M-16, fucile d’assalto

Lo chiamavano “il fucile giocattolo Mattel”, ma anche “Black Magic”, e inizialmente era stato criticato perchè troppo delicato e apparentemente inadatto alle dure condizioni di una guerra tropicale, nella fattispecie in Vietnam. Ma migliorato in versioni successive, e trattato con maggior cura dalla truppa, si è alla fine imposto. Ancora oggi, dopo oltre 60 anni, resta la principale arma individuale nelle forze armate statunitensi e presso quelle di molti loro alleati.

Parliamo ovviamente dell’M16, poi evolutosi, dal 1994, nella derivazione parallela della carabina M4 (germogliata dalla versione M16A2). Ma è sempre lui, riconducibile all’originale progetto steso nel 1956 da Eugene Stoner, che lavorava alla ArmaLite, succursale dedicata alle armi leggere dell’industria aeronautica Fairchild.

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L’idea era sfruttare i materiali leggeri di derivazione aeronautica, come alluminio e plastica, per realizzare armi individuali. Stoner mise così a punto il suo fucile Armalite AR-15, quello che poco dopo sarebbe stato ribattezzato M16 e la cui licenza fu acquistata dalla Colt nel 1959 per 75.000 dollari una tantum, più una royalty del 4,5% sulla produzione.

La Colt piazzò i primi M16 di produzione presso le truppe terrestri dell’US Air Force, a conferma di quanto l’ambiente aeronautico abbia fatto da “incubatrice” di questo fucile d’assalto.

E il primo grande sostenitore della nuova arma fu quel generale Curtis Le May meglio noto come comandante supremo degli stormi di B-52, che nel luglio 1960 volle imbracciarlo per provare di persona a sparare vari caricatori.

Questi e mille altri retroscena sulla lunga storia del più diffuso fucile americano moderno vengono narrati nel libro “M16: US Colt Model 16 – Fucile d’Assalto”, edito in italiano dalla casa editrice Odoya di Bologna (pagine 120, euro 14).

Lo ha scritto Gordon Rottman, già autore di un’analoga “biografia” dedicata all’AK-47 Kalashnikov. Egli stesso giovane combattente in Vietnam, l’autore è stato testimone dell’esordio dell’M16 nelle operazioni di prima linea dell’US Army contro i Viet Cong.

Inizialmente l’esercito non voleva saperne di questo nuovo fucile in calibro 5,56 mm, pur leggero (3 kg scarsi) e molto preciso. Solo dopo il 1967, il miglioramento dell’addestramento dei soldati alla pulizia dell’arma, nonché la produzione di più precisi manuali e accessori, permisero di evitare, o almeno diminuire di molto, gli inizialmente numerosi guasti e inceppamenti.

L’M16 era infatti molto più sensibile del Kalashnikov alla polvere, al fango, all’umidità e spesso fra i meccanismi si creava, complici i lubrifricanti, una vera e propria “pasta” gommosa. Talvolta interi bossoli rimanevano incastrati, costringendo a smontare l’arma in fretta e furia nel pieno di un’operazione. Rootman si trovò a combattere in Vietnam nella stagione operativa 1969-1970, quando il grosso dei problemi “di dentizione” dell’M16 sembrava superato.

Aveva 23 anni e ricorda: “Il mio M16A1 ha fatto cilecca una sola volta in combattimento. Dopo parecchi giorni di piogge monsoniche, durante un combattimento non sono riuscito a spostare la leva di armamento dalla posizione ‘Safe’ (in pratica non riusciva a togliere la sicura, n.d.r.).

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Espulso il caricatore, l’ho usato per colpire la leva e spingerla fino a ‘Semi-Auto’. Dopo lo scontro sono bastate poche gocce di LSA (un lubrificante, n.d.r) e muovere la leva avanti e indietro perchè riprendesse a funzionare ottimamente”.

L’M16 non ha potuto eguagliare la diffusione globale del diretto, e più spartano, rivale AK-47, arrivando a circa 10 milioni di esemplari di tutte le versioni, un decimo rispetto all’arma russa. Ma è stato protagonista di tutte le più importanti guerre americane degli ultimi decenni.

Come in Somalia nel 1993, dove bisognava svuotare un caricatore per poter fermare un miliziano drogato di khat. O come nella battaglia di Wanat, in Afghanistan, del 13 luglio 2008, quando un avamposto americano assalito da forze almeno triple di talebani resistette con raffiche prolungate di M16 e della variante M4 a costo di far surriscaldare molti di essi.

Nato nel 1974 in Brianza, giornalista e saggista di storia aeronautica e militare, è laureato in Scienze Politiche all'Università Statale di Milano e collabora col quotidiano “Libero” e con varie riviste. Per le edizioni Odoya ha scritto nel 2012 “L'aviazione italiana 1940-1945”, primo di vari libri. Sempre per Odoya: “Un secolo di battaglie aeree”, “Storia dei grandi esploratori”, “Le ali di Icaro” e “Dossier Caporetto”. Per Greco e Greco: “Furia celtica”. Nel 2018, ecco per Newton Compton la sua enciclopedica “Storia dei servizi segreti”, su intelligence e spie dall’antichità fino a oggi.

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