Perché la NATO dice no al Trattato per la Proibizione delle Armi Nucleari

Il 22 gennaio 2021 entrerà in vigore il Trattato per la Proibizione delle Armi Nucleari (Treaty on the Prohibition of Nuclear Weapons – TPNW), negoziato tra il 2016 e il 2017 nell’ambito dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e siglato da 122 paesi membri dell’organizzazione.

Il deposito degli strumenti di ratifica da parte dell’Honduras, cinquantesimo stato (vedi mappa qui siotto) ad aver accolto gli accordi nella propria legislazione, avvenuto il 20 ottobre dello scorso anno, ha infatti fatto scattare il countdown dei novanta giorni di prassi che devono intercorrere per renderli esecutivi, scaduti nel nuovo anno.

Le misure del TPNW proibiscono praticamente tutte le attività associate con le armi nucleari: lo sviluppo, la produzione, la fabbricazione, l’acquisizione, il possesso, lo stoccaggio, il trasferimento, lo stazionamento, l’installazione e persino la minaccia del loro impiego.

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Queste non vanno però confuse con i dettami del Trattato contro la Proliferazione delle Armi Nucleari (Treaty on the Non-Proliferation of Nuclear Weapons – NPT) in vigore dal 1970, che si prefigge lo scopo di impedire la diffusione delle armi nucleari e della relativa tecnologia e di promuovere la cooperazione per l’uso pacifico dell’energia nucleare.

I due trattati sono tecnicamente complementari, dal momento che nel corso della redazione del testo del TPNW si è speso molto tempo per renderlo compatibile con il NPT.

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Politicamente, tuttavia, sono distanti anni luce.  Basti pensare che la lista dei 190 paesi firmatari del trattato di non proliferazione del 1970 comprende le potenze nucleari (dichiarate e/o presunte tali) e tutti i paesi europei, a differenza di quella del TPNW che vede solo paesi extraeuropei e nessuno stato in possesso di ordigni nucleari.

La NATO, che sostiene il trattato di non proliferazione, ha preso le distanze da quello sulla proibizione puntando il dito sull’assenza di un credibile meccanismo di verifica e giudicando i nuovi accordi destabilizzanti del regime di non proliferazione instaurato a suo tempo con il NPT.

Tutti i paesi dell’Alleanza si sono infatti astenuti dal voto, unitamente alle potenze dichiaratamente nucleari, con unica eccezione dei Paesi Bassi che hanno votato contro.

In realtà le misure che il TPNW prevede in tema di verifica sono più stringenti di quelle del NPT e la contrarietà dell’Alleanza nasce, piuttosto, dalle conseguenze che si avrebbero sul piano politico e militare per i paesi della NATO, in possesso o meno di ordigni nucleari, in caso di ratifica degli accordi del nuovo trattato.

 

L’aspetto delle verifiche

Entrambi i trattati prevedono l’adozione di “accordi di salvaguardia” (safeguards agreements) da definire con l’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica (International Atomic Energy Agency -IAEA) di Vienna, aventi lo scopo di scoraggiare la diffusione delle armi nucleari attraverso l’individuazione tempestiva dell’abuso di impiego di materiale o tecnologia nucleare.

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Le misure di verifica associate agli accordi comprendono ispezioni, attività di monitoraggio e di valutazione, come quelle svolte dall’Agenzia in Iran, per intenderci, volte a definire se questo paese possegga o meno la capacità di produrre ordigni nucleari.

L’IAEA che ha stipulato, ad oggi, accordi con 183 stati, offre quattro tipologie di safeguards: 1) quelle rivolte ai paesi non in possesso di armi nucleari e già membri del NPT; 2) quelle definite su base volontaria e concordate con ciascuna potenza nucleare riconosciuta secondo i termini del NPT; 3) misure specifiche “a tema” da definire con gli stati che non hanno firmato il NPT; 4) quelle che garantiscono all’agenzia poteri ispettivi addizionali a quelli previsti nei tre precedenti “pacchetti” di clausole.

In pratica, il menu dell’IAEA lascia ben poco all’immaginazione presentando un portfolio diversificato e articolato in grado di gestire il controllo della pressoché totalità delle attività connesse con la gestione dell’energia nucleare.

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Tuttavia, mentre ogni stato parte del trattato sulla proibizione ha l’obbligo di concordare le clausole di salvaguardia con l’IAEA comprese quelle della quarta tipologia (con le ispezioni più intrusive), nel caso del trattato sulla non proliferazione l’obbligo è previsto solo nei confronti degli stati “non nucleari” ed esclude in ogni caso le clausole del quarto tipo.

Inoltre, il TPNW prevede la verifica obbligatoria dell’eliminazione degli ordigni nucleari esistenti e dei programmi di sviluppo eventualmente già realizzati. Cosa, questa, non prevista dagli accordi NPT.

È dunque evidente che il problema non risiede nei meccanismi di verifica ma, piuttosto, nella volontà di accettare o meno la logica ispiratrice del TPNW di prevedere obblighi più radicali e concreti per raggiungere l’obiettivo del “disarmo generale e completo” che anche il trattato sulla non proliferazione peraltro condivide.

 

Il problema della clausola di non assistenza

L’aspetto che ha provocato maggiormente la reazione negativa dell’Alleanza è quello dell’obbligo di astenersi in ogni circostanza dall’assistere, incoraggiare o indurre in ogni modo chiunque ad intraprendere ogni tipo di attività proibita dal trattato.

I termini “in ogni modo” e “chiunque” indicano, rispettivamente, che la proibizione riguarda sia le azioni dirette che quelle indirette di assistenza nei confronti di qualunque possibile acquirente. Oltre agli stati, la clausola riguarda anche gli individui, le società, le organizzazioni internazionali e persino gli attori non governativi.

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L’articolazione della clausola di non assistenza porta con sé pesanti implicazioni: 1) per i paesi alleati di stati possessori di ordigni atomici, come quelli protetti dall’ombrello nucleare degli Stati Uniti, 2) per i paesi non detentori di armi nucleari che hanno accesso alla tecnologia e/o al materiale nucleare per usi pacifici, o che ricercano di accedervi, e 3) per gli stessi nuclear- weapon -states.

Questi ultimi, infatti, hanno bisogno dell’assistenza di molti non-nuclear-weapon-states per mantenere e modernizzare i propri arsenali e per garantirne lo schieramento e l’operatività in diverse parti del mondo: forniture di materiale fissile per l’arricchimento, di software e di tecnologie missilistiche, disponibilità di basi per i bombardieri strategici, per citare alcuni esempi.

Ci sono cinque membri della NATO, e l’Italia è tra questi, che supportano il profilo nucleare degli Stati Uniti ospitando aerei in grado di essere armati con ordigni nucleari. Applicando il TPNW si tratterebbe di possesso, ricezione, minaccia dell’uso, stazionamento, installazione e schieramento di ordigni nucleari, tutte evidenti violazioni dei dettami del trattato.

 

La NATO è un’alleanza nucleare

In tale contesto, la NATO rimane saldamente ancorata al concetto di deterrenza nucleare, supportata dagli arsenali nucleari strategici di Stati Uniti, Regno Unito e Francia. La dimensione nucleare del Trattato di Washington è stata ufficialmente sancita nel Concetto Strategico del 2010 di Lisbona e questo non è un aspetto di poco conto poiché, tecnicismi a parte, la responsabilità politica della difesa nucleare si è praticamente trasferita dai singoli membri all’Alleanza in quanto tale.

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Per questo, mantenere una linea di condotta unitaria tra gli alleati è cruciale. Se un solo dei suoi membri siglasse gli accordi TPNW verrebbe a mancare il presupposto fondamentale per onorare quella responsabilità.

Emblematico, al riguardo, è il caso dell’Olanda che ospita sul proprio territorio (non è un segreto) ordigni nucleari statunitensi ed è, come abbiamo visto, l’unico membro della NATO ad aver espressamente votato contro la logica del TPNW. La missione nucleare è stata infatti giudicata, dal governo dei Paesi Bassi, quale parte cruciale della deterrenza e della difesa dell’Alleanza e fondamentale per la propria sicurezza.

Uno studio condotto in Svezia, democrazia certamente non guerrafondaia, ha escluso l’ipotesi della membership con il TPNW poiché potrebbe compromettere la sicurezza del paese e i rapporti con la NATO (della quale potrebbe diventare il trentunesimo membro).

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Se uno degli alleati si aggiungesse alla lista dei sottoscrittori dovrebbe abbandonare il supporto diretto alla missione nucleare della NATO, astenersi dal partecipare a qualunque esercitazione in qualche modo connessa con le tematiche nucleari, e dal sottoscrivere annunci o dichiarazioni contenenti la minaccia dell’impiego di ordigni nucleari. Ciò lascerebbe aperte due soluzioni: considerare la cosa come un’eccezione nell’ambito dell’Alleanza o forzarlo ad abbandonarla mettendo a rischio l’unità della NATO.

Al momento, dunque, sussiste una chiara incompatibilità tra l’adesione al TPNW e quella al Trattato di Washington anche se molti esperti di settore, sostenitori dei nuovi accordi, presentano soluzioni tecnico-legali abbastanza elaborate volte a rendere meno fondante il riferimento alla missione nucleare.

In ogni caso, in assenza della certezza che le alternative alla deterrenza nucleare garantiscano pari o maggiore sicurezza al continente europeo, difficilmente assisteremo a scelte non ortodosse da parte degli alleati. Soprattutto se mancano le garanzie che i proponenti del bando rivolgano le loro attenzioni a tutti i possessori di capacità nucleari, e non solo alle democrazie occidentali.

 

 

Nato a Vicenza nel 1960, è stato il vice comandante dell'Allied Rapid Reaction Corps (ARRC) di Innsworth (Regno Unito), capo di stato maggiore del NATO Rapid Reaction Corps Italy (NRDC-ITA) di Solbiate Olona (Varese), nonché capo reparto pianificazione e politica militare dell'Allied Joint Force Command Lisbon (JFCLB) a Oeiras (Portogallo). Ha comandato la brigata Pozzuolo del Friuli, l'Italian Joint Force Headquarters in Roma, il Centro Simulazione e Validazione dell'Esercito a Civitavecchia e il Regg. Artiglieria a cavallo a Milano ed è stato capo ufficio addestramento dello Stato Maggiore dell'Esercito e vice capo reparto operazioni del Comando Operativo di Vertice Interforze a Roma. Giornalista pubblicista, è divulgatore di temi concernenti la politica di sicurezza e di difesa.

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