriale, tanto che l’espressione “recupero del Karabakh” è stata pronunciata più volte negli ultimi tempi sia dalla dirigenza azera, sia da quella turca. Nonostante gli azeri abbiano incolpato gli armeni dei primi colpi sparati nella notte fra sabato 26 e domenica 27 settembre, già vari giorni prima c’erano i segnali della preparazione di una possibile offensiva azera contro il Nagorno Karabakh. Sponsorizzata per l’appunto dalla Turchia, il cui presidente Recep Tayyp Erdogan ha avviato da tempo una fitta collaborazione militare con gli azeri e già negli scontri dello scorso luglio si era schierato dalla parte di Baku.

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Ebbene, appena 5 giorni prima degli scontri, il 22 settembre, Erdogan ha inoltrato alle Nazioni Unite un suo videomessaggio, in occasione della 75° Assemblea Generale dell’ONU, in cui sosteneva: “L’Armenia è la più grande minaccia per la pace nel Sud del Caucaso e il conflitto per il Nagorno Karabakh può essere risolto solo ripristinando l’integrità territoriale dell’Azerbaijan”.

Evocando una sorta di parallelismo, il presidente di Ankara ha inoltre solidarizzato col Pakistan per la questione del Kashmir, conteso con l’India, il che ha ulteriormente guadagnato il sostegno ideale di Islamabad alla causa turco-azera, più ampiamente inquadrabile nella “solidarietà islamica”.

E’ bene però precisare che ci sono anche grossi stati islamici come l’Iran, che negli ultimi tempi hanno tenuto relazioni positive più con l’Armenia cristiana che con l’Azerbaijan, e ciò nonostante quest’ultimo abbia una maggioranza di confessione sciita, proprio come Teheran.

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Gli iraniani hanno infatti guardato con sospetto il fatto che gli azeri abbiano comprato molte armi da Israele, come il nuovo missile balistico della IAI, il LORA da 300 km di gittata, da noi già citato in un precedente articolo. Non deve quindi stupire che siano sorte voci di un aiuto sotterraneo iraniano all’Armenia.

Ciò ha spinto il 30 settembre Mahmoud Vaezi, segretario del presidente iraniano Hassan Rohani, a negare che Teheran abbia inviato forniture militari a Erevan, accusando chi diffondeva queste voci di “voler rovinare i rapporti fra noi e gli azeri”. E’ un fatto, però, che l’Iran non si è schierato dalla parte dell’Azerbaijan, ma ha invocato “il dialogo e i negoziati nell’ambito del diritto internazionale”.

E’ assodato comunque che Rohani ha sentito per telefono il premier armeno Nikol Pashinyan tentando probabilmente una mediazione. Una posizione simile a quella iraniana è, paradossalmente, quella della sua rivale Arabia Saudita e di altri paesi islamici, il che fa capire che la discriminante del conflitto non è semplicemente religiosa, ma anche etnica, sedimentata da decenni di vendette e contro vendette.

Certo è che i nuovi scontri scoppiati dalla notte del 27 settembre fra Armenia e Azerbaijan minacciano di espandersi a un livello assai più ampio di quelli dello scorso luglio, i quali, a posteriori, sembrano quasi aver avuto piuttosto l’aria di una “prova generale” per saggiare la prontezza della difesa armena.

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Ricorderemo che fra il 12 e il 27 luglio 2020, con una “coda” di violazioni del cessate il fuoco denunciate ancora fino in agosto, le scaramucce fra armeni e azeri si erano avute lungo la parte settentrionale del confine fra i due stati, nella regione di Tovuz, e in misura minore lungo il confine con l’exclave azera del Nakichevan, territorio che un lungo “corridoio armeno” separa sul versante settentrionale dal resto dell’Azerbaijan, mentre a Sud confina con l’Iran e a Ovest con un sottile lembo di Turchia. In quei giorni, fra scambi di granate d’artiglieria e fucilate di cecchini, si erano avuti una ventina di morti in totale.

Gli scontri di queste ore sono invece di tutt’altra portata, anzitutto poiché, nei primi tre giorni, da domenica 27 a martedì 29 settembre compreso, si è già arrivati al centinaio di vittime. I caduti militari armeni accertati sarebbero almeno 84, mentre quelli azeri non sono stati finora dichiarati, e ci sarebbero 17 morti civili, fra armeni e azeri. Senza fondamento paiono per ora le iniziali dichiarazioni azere che parlavano di “550 armeni uccisi”, così come la rivendicazione armena di “centinaia di morti azeri”. Mercoledì, poi, gli azeri hanno asserito di aver ucciso o ferito addirittura “2300 soldati armeni”, senza prova alcuna, mentre gli armeni rivendicano di aver ucciso 790 militi azeri. Non c’è dubbio però che cifre simili potrebbero essere raggiunte nei prossimi giorni se la crisi non dovesse essere disinnescata.

 

L’eredità dell’URSS

A congiurare perchè la scia di sangue si prolunghi c’è proprio la collocazione geografica degli attuali scontri, ovvero le frontiere dell’Artsakh, lo stato-fratello armeno, non riconosciuto però da Erevan, costituito nel territorio del Nagorno Karabakh (“Karabakh Superiore”) in quanto zona a stragrande maggioranza etnica armena (oltre il 95%).

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Una questione che per gli armeni è, letteralmente, di vita o di morte, considerando anche le ataviche paure di genocidio dovute ai drammatici trascorsi con l’Impero Ottomano. L’Artsakh o Nagorno Karabakh, ex-oblast sovietico autonomo che Stalin, allora commissario per le nazionalità aveva assegnato nel 1921 all’Azerbaijan nonostante fosse fin da un secolo fa a maggioranza armena, conta oggi 150.000 abitanti e proprie milizie affiliate alle forze armate armene. Perciò, anche se per il diritto internazionale il Nagorno Karabakh sarebbe teoricamente parte dell’Azerbaijan, gli armeni considerano la sua assegnazione a quella che era la Repubblica Sovietica Azera come uno dei tanti “pasticci” combinati nella nascente URSS.

Si è dichiarato “indipendente” (ma di fatto protettorato armeno) fin dal 6 gennaio 1992, dopo le repressioni scatenate dall’Azerbaijan, appena staccatosi esso stesso, come anche l’Armenia, dalla traballante Unione Sovietica, per impedire che si annettesse alla madrepatria armena con capitale Erevan. Ne scaturì già allora una sanguinosa guerra da ben 30.000 morti fra Armenia e Azerbaijan, sospesa il 17 maggio 1994 da un cessate il fuoco dovuto alla mediazione operata da un gruppo di lavoro interno all’OSCE, il Gruppo di Minsk formato da Francia, USA e Russia.

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Nei successivi 26 anni, però, non c’è mai stata una vera pace, anche perchè a più riprese ci sono stati periodici scontri fra armeni e azeri.

L’Azerbaijan non ha mai rinunciato al Nagorno Karabakh, anche perchè è probabile che i governanti di Baku considerino quel territorio una tappa a cui potrebbe seguire, in un secondo tempo, l’annientamento del “corridoio armeno” che li separa dal Nakichevan.

E’ il sogno di un “Grande Azerbaijan” che oggi, a differenza del passato, può contare su un più concreto supporto della Turchia, la “grande sorella” a cui l’Azerbaijan è legato dal comune ceppo etnico turcomanno, oltre che dalla religione islamica. Fra gli scontri degli anni passati, si ricorderanno quelli dell’aprile 2016, che, come oggi, si ebbero sulle frontiere dell’Artsakh/Nagorno Karabakh, risultando nella sottrazione di alcuni km quadrati di territorio armeno da parte azera, 20 kmq secondo Baku, 8 kmq secondo Erevan.

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Allora si ebbero, secondo valutazioni del governo degli Stati Uniti, circa 350 morti totali, di entrambe le parti. In quell’occasione, come anche negli scontri di luglio 2020 e negli attuali di fine settembre, gli azeri hanno sempre accusato gli armeni di aver rotto la tregua per primi con pattuglie spintesi oltre il confine o con cannonate nel buio notturno. Ma, come anche in passato, pare assai più probabile che siano stati gli azeri ad aprire il fuoco per primi, nell’ambito di un piano programmato da tempo.

Turchi e azeri, del resto, si erano preparati all’azione già con ampie esercitazioni militari congiunte tenutesi fra il 29 luglio e il 10 agosto in varie zone dell’Azerbaijan, sia nell’area di Baku, sia nel Nakichevan, a Ganja, Kurdamir e Yevlakh, con largo uso di aerei ed elicotteri. In quei giorni il sibillino presidente Aliyev aveva spiegato: “Facciamo ogni anno esercitazioni comuni, è vero che stavolta coincidono con gli incidenti di Tovuz, l’Armenia dovrebbe pensare se è una coincidenza o no. Ci sono solo 80 km dal confine armeno-azero del Nakhichevan a Erevan, l’Armenia lo sa e ha paura”.

 

Verso l’escalation

Erdogan, aspirante erede dei sultani ottomani, era in prima fila il 28 settembre nell’accusare l’Armenia di aver aperto il fuoco, allo scopo di giustificare il suo intervento nell’ottica egemonica panturca: “La pace e la calma saranno ristabilite quando l’Armenia lascerà il territorio dell’Azerbaijan che sta occupando.

La Turchia resterà con ogni mezzo accanto all’amico e fratello Azerbaigian. Condanno ancora una volta l’attacco dell’Armenia”. Così tuonava.

Ma la stessa situazione strategica sul terreno indica che non avrebbe avuto senso per gli armeni attaccare per primi, dato che il loro obbiettivo è palesemente difensivo, ovvero mantenere il controllo sul Nagorno Karabakh e difenderlo dai perenni tentativi azeri di dominarlo. Anche solo per il fatto che l’Armenia è molto meno popolosa dell’Azerbaijan, con 3 milioni di persone contro 10 milioni, sarebbe illogico per il governo di Erevan pensare di poter attaccare e avanzare in territori a maggioranza etnica azera.

Certo, dando per assodata la classica superiorità intrinseca della difensiva sull’offensiva, in proporzione all’entità degli sforzi, il compito delle forze armene è più facile, oltretutto in uno scacchiere montagnoso che offre abbondanza di posizioni per arroccarsi.

E sebbene il capoluogo dell’Artsakh, Stepanakert, potrebbe essere esposto a un’avanzata azera, essendo sul fondovalle, dalle alture circostanti gli armeni potrebbero bersagliare le forze nemiche agilmente, causando loro perdite gravissime, forse non diversamente da quanto fecero nel 1954 i Viet Minh contro i francesi a Diem Bien Phu.

Gli armeni, sul cui arsenale ci siamo già pronunciati in una precedente esposizione, potrebbero aver iniziato a usare lanciamissili campali OTR-21 Tochka in possesso dell’Artsakh, sebbene le autorità di Stepanakert neghino. Inoltre il premier Pashinyan ha il 30 settembre minacciato di usare due fra le armi più potenti in possesso dell’Armenia, cioè i caccia Sukhoi Su-30SM forniti dalla Russia pochi mesi fa e i missili, parimenti russi, Iskander con gittata di 400 km. Sarebbe la risposta all’uso massiccio di lanciarazzi e lanciafiamme azeri sul campo e a quel punto sarebbe difficile scongiurare un’escalation verso la guerra totale che metta nel mirino anche le rispettive capitali Erevan e Baku.

Se, del resto, come dichiara Aliyev, “l’unica via è che gli armeni cessino la loro occupazione del Nagorno Karabakh”, significa che l’attuale dirigenza azera sembra intenzionata a una drammatica resa dei conti definitiva.

Poichè però per una simile strategia occorre essere pronti in anticipo all’offensiva, che rispetto alla difensiva necessita di preparativi più complessi, ciò contraddice fin dall’inizio le accuse agli armeni di aver iniziato a sparare domenica.

 

I jihadisti del sultano

La premeditazione delle nuove ostilità da parte azera pare del resto confermata dall’invio, che ormai sembra appurato, di centinaia, forse fino a 4000 mercenari siriani filoturchi inquadrati nel cosiddetto SNA, Syrian National Army, e provenienti dalle milizie jihadiste Hamza e dalle brigate Murad, formate sia da arabi, sia da turcomanni siriani, il che fa prospettare uno scenario di tipo “libico”.

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Il primo allarme è stato lanciato il 21 settembre da un armeno di Siria, Kevork Almassian, fondatore del centro Syriana Analysis, che preannunciava per il giorno dopo “l’arrivo a Baku del primo gruppo di mercenari siriani per partecipare a battaglie contro l’Armenia con un salario di 600 dollari al mese”. Denunciato da molti media come l’agenzia missionaria AsiaNews, l’arrivo di miliziani filoturchi a Baku, per via aerea da Ankara, sarebbe stato confermato inoltre da giornalisti come Lindsey Snell e Paul Antonopoulos del media greco Greek City Times almeno dal 25 settembre, due giorni prima degli scontri. In particolare, i loro reportages indicano che fin dal 22 settembre sarebbe atterrato a Baku un volo turco con a bordo almeno 70 di tali miliziani, che fra l’altro sarebbero veterani delle battaglie in Libia contro l’esercito cirenaico di Haftar.

Fra i caduti nemici segnalati dagli armeni ci sarebbero in effetti, secondo Erevan, almeno “89 mercenari”. Non si sa esattamente quanti siano poiché alcune fonti stimano qualche centinaio di mercenari, altre 3.000 presenti alla data del 27, più “altri mille in arrivo fra il 27 e il 30 settembre”.

Certo è che il ricorso a simili veterani, con alle spalle anni di combattimenti in Siria e poi diversi mesi in Libia, indica che l’Azerbaijan non si sente in grado, con le sole sue forze, di infrangere una resistenza armena rivelatasi sempre coriacea, anche lo scorso luglio.

A tal proposito, una portavoce del Ministero degli Esteri armeno, Anna Naghdalyan, ha espresso la posizione ufficiale del governo di Erevan sui precedenti scontri di luglio, che, alla luce della crisi di settembre, si sono rivelati un errore di valutazione da parte dell’Azerbaijan. Dice la funzionaria: “La maggior ragione dell’escalation di luglio era stata un massiccio errore di calcolo da parte dell’Azerbaijan, il quale pensava che l’uso della forza al massimo livello avrebbe potuto portare a risultati desiderabili sul terreno e portare a conclusione il conflitto del Nagorno Karabakh.

Le battaglie di luglio hanno mostrato chiaramente il fallimento di questa politica, così che l’Azerbaijan, che si atteggiava a potenza dominante, ha dovuto invece cercare assistenza politico-militare di forze esterne alla regione”.

Poichè l’Azerbaijan, per ottenere l’obbiettivo dell’evacuazione armena del Nagorno Karabakh, dovrebbe convincere l’Armenia della sua potenza e capacità militare, qualità messe invece in dubbio proprio dal massiccio ruolo turco nell’offensiva azera.

Il presidente Aliyev, mentre visitava soldati azeri feriti, ha ancora chiesto il “ritiro unilaterale degli armeni, così la guerra cesserà, altrimenti andremo avanti”. E da Ankara il Ministero della Difesa turco ci teneva nelle stesse ore a dire che “le forze armate dell’Azerbaigian hanno dato prova di avere i mezzi e le capacità per ottenere da sole la vittoria, anche se siamo pronti ad aiutarle se lo richiederanno”.

Ma rappresenta già un segno di debolezza da parte dell’Azerbaijan pretendere di sconvolgere così tanto gli assetti del Caucaso, eliminando l’Artsakh dopo 30 anni, solo ora che al proprio fianco si schiera una Turchia che, peraltro, con la sua ennesima avventura rischia sempre più l’isolamento.

L’appoggio sfegatato di Erdogan a Baku, con linguaggio che incoraggia apertamente al combattimento, è stato, apertamente o velatamente, criticato dalla maggior parte dei paesi europei e del mondo, che invece invocano un dialogo per ora probabilmente impossibile. Fra i tanti, il presidente francese Emmanuel Macron ha accusato la Turchia di fomentare il conflitto con “pericolose dichiarazioni guerrafondaie”, al che il ministro turco Cavusoglu ha accusato la Francia di “voler proteggere l’occupazione del Karabakh”. Ma il contrasto fra Parigi e Ankara è solo l’ultimo stadio di una crisi di mesi che vede i francesi rivali dei turchi in Libia e nel Mediterraneo, tanto da inviare navi e aerei, come noto, a supporto della Grecia.

 

Il quadro strategico

L’avventurismo di Erdogan a favore dell’Azerbaijan arriva mentre la Turchia ha già aperti vari altri fronti in cui a un certo impegno militare e geopolitico non sembrano per ora corrispondere successi concreti.

Il che fa sorgere una lecita domanda, cioè fino a che punto lo stato con capitale Ankara abbia davvero risorse, economiche e militari, per affrontare per un lungo periodo di tempo più crisi parallele, tenuto conto che la condotta “neottomana”, urtando molti paesi vicini, e i loro rispettivi alleati, rischia di isolarlo come mai negli ultimi decenni.

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In Libia, da quando il 5 gennaio 2020 sono sbarcati i primi militari turchi e i mercenari siriani, ormai arrivati ad almeno 17.000 uomini, i successivi mesi di combattimento hanno sì consentito di salvare Tripoli dall’assedio, respingendo l’esercito di Haftar fino a Sirte, ma da quest’estate la situazione è in stallo perchè le forze turco-tripoline potrebbero trovarsi a malpartito se riprendessero l’offensiva.

Da un lato, infatti, l’esercito di Haftar è ora avvantaggiato nella difesa avendo linee di rifornimento più corte, che peraltro arrivano dalla vicina frontiera egiziana.

Dall’altro, dopo che in luglio il governo del Cairo ha approvato la possibilità di un intervento diretto in Libia, è forte il rischio che l’esercito egiziano, il più forte del continente africano, possa davvero entrare in lizza, avendo la forza di spazzar via le deboli forze turche, relativamente lontane dalle loro basi e costrette a malsicuri rifornimenti aerei e navali. Il tutto senza contare che anche altri attori come la Francia, gli Emirati Arabi Uniti e la Russia sostengono la Cirenaica.

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Un analogo stallo si sta profilando nelle contese marittime con la Grecia, tanto che Erdogan stesso ha alternato in questi giorni i proclami bellicosi anti-armeni con morbide proposte rivolte all’Unione Europea circa la disponibilità a trattare “senza precondizioni” sul delicato discorso delle acque territoriali contese fra Turchia e Grecia. Lo ha fatto ancora una volta il 30 settembre alla vigilia del Consiglio Europeo convocato l’1-2 ottobre a Bruxelles, che potrebbe portare a sanzioni ai danni della stessa Turchia.

Come mai tanta malleabilità, dopo il braccio di ferro marittimo con la Grecia, quando per tutta estate le navi turche da prospezione geologica Yavuz e Oruc Reis hanno violato le acque della Zona Economica Esclusiva greca sotto la scorta della marina militare turca?

Poche settimane fa, il 12 agosto 2020, c’era stato anche lo speronamento tra la fregata greca Limnos e quella turca Kemal Reis, tanto era il nervosismo. Ma a supportare la Grecia erano arrivati i Rafale francesi e gli F-16 emiratini, mentre gli stessi Stati Uniti, in settembre, di fronte all’imprevedibilità del presidente turco, cominciavano a considerare perfino l’ipotesi di “sbaraccare” la base NATO di Incirlik, trasferendone le armi nucleari e le guarnigioni in altri capisaldi, come, significativamente, la base greca della Baia di Suda, sull’isola di Creta.

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La stessa Armenia, mentre ancora si sparava negli scontri estivi con gli azeri, ha rafforzato i suoi legami militari con la Grecia contro il comune nemico. Il 21 luglio scorso, infatti, il ministro della Difesa armeno Davit Tonoyan ha accolto a Erevan una delegazione ellenica guidata dal diplomatico Dimitros Felopoulos e dal colonnello Dimosthenis Simaiakis con i quali è stata stabilita una “cooperazione militare” il cui oggetto potrebbe intuibilmente contemplare lo scambio di esperienze in fatto di sorveglianza e ingaggio di forze turche, nonché condivisione di dati di intelligence relativi a intercettazioni radio, cattura di mezzi nemici, interrogatori di eventuali prigionieri eccetera.

Se allarghiamo lo spettro, perfino la recente apertura diplomatica fra Israele e gli stati arabi del Golfo Persico, simboleggiata dalla storica firma dell’accordo con gli Emirati Arabi Uniti a Washington il 15 settembre, è da leggersi in chiave antiturca.

 

I troppi fronti aperti di Ankara

Le varie avventure intraprese da Ankara negli ultimi tempi sono andate di pari passo con una crisi economica galoppante, resa ancor più drammatica dalle ripercussioni dell’epidemia di Covid-19, che ha colpito l’economia turca più che altri paesi mediorientali a causa anche della debolezza della lira turca.

E’ probabile anzi che Erdogan abbia voluto proprio far dimenticare alla popolazione i problemi interni ubriacandola di nazionalismo con la sua politica “delle cannoniere” e con gesti simbolici nostalgici del passato ottomano, come la riconsacrazione come moschea, lo scorso 24 luglio, della basilica bizantina di Santa Sofia di Istanbul, che nel 1934 il presidente laico Kemal Ataturk aveva trasformato in un museo.

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Ma questo non serve a evitare al paese una disoccupazione del 13%, che potrebbe aggravarsi quando a novembre scadrà il divieto di licenziamenti stabilito (come in Italia) per l’emergenza Covid, unitamente a una bilancia commerciale con l’estero che è in deficit di quasi 2 miliardi di dollari (1,85 per la precisione), in quanto quest’anno le esportazioni, da 14,85 miliardi di dollari, sono scese al di sotto delle importazioni, attestate su 16,7 miliardi. Data la crisi della lira turca, si sta ricorrendo perfino all’oro detenuto dai privati cittadini, incentivati a venderlo per rimetterlo in circolo.

L’economia Turchia, insomma, non naviga in buone acque e l’aggressività alla ricerca di giacimenti nei mari greci, o nelle sabbie libiche, nasconde più probabilmente una intrinseca disperazione. Anche il classico ricatto verso l’Unione Europea in fatto di migranti, con le continue richieste di miliardi di euro a Bruxelles non è alieno da questo quadro.

Il punto è capire in che misura la dirigenza turca, Erdogan in testa, se ne rende conto. Se fa cioè la voce grossa tenendo presente quale “linea rossa” non debba essere superata, oppure se, complice un’alterazione di percezioni dovuta alla retorica martellante del nazionalismo e del neo-ottomanesimo e la convinzione che gli avversari comunque cederanno pur di evitare lo scontro aperto, gli stessi capi di Ankara siano davvero convinti di poter sfidare nello stesso momento un numero così elevato di avversari e sui fronti diversi e lontani, credendo di poter contare su risorse che in realtà sono insufficienti per il cimento.

Le forze armate turche, certo, restano un “gigante”, relativamente all’area. E l’appartenenza alla NATO, nonostante le critiche degli alleati, resta una sorta di scudo che Ankara utilizza spregiudicatamente sperando di assicurarsi una perenne impunità. Ma dietro l’angolo alberga sempre l’imprevisto che può mandare all’aria i calcoli, specialmente se arrischiati, di una potenza regionale, quella turca, che sembra ormai voler strafare al di là delle sue concrete capacità strategiche.

 

Il ruolo di Mosca

In questa crisi una posizione alquanto delicata è quella della Russia, tanto che il presidente Vladimir Putin, ha già il 28 settembre espresso “seria preoccupazione per la ripresa del conflitto”. Mosca ha con l’Armenia un’alleanza militare, ma non vorrebbe essere costretta a intervenire, sia perchè ha rapporti commerciali ed energetici anche con l’Azerbaijan, sia perchè probabili incidenti fra forze russe e turche, segnatamente combattimenti aerei o abbattimenti di velivoli o droni, potrebbero rapidamente compromettere gli ultimi anni di riconciliazione fra Mosca e Ankara, dopo la pesante crisi avutasi il 24 novembre 2015 quando sul confine siriano un bombardiere russo Sukhoi Su-24 venne abbattuto da un caccia F-16 turco.

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Crisi risultante dalla diversità di obbiettivi nella guerra civile siriana, i russi a favore del governo di Damasco, i turchi a favore di milizie jihadiste fra cui l’Isis, e perdurante almeno fino a dopo la drammatica uccisione dell’ambasciatore russo in Turchia, Andrej Karlov, trucidato il 19 dicembre 2016 da un fanatico turco durante una mostra d’arte ad Ankara.

Con pazienza Putin ed Erdogan hanno ricucito, giungendo negli ultimi mesi a risultati che 5 anni fa sarebbero parsi lontani anni luce, ad esempio inaugurando insieme il gasdotto Turkstream l’8 gennaio 2020, oltre a siglare il 5 marzo gli accordi che regolano, almeno per il momento, la presenza congiunta di truppe russe e turche nella provincia siriana di Idlib, con pattugliamenti congiunti iniziati dal 15 marzo.

All’apparenza, insomma, fra Mosca e Ankara sembra ancora esserci una comunanza di interessi alimentata da interessi comuni, dalla volontà di gestire le crisi senza lasciare spazio ad altre potenze e forse anche dalla natura affine del regime politico di entrambi i paesi, quel modello di “democrazia autoritaria” alternativa a quella occidentale che spesso è stata battezzata “demokratura”.

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A tutto ciò non è estranea la vendita ad Ankara di armi come il sistema di difesa aerea a lungo raggio S-400 Triumf (nella foto sopra le prime consegne ad Ankara), che hanno spinto gli Stati Uniti a espellere la Turchia dal programma F-35. Ankara potrebbe allora rifarsi, a quanto pare, comprando il nuovo caccia Sukhoi Su-57, ma non c’è ancora nulla di certo al proposito.

Il fuoco cova comunque sotto la cenere e Russia e Turchia restano profondamente divise su vari dossier, il che non rende improbabile che una guerra totale Armenia-Azerbaijan li porti a uno scontro più o meno aperto. Come già detto, in Libia i russi appoggiano Haftar con i mercenari del gruppo Wagner e con caccia Mig-29 e bombardieri Su-24 dislocati, seppure in forma ufficiosa, sulla base aerea di Jufra.

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In Siria, per quanto l’accordo di marzo congeli lo status quo, resta intatta l’aspirazione dell’alleato di Mosca, il presidente Bashar Al Assad, a riunificare tutto il paese espellendo sia i turchi dalla loro fascia confinaria di occupazione, sia gli americani dalla zona petrolifera occupata insieme ai curdi delle formazioni SDF.

Peraltro, l’accordo Putin-Erdogan sulla Siria era arrivato dopo momenti di forte tensione che, il 14 febbraio 2020, avevano portato l’ambasciatore russo ad Ankara, Alexei Erkov, a denunciare di “temere per la sua vita”, paventando di fare la stessa fine del predecessore Karlov.

Quanto alla crisi nel Mediterraneo, la comunanza di religione ortodossa ha sempre reso la Russia sensibile alle ragioni della Grecia e anche di Cipro, quest’ultima ancora divisa, fin dal 20 luglio 1974, dall’occupazione turca del versante Nord dell’isola.

Venendo all’Armenia, ricorderemo che è alleata della Russia tramite la CSTO (Collective Security Treaty Organization, in russo Organizatsiya Dogovora o Kollektivnoy Bezopasnosti, ODKB).

 

 

Verso il coinvolgimento di forze russe?

In base al trattato, gli armeni ospitano un nutrito avamposto russo che comprende 3.000 soldati nella 102a Base Militare di Gyumri, dotati anche di missili antiaerei S-300, e 18 caccia Mig-29 nella base aerea di Erebuni, vicino Yerevan.

Russi e armeni hanno tenuto numerose esercitazioni insieme anche di recente, l’ultima volta proprio il 24 settembre, tre giorni prima dello scoppio della nuova crisi, quando, stando all’agenzia TASS: “Oltre 1000 soldati sono entrati in stato d’allerta in manovre congiunte russo-armene a livello di comando e stato maggiore, che si sono tenute al centro addestrativo di Bagramyan, in Armenia”. Le manovre in questione hanno avuto per tema la prontezza operativa di truppe meccanizzate, la difesa aerea e l’ipotesi di uso di “armi di distruzione di massa”.

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Il Cremlino sta tentando il tutto per tutto in sede diplomatica, tanto da aver convocato il 29 settembre presso il Ministero degli Esteri di Mosca gli ambasciatori armeno e azero, ma senza risultati tangibili.

Il premier armeno Pashinyan ha però dichiarato, nel tentativo di scongiurare un’estensione disastrosa del conflitto: “Non abbiamo discusso col presidente Putin un possibile intervento russo nel Karabakh. Non abbiamo ancora bisogno di utilizzare il potenziale della 102° Base russa, ma se una simile necessità dovesse presentarsi, ci sono tutte le basi legali per farlo”. Il capo del governo di Erevan, alla proposta russa di un summit armeno-azero-russo, ha inoltre risposto che “è un’idea prematura mentre sono in corso degli scontri, c’è bisogno di un’atmosfera adeguata”.

Il portavoce di Putin, Dimitri Peskov, invita a “non gettare benzina sul fuoco”, criticando il bellicismo delle parole dei turchi: “Non approviamo tali dichiarazioni. Siamo in disaccordo con loro”. E prosegue: “Chiediamo ancora a tutti i Paesi della regione di dare prova di moderazione e facciamo appello in particolare alle parti in conflitto a porre immediatamente fine alle ostilità”. Conclude inoltre che “i militari russi in Armenia stanno monitorando da vicino i combattimenti in Nagorno Karabakh e sulla linea di contatto”.

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Senza aggiungere altro. L’orso russo, insomma, proverbialmente lento ad avviarsi, ma sempre capace in teoria di diventare una valanga, sembra per ora inviare segnali velati al sultano neo-ottomano, facendo capire che non intende intervenire, ma se ci sarà tirato per i capelli, per esempio da un’estensione dei bombardamenti al territorio metropolitano armeno, allora scenderà in guerra.

Si porrà allora per i russi il grosso problema dell’appartenenza alla NATO della Turchia, che potrebbe forse essere aggirato utilizzando forze russe camuffate, senza contrassegni, in apparenza incorporate in quelle armene, e magari, per ulteriore sicurezza, limitandosi a colpire mezzi e truppe turche presenti solo in territorio azero, senza in alcun modo oltrepassare i confini statali della Turchia, a scanso di attivazione dell’articolo 5 dell’Alleanza Atlantica.

La Russia, comunque, ha già lanciato un avvertimento alla Turchia con le grandi esercitazioni Kavkaz (“Caucaso”) 2020, tenutesi dal 22 al 26 settembre nel Distretto Militare Meridionale russo, dirette personalmente dal Capo di Stato Maggiore generale Valery Gerasimov.

Avevano coinvolto ben 80.000 uomini, più 1.000 militari stranieri di Armenia (!), Bielorussia, Cina, Birmania e Pakistan, coinvolgendo un totale di 250 carri armati, 450 veicoli da trasporto fanteria e 200 sistemi d’artiglieria.

Sta ora alla Turchia, bellicosa fi anco nel linguaggio, fermarsi a riflettere prima che la tensione crescente porti a vicoli ciechi e sviluppi imprevedibili.

 

Foto: Ministero Difesa Armeno, Ministero Difesa Russo, Ministero Difesa Azero, RIA Novosti e Anadolu

 

Nato nel 1974 in Brianza, giornalista e saggista di storia aeronautica e militare, è laureato in Scienze Politiche all'Università Statale di Milano e collabora col quotidiano “Libero” e con varie riviste. Per le edizioni Odoya ha scritto nel 2012 “L'aviazione italiana 1940-1945”, primo di vari libri. Sempre per Odoya: “Un secolo di battaglie aeree”, “Storia dei grandi esploratori”, “Le ali di Icaro” e “Dossier Caporetto”. Per Greco e Greco: “Furia celtica”. Nel 2018, ecco per Newton Compton la sua enciclopedica “Storia dei servizi segreti”, su intelligence e spie dall’antichità fino a oggi.

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