Il potenziamento di Guam, Wake e Tinian nella strategia di contenimento della Cina

 

 

Perno del pivot americano nel Pacifico, l’isola di Guam gioca un ruolo centrale nel dispositivo militare degli Stati Uniti. Più vulnerabile di un tempo, rimane un baluardo imprescindibile di fronte alle sfide geostrategiche poste dalla Cina.

 

La storia

Scoperta da Magellano nel 1521, Guam è l’isola più meridionale delle Marianne. Si colloca nella punta occidentale del triangolo strategico delle Forze Aeree del Pacifico, con l’Alaska a nord e le Hawaii a est. Operativamente, è la matrice della cosiddetta ‘seconda catena di isole’, i cui confini si estendono fino a includere il Giappone e le Filippine orientali. Territorio americano dal 1898, Guam si sdoppia in gigantesche infrastrutture aeree e approdi marittimi.

Ospita infatti la base aerea di Andersen, il porto militare di Apra Harbor e la Stazione di Telecomunicazioni e Computer Navale Finegayan, oltre a diverse installazioni logistiche, fra cui una riserva di munizioni navali. L’insieme occupa il 29% della superficie dell’isola, che dal 1950 ha lo status di territorio non incorporato, con un delegato che siede alla Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti. La storia dell’isola racconta di molti episodi rocamboleschi.

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Espugnata dai giapponesi tre ore dopo l’attacco a Pearl Harbor, Guam fu riconquistata dal 3rd Amphibious Corps dei Marines nell’estate del 1944, nel corso della campagna delle Marianne.

Pochi mesi dopo, il 3 dicembre 1944 vi nacque la futura Andersen Air Force Base, attivata quel giorno con il nome di North Field.

Questo aerodromo servì già allora come sorta di portaerei terrestre per le operazioni dei B-29 Superfortress. I genieri americani l’avevano concepito con lungimiranza, facendone la maggiore installazione militare sull’isola, con quattro piste asfaltate e una fligthline capace di accogliere 200 bombardieri.

Da Guam, l’US Air Force poteva raggiungere il Giappone per le missioni di bombardamento strategico e di rifornimento aviotrasportato a favore dei prigionieri di guerra americani. A partire dal 1951, lo Strategic Air Command cominciò le proiezioni periodiche di velivoli, alternandovi un mix di bombardieri B-29, B-36, B-47 e B-50, riforniti dai tanker KB-29, insieme ad altre unità aeree della Far East Air Force.

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Le rotazioni duravano in media 90 giorni. Furono sospese nel 1964, quando i primi B-52 Stratofortress cominciarono a rimpiazzare stabilmente i B-47, accompagnati dai rifornitori KC-135 Stratotanker. Un insieme di velivoli che partecipò subito ai bombardamenti sul Vietnam, durante le operazioni Arc Light e Linebacker II, per poi intervenire in Laos e in Cambogia.

Il controllo della base di Andersen passò nel 1989 dal Comando aereo strategico alle Pacific Air Forces, le cui unità hanno garantito gran parte dei rifornimenti durante le operazioni irachene Desert Shield e Desert Storm, veicolando fra l’agosto 1990 e il febbraio 1991 trentasettemila tonnellate di munizioni. La configurazione attuale della base risale al 1994, perché è dall’ottobre di quell’anno che vi risiede stabilmente il 36th Air Base Wing dell’USAF, ribattezzato 36th Wing il 12 aprile 2006

È il 36th che si preoccupa di accogliere e supportare le unità in rotazione. E negli ultimi anni il lavoro è aumentato, visto che sono transitati da Guam i bombardieri furtivi B-2 del 13th e del 393rd Bomb Squadrons, anche in sinergia con i B-52H e i B-1B Lancer.

La presenza dei B-2 non è stata casuale. La Andersen Air Force Base è infatti una base elitaria, una delle tre, fuori dal territorio continentale statunitense, ad essere dotata di shelter idonei al ricovero di bombardieri stealth.

 

Cosa cambia per i bombardieri strategici

Qualcosa è però cambiato nel ‘concetto operativo della base’, almeno dal 17 aprile dell’anno scorso. Quel giorno, dopo 16 anni di missioni ininterrotte, l’USAF ha chiuso un capitolo della sua storia, mettendo fine alla Continuous Bomber Presence Mission nella base aerea di Andersen.

A Guam, non ci saranno più bombardieri strategici in pianta stabile, rotanti su base semestrale. L’Air Force ha infatti deciso di non schierare più assetti da bombardamento strategico fuori dal territorio continentale statunitense, se non temporaneamente.

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Per mettere i puntini sulle ‘i’, il numero uno dell’Air Force Global Strike Command, generale Timothy Ray, ha subito precisato che: «i bombardieri strategici statunitensi continueranno ad operare nel teatro indo-pacifico, inclusa Guam, secondo le tempistiche e i modi di nostra scelta».

È il nuovo concetto di Dynamic Force Employment, mutuato dalle operazioni multidominio e distribuite, molto più flessibile e versatile del precedente, che prevede un dispiegamento delle forze nei teatri d’interesse in maniera più imprevedibile e dinamica, ricorrendo a rischieramenti ad hoc di breve durata. «Massimizzeremo tutte le opportunità di addestramento con gli alleati e i partner, per accrescere l’interoperabilità e rafforzare la capacità comune a operare in maniera imprevedibile», ha rassicurato il generale Ray.

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Nell’INDOPACOM ma non solo, i bombardieri potranno operare tempestivamente da un «più ampio ventaglio di aerodromi oltremare». Partiranno dalle basi stanziali statunitensi e potranno fare capolino per brevi periodi in basi e siti diversi, dalle Hawaii, a Guam, alle isole di Wake e di Tinian, sempre avendo a cuore la flessibilità e un imperativo categorico, «essere strategicamente prevedibili e operativamente indecifrabili», così da scompaginare i piani di Cina e Russia, complicandone la sorveglianza e il targeting.

 

Il nuovo ruolo strategico di Wake e Tinian

Negli ultimi anni, il Pentagono ha investito centinaia di milioni di dollari per potenziare gli shelter e per ripavimentare, ampliandola, la pista dell’aerodromo di Wake (nelle prime due foto sotto), a ovest di Guam, fra il Giappone e le Hawaii. L’isola sarà un nuovo hub per le operazioni aeree nel Pacifico, un trampolino flessibile.

Fungerà da valvola di sfogo per Guam, di cui sarà una sorta di backup, meno vulnerabile perché non raggiungibile dai missili a raggio medio e intermedio cinesi (e nordcoreani). Sarà una via di transito per il dispiegamento e il supporto di bombardieri pesanti e altri velivoli in rotta verso il Pacifico occidentale. L’atollo ospita una pista lunga 9.800 piedi, idonea alle manovre di decollo e di atterraggio di tutti, o quasi, i velivoli dell’USAF.

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Fra l’altro, viene usato anche per alcuni test di difesa antimissilistica. In caso di guerra, potrà essere fortificato con le batterie autoctone di difesa aerea e con i caccia AEGIS Arleigh Burke, dispiegandoli rapidamente fra il territorio cinese e l’isola. Contro un attacco limitato di missili intercontinentali, godrebbe della protezione esterna dell’ombrello GMD (Gound-based Midcourse Defense), lo scudo di 40 intercettori terrestri basati a Fort Greely, in Alaska.

L’US Strategic Command, intanto, non ha perso un attimo. Ha testato fin dal 2018 le infrastrutture dell’isola, concepita come una base avanzata di riarmo e rifornimento (FARP) per i bombardieri B-2 Spirit, decollati dalla base di Hickam, nelle Hawaii.

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Per sgravare la base di Andersen, rafforzandola con aerodromi secondari di ricovero e backup, il Pentagono ha messo nel mirino anche il rifacimento delle piste, degli shelter e delle zone di rispetto della base aerea dell’isola di Tinian, 100 miglia più a nord di Guam, parte del Commonwealth delle Marianne Settentrionali.

Da Tinian decollarono i due B-29 modificati per il bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki. E sempre da Tinian, nelle fasi finali della guerra, erano partite innumerevoli ondate di bombardieri e ricognitori diretti verso il Giappone ed il Pacifico Occidentale.

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Finita la guerra, le grandi piste parallele dell’aerodromo, gli shelter e le strutture di supporto caddero in rovina. Rimase in piedi un aeroporto secondario molto spartano, aduso a ricevere trasporti tattici come C-130 per voli di addestramento.

Negli anni recenti, il campo di aviazione è stato rimaneggiato, nell’ottica dell’Agile Combat Employment, basato sulla dispersione rapida e la e proiezione effimera di piccole aliquote di potere aereo tattico in ‘aerodromi secondari’, proprio nel teatro del Pacifico. È il nuovo concetto di ‘austere airfield operations’.

Il salto di qualità finora raggiunto non permette ancora di ospitare a Tinian i caccia, i bombardieri e gli altri velivoli da supporto che è usuale incrociare nella base di Andersen. Un altro aerodromo, ubicato al centro dell’isola, è in grado di supportare le manovre dei jet da combattimento, ma è troppo piccolo per qualsiasi altro velivolo e per accogliere molti velivoli.

Per un certo periodo ha ospitato sistemi di arresto per velivoli supersonici in addestramento. I Marines ci si sono proiettati in più occasioni con i loro F/A-18 Hornet. Anche l’USAF vi ha bazzicato di recente con gli F-15 per le manovre addestrative del tipo ‘austere operations’.

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Tutti però ne sono ripartiti con un’unica certezza: l’isola così com’è non ha ancora le infrastrutture per supportare operazioni aeree a lungo termine. Un guaio in caso di conflitto prolungato con la Cina.

I comandi statunitensi sono convinti che, in caso di guerra, Pechino colpirebbe in prima battuta le infrastrutture vitali di Okinawa e di Guam. Ecco perché gli aerodromi di backup sarebbero essenziali. Ed ecco perché il Pentagono sta accelerando nel progetto di realizzare una infrastruttura operativa ad ampio spettro a Tinian.

L’idea è quella di rendere l’isola un centro di ricovero e di rilancio di formazioni di velivoli ‘in fuga’ da Guam e di farvi partire operazioni di combattimento, se mai la base di Andersen fosse messa fuori gioco, anche temporaneamente, da un raid nemico o da una catastrofe naturale.

Intorno alle infrastrutture aeree dovrebbero sorgere altri edifici per ospitare personale militare e accogliere materiali e mezzi per imbastire operazioni più robuste.

L’iniziativa partirà da un contratto di affitto quarantennale firmato nel 2019 e si snoderà intorno al Tinian International Airport e alla sua pista da 8.500 piedi, in via di espansione. Le infrastrutture dovranno supportare almeno 12 tanker e tutto il personale necessario alle operazioni di ‘backup’. Una volta ultimata, la base ospiterà esercitazioni annuali di 8 settimane.

 

Un futuro per Guam

Nel salutare Guam, lo scorso aprile, i 5 B-52H dell’isola hanno inscenato una ‘elephant walk’, per mostrare la potenza di combattimento del Comando Aereo Strategico. Sfilavano con loro, sei tanker KC-135, un elicottero MH-60S Knigthawk, un RQ-4 Global Hawk e un MQ-4C Triton. Più che un commiato era un arrivederci, perché Guam, da vera sentinella del Pacifico è assurta ormai al rango strategico.

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E lo sarà ancor più dopo il pivot verso l’Oceano Pacifico galvanizzato dall’era Obama in poi. Con una piccola precisazione storica. L’US Navy incrocia stabilmente nel Pacifico dalla seconda metà del 19° secolo.

Ha sempre considerato l’immensità di questo spazio fluido intrinsecamente legato alla sua sicurezza.

Basti pensare che le isole Aleuitine, le Hawaii e le Samoa sono solo la prima linea di difesa della costa occidentale americana, e che dalla fine della seconda guerra mondiale e della guerra di Corea, Washington dispone, in un continuum storico con la logica del containment, di basi permanenti alle frontiere di quel che resta del mondo comunista asiatico, con avamposti qui, a Guam, in Corea del Sud e in Giappone.

La sua supremazia nello spazio Indo-Pacifico è una sfida colossale dai mille risvolti geopolitici dopo l’emergere della Cina e delle sue logiche espansive e di anti-accesso/diniego d’area, che contengono in nuce una futura capacità di rivaleggiare con la marina americana in tutta la regione. L’A2/AD cinese comincia a preoccupare l’US Navy e l’USAF, per la vulnerabilità delle basi nella regione, cinque essendo sotto la minaccia diretta dei missili cinesi, fra cui Guam.

La risposta statunitense sta passando per il pivot e per una sommatoria di tre concetti. Militarmente, è già sotto gli occhi di tutti che il 60% della flotta di sottomarini lanciamissili balistici SSBN, che garantiscono l’essenziale della dissuasione nucleare, è ormai assegnato alla base di Kitsap, nel Puget Sound.

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Negli anni ’80, erano il 15%. Tutti i jet FA-18C/D della base californiana di Leemore sono stati rimpiazzati da cacciabombardieri FA-18E/F Super Hornet. Senza parlare delle strutture di contenimento geopolitico, che passano dal partenariato militare con l’India al dialogo strategico Quad, per continuare con le rotazioni dei marines a Darwin, con il nuovo corso con il Vietnam e con il potenziamento delle pattuglie per ribadire la libertà di navigazione nel mar Cinese meridionale (FONOPS).

Dal 2014, mezzo miliardo di dollari stanno permettendo di potenziare la base aerea di Andersen a Guam e i porti in acque profonde di Apra Harbor. Stanno nascendo nuove infrastrutture per ospitare altri marines, che vedranno il contingente lievitare da qui a metà 2021.

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Per avere un ordine di idee, l’isola ospita usualmente bombardieri strategici a capacità nucleare, sommergibili e navi di superficie della 7a flotta. Siamo a 3.400 km da Pyongyang, lungo un asse di difesa che corre da qui e passa per Yokosuka e Sasebo, l’antemurale eretto dagli americani per proteggere la Corea del Sud, il Giappone e Taiwan, da sempre nel mirino della Cina. Il tutto forma una piattaforma logistico-militare che ha le retrovie nell’Oceano Indiano (Diego Garcia) e nelle Hawai.

Ma come nasce l’idea di fortificare Guam con assetti strategici e mantenervi non meno di 5.900 uomini, su una popolazione di appena 162mila abitanti? La base gioca un ruolo chiave fin dagli anni Cinquanta, quando il Consiglio di sicurezza nazionale, a Washington, ha optato per una rete mondiale di installazioni aeree e navali.

Un atout chiave per la proiezione di potenza a stelle e strisce, longa manus di una politica estera fattasi ormai globale. Nella guerra fredda si trattava di garantire una risposta militare repentina in caso di conflitto con l’URSS. Oggi le basi dell’area hanno una funzione anti Corea del Nord e soprattutto anti-Cina.

La marina di Pechino si spinge ormai nelle blue water, fino a lambire le prossimità di Guam stessa, sentinella molto armata su un crocevia fitto di cavi sottomarini, nerbo delle reti di comunicazione delle forze armate americane e non solo. Ecco perché la prima linea di difesa passa oggi per il potenziamento della resilienza delle basi nella regione, indurendo le installazioni, adottando sistemi di ripristino repentino delle piste di aviazione e proiettando sistemi di difesa antimissilistica di ultima generazione del tipo THAAD.

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Sta spuntando una rete di siti di dispersione secondaria per gli aeromobili, così da moltiplicare gli obiettivi potenziali per la Cina e poter incassare un primo attacco preservando i mezzi di azione, senza esporre le basi ad alto valore aggiunto come Guam stessa o Pearl Harbor.

Qualcosa che sembra abbastanza chimerico, viste le scelte cinesi in materia di armamento. E qui è meglio fare due calcoli. Tenuto conto della portata dei missili da crociera aviolanciati KD-20, dei cacciabombardieri Su-30MKK e dei bombardieri H-6K, potremmo ipotizzare che, in tempo di guerra, un gruppo aereo cinese composto da un AWACS KJ-2000, sei caccia di scorta Su-30MKK, sei o più bombardieri H-6K e tre tanker IL-78, ciascuno capace di rifornire almeno 3 Su-30 fino al punto di sgancio dei bombardieri, permetterebbe di sparare fino a 36 missili da crociera su Guam (6×6), penetrando nel Pacifico occidentale dallo stretto di Bashi, una delle vie d’accesso dalla Cina continentale all’Oceano.

Ampio 185 km, lo Stretto rappresenta una delle tre vie navigabili internazionali ubicate fra le isole di Taiwan a nord e di Luzon nelle Filippine a sud. Bashi segna il crocevia fra il mar Cinese meridionale a ovest e il mar delle Filippine a est. Gli SSBN cinesi Type 09IV vi transitano regolarmente per penetrare nel Pacifico occidentale e fare pattuglie di dissuasione strategica nei confronti degli Stati Uniti.

La deterrenza e la portata della sfida cinese è ancora meno sfuggente nello spazio aereo. Dal 2013 ad oggi, Pechino ha violato la zona di identificazione e di difesa aerea nipponica, sudcoreana e taiwanese più di 4.400 volte.

Poco tempo fa, il ministero della difesa Taipei, ha comunicato che una squadriglia di H-6, Y-8, Tu-154, IL-78 e Su-30 ha sorvolato lo stretto di Bashi, in piena mattinata, per condurre una manovra di «addestramento in volo in alto mare e di lunga durata varcando la catena di isole» a ovest del Pacifico. Il numero esatto dei velivoli non è stato precisato, ma la composizione ricorda da vicino la flotta cinese che ha sorvolato lo stretto di Miyako, a nord di Taiwan, nel novembre del 2016. E la crisi si è intensificata ancora in giugno.

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Un duplice segnale rivolto a chi abbia orecchie per intendere. Una squadriglia così composta, con velivoli ELINT (Tu-154), bombardieri pesanti, tanker e scorta, indica la volontà probabile di simulare uno strike a lunga distanza sferrato dagli H-6K, con la scorta di intelligence elettronica e i caccia pesanti, con un obiettivo che è chiaramente Guam  e non certo Taiwan.

Gli americani non nascondono i timori e stanno battendo la strada dell’incremento del raggio d’azione dei mezzi aerei, per operare a maggior distanza. Tenuto conto delle rotte del Pacifico, i jet tattici, dal raggio d’azione limitato richiedono la presenza contemporanea di avio-cisterne e di AWACS.

Ma questi ultimi, minacciati dalle batterie antiaeree cinesi S-300/S-400 ed S-500, potrebbero essere costretti a operare non oltre i 500 km di prossimità dalle coste cinesi, al di là di Taiwan.

Un grave limite alle missioni di superiorità aerea. L’USAF sta lavorando all’elaborazione di un nuovo concetto di operazioni per ampliare il raggio d’azione degli F-35 e degli F-22, invero non più prioritari per l’aviazione a stelle e strisce e destinati a un pensionamento anticipato non appena pronto il caccia da superiorità aerea del programma NGAD (Next Generation Air Dominance).

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Nel breve periodo, la forza aerea statunitense ha comunque riesumato il concetto di Rapid Raptor, che garantisce al binomio F-22/C-17 (nelle foto sopra e sotto)  di poter compiere le missioni, atterrare su una base di dispersione, essere rapidamente riforniti e adibiti a nuove missioni con il cambio dell’equipaggio dei caccia grazie alle equipe su C-17, e poi ripartire prontamente in missione, limitando il tempo di sosta a terra e la vulnerabilità.

Un CONOPS sicuramente allettante, ma che non tiene conto del fatto che l’USAF dispone di appena 78 F-22 nella zona del comando INDOPACOM, nonostante lo show of force recente e che un simile impiego dei C-17  imiterebbe i mezzi da trasporto disponibili in caso di escalation.

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Quanto agli F-35, afflitti da un problema di raggio d’azione, le riserve conformali proposte per alcune missioni ne allungherebbero la portata, a discapito della furtività, ma al costo di una minor usura del motore. E venendo al bombardamento strategico, l’USAF non dispone oggi che di 16 B-2 operativi, unici aerei in grado di penetrare i sistemi di difesa avanzata cinesi, in attesa dei nuovi bombardieri strategici Raider, pronti intorno al 2025-2030.

 

La minaccia missilistica

Chi minaccia maggiormente Guam? Pechino o Pyongyang? Che la Corea del Nord sia in grado di colpire l’isola con missili a raggio intermedio Hwasong-12 e, presto, Musudan (nella foto sotto)è cosa da prendere molto sul serio, nonostante i tentativi di disgelo.

La minaccia è limitata ma credibile. Guam certamente ha molte linee di difesa. Ci sono a proteggerla gli scudi a energia cinetica del THAAD, operati dall’Alpha Battery del 4th Air Defense Artillery Regiment, sull’isola dal 2013, e i cacciatorpediniere sudcoreani e giapponesi Kongo e Atago, dediti alla protezione antibalistica. Il THAAD è l’ultimo anello. Fornisce un ombrello, aperto a 120°, contro i missili balistici di gittata intermedia, intercettandoli in fase terminale.

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Non ha testa bellica, ma un funzionamento imperniato sull’energia cinetica, che in caso di impatto contro un missile nucleare non innescherebbe un’esplosione. Le sue batterie possono intercettare anche missili che seguano una traiettoria con un rientro in picchiata, molto più rapidi nella fase del volo terminale a bassa quota e molto più ardui da abbattere. Pyongyang li sta affinando e sta studiando sistemi elusivi degli scudi.

Ma la vera preoccupazione sono i missili cinesi, soprattutto quando si parla del DF-26, dalla portata stimata in 4.000 km minimo, e che si declina anche in una variante antinave. Il DF-26 può raggiungere Guam, la quasi totalità dell’India, incluso il golfo del Bengala e lo stretto di Malacca, molto probabilmente Darwin e la costa settentrionale dell’Australia. Proprio l’area di gravitazione operativa dell’INDOPACOM. I cinesi stanno potenziando i siti di lancio.

Le immagini satellitari dimostrano che lavori di costruzione di una nuova base militare sono partiti a fine 2016 vicino alla città di Danzhou, nel nord-ovest dell’isola di Hainan. Immagini più recenti, risalenti al marzo 2017, rivelano la presenza di numerose infrastrutture, fra caserme, uffici amministrativi e di formazione, campi di addestramento fisico e grandi hangar chiusi, ripartiti su un’area di mezzo chilometro quadrato, che potrebbe ospitare più di 1.000 uomini.

Un sito che corrisponde verosimilmente a quello di una nuova brigata, parte della «Base no 62», ex 53sima Base, menzionate in alcuni rapporti dell’intelligence statunitense. Non paga, Pechino sta rafforzando la Rocket Force con mezzi convenzionali e nucleari per poter colpire con grande precisione obiettivi americani situati fino a «Guam», derivandoli dal missile balistico antinave DF-21D e dal missile a lungo raggio DF-26, capace di colpire bersagli fissi al suolo o mobili in mare.

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L’insieme è completato da una panoplia crescente di missili da crociera di ogni genere oltre che da due nuovi missili balistici aerotrasportati, di cui uno armato con una testata nucleare. Sviluppi recenti, che si accompagnano a quelli di una nuova piattaforma aerea, l’H-6N capace di trasportare un missile balistico antinave a medio raggio.

Un volo inaugurale del bombardiere, derivato dall’H-6K e rifornibile in volo, è avvenuto nel dicembre 2016, seguito dalla presentazione ufficiale alla parata del 1° ottobre 2019 e dalle innumerevoli esercitazioni successive. Ignorando la designazione ufficiale dei missili ipersonici associati, i servizi di informazione americani hanno ribattezzato uno dei due sistemi aerotrasportati come «CH-AS-X-13», dove AS starebbe per Anti-Ship, antinave, stimandone la portata in circa 3.000 km. Secondo fonti del governo statunitense, citate da Ankit Panda sul (The) Diplomat, il nuovo missile sarebbe già stato testato cinque volte.

Il primo lancio sperimentale avrebbe avuto luogo nel dicembre 2016 e l’ultimo un giorno della quarta settimana di gennaio 2018. Come nel caso del russo Kinzhal, il cui sviluppo è basato sul missile balistico terra-terra a corto raggio 9M723, perno del sistema 9K720 Iskander, si stima che gli ingegneri del colosso missilistico cinese CASIC abbiano adottato la stessa linea concettuale, per ridurre il ciclo di sviluppo.

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E allora il CH-AS-X-13 dovrebbe esser basato sul missile balistico a medio raggio DF-21, o meglio sull’AShBM DF-21D, sempre che la vocazione del nuovo missile sia quella di bombardare grossi obiettivi navali in mare.

Date le dimensioni imponenti del DF-21D, che misura 1,4 metri di diametro e 10,7 metri di lunghezza nella versione terrestre, non sorprende che i cinesi abbiano bisogno di una piattaforma aerea strategica, ben più corposa del MiG-31K russo.

Quanto alla portata stimata in 3.000 km, contro la metà per il DF-21D, la cosa è del tutto plausibile visto che la gittata annunciata del Kinzhal è stata quadruplicata rispetto all’‘omologo’ terra-terra. L’impiego operativo del missile avrebbe anzitutto una funzione antinave, in primis anti-portaerei, vera e propria ossessione dei cinesi negli ultimi trent’anni.

Il missile servirebbe ad ampliare la panoplia delle armi anti-portaerei esistenti, duplicando il concetto di DF-21D terra-mare e di DF-26 a lungo raggio, garantendo una dimensione stratificata e maggior versatilità al sistema globale A2/AD (Anti-Access/Area Denial) cinese.

Fino a poco tempo fa, l’esistenza del CH-AS-X-13 era oggetto di speculazioni e voci di corridoio. Ma le immagini diffuse il 17 ottobre da alcuni canali social tenderebbero a dimostrare che l’aviazione dispone realmente dell’arma anti-nave per antonomasia, che colpirebbe a 3.000 km di distanza e che potrebbe essere dotata di un aliante ipersonico manovrante per gabbare i sistemi antimissilistici. In un video diffuso su Twitter, si vede un bombardiere H-6N in fase di atterraggio, probabilmente nella regione di Neijiang.

Le riprese permettono di individuare sotto la fusoliera del jet un missile, dal profilo simile a quello di un missile ipersonico DF-17, il cui funzionamento è simile all’Avangard russo.

La pubblicazione del video non è stata casuale. Cade in un momento in cui le tensioni nella regione Indo-Pacifico sono crescenti. In agosto, L’Esercito popolare di liberazione ha testato i missili DF-21D e DF-26B: «è la risposta della Cina ai rischi potenziali che emergono dall’invio sempre più frequente di aerei e navi militari americani nel mar Cinese meridionale», aveva commentato una fonte militare sulle colonne del South China Morning Post.

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A settembre, Pechino ha rincarato la dose, con un video minatorio, l’ennesimo, in cui si ritraggono bombardieri H-6K che simulano un attacco contro una base assai simile a quella di Guam: «siamo i difensori della sicurezza aerea della patria.

Abbiamo la missione e la capacità di difendere la sicurezza del cielo della patria, sempre», aveva chiosato un ufficiale dell’Esercito popolare. Gli H-6K sono armabili con sei missili da crociera a lungo raggio KD-20, montabili su piloni esterni, con cruise KD-63 e con missili antinave YJ-12.

I progressi missilistici cinesi potrebbero inficiare il valore delle basi americane proiettate nell’Oceano? L’ammiraglio Phil Davidson, numero uno dell’INDOPACOM, è perplesso: «secondo me Guam non è più il riparo sicuro da cui poter lanciare delle operazioni, come si è ritenuto per decenni. D’ora innanzi dovremmo batterci per Guam, per poter continuare a operarvi».

L’area di operatività del missile CH-AS-X-13 avrebbe una triplice direzione oceanica, verso il Pacifico, con Guam e le Hawaii nel mirino, verso il mar Cinese meridionale e forse verso l’Oceano Indiano.

Armato dei CH-AS-X-13, il bombardiere H-6N potrebbe colpire obiettivi lontani più di 9.500 km dalla piattaforma continentale cinese. E la stima è ‘a minima’, visto che, secondo il magazine Kanwa, i 3 tanker Il-78MP ne ampliano il raggio d’azione a 6.500-7.000 chilometri.

 

La difesa antimissile di Guam

Una minaccia che ha allarmato l’ammiraglio Davidson che il 21 luglio 2020, ha dichiarato: «entro il 2026 voglio un’installazione Aegis Ashore Baseline 10 a Guam», per garantire una protezione antimissilistica più efficace alle infrastrutture dell’isola.

Il Baseline 10 alzerebbe uno scudo a 360°, ergendosi come il perno dei network difensivi regionali. I suoi radar SPY-6 si interfaccerebbero sia con quelli delle batterie THAAD, sia con quelle dei Patriot a più corto raggio. Per l’Ammiraglio non c’è scelta: «il sistema difensivo odierno non consente all’isola di contrastare un attacco missilistico cinese».

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Pechino sta insidiando le Marianne settentrionali e Guam con crociere navali di superficie e sottomarine, esponendo le basi ad attacchi multipli, con missili balistici, missili cruise e missili antinave.

Ai comandi americani non è sfuggito che, a inizio 2020, la Marina cinese ha compiuto un salto di qualità con le quinte esercitazioni della serie Zhanlan, dedicate al combattimento navale in alto mare.

Più che sulle operazioni cinetiche il focus era sul supporto al combattimento. La lezione principale è che i cinesi stanno crescendo nell’abilità di sostenere offensive limitate contro avversari del calibro degli Stati Uniti, ben oltre la prima catena di isole, forse fino a lambire le Hawaii.

In tempo di guerra, potrebbero operare a due passi dalle infrastrutture e dalle basi portuali statunitensi, perché stanno progredendo nelle operazioni interforze, nel damage control e nella stima del danno, nella logistica e nell’intelligence.

Potrebbero presto includere la missione di strike in profondità e in alto mare fra i concetti operativi della Marina. L’INDOPACOM non chiede fondi per un sistema invulnerabile o impenetrabile a un qualsivoglia arsenale missilistico avversario. Sta solo facendo pressioni sul Congresso per uno scudo che da 120° si allarghi a 360° e stima il costo dell’operazione a 1,6 miliardi di dollari, impiegando una tecnologia oggi esistente.

«Non possiamo aspettare il rimedio perfetto nel 2035-2040. Siamo in emergenza adesso», ha specificato l’ammiraglio (nella foto sotto).

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Il programma, ora noto come Guam Defense System, rientra nell’ambito della nascente Pacific Deterrence Initiative, una strategia che riceverà fondi pari a 5,1 miliardi dollari nel budget 2022 e che pare disegnata come alter ego di quella europea antirussa. Una singola batteria farebbe il lavoro di tre cacciatorpediniere Arleigh Burke, se non più, in caso di guerra.

Si tratta di assetti preziosi, che sarebbero «liberati per altre missioni», ha osservato Davidson. Non tutti però convengono con l’opportunità di schierare sistemi antibalistici terrestri Aegis a Guam. Timothy A. Walton e Bryan Clark ritengono che andrebbe tenuta a mente la lezione giapponese. Tokio ha declassato come scarsamente praticabile e anti-economica l’idea dell’Aegis Ashore.

Il sistema ha moltissimi pregi, ma presenta anche alcune limitazioni. È concepito per intercettare un numero ridotto di missili balistici e, come se non bastasse, il suo radar e il suo magazzino missili sono fissi, vulnerabili ad un attacco. Gli autori suggeriscono una via alternativa.

Piuttosto che installare uno o più sistemi Aegis Ashore, si punti invece su un’architettura che combini l’ultima versione del sistema di combattimento Aegis con un sistema diffuso di sensori, effettori e nodi di comando e controllo esistenti.

Sarebbe un ordito modulabile, regolabile e scalabile. Permetterebbe di proteggere al contempo le forze e i cittadini statunitensi delle Marianne settentrionali.

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La geografia di Guam facilita peraltro la disseminazione di sensori a lungo raggio plurimi, fissi, mobili e a radiofrequenza, posizionabili intorno al perimetro dell’isola, siano essi versioni compatte del radar SPY-6 o del Lower Tier Air and Missile Sensor o ancora del sistema passivo dell’esercito Army Long Range Persistent Surveillance.

In caso di escalation, potrebbero essere proiettati immediatamente sensori a radio frequenza attivi e passivi, aggiunti a piattaforme elettro-ottiche e infrarosse a bordo di UAS o palloni stratosferici per monitorare le minacce over-the-horizon.

Sarebbe un’architettura mista e pluristratificata che fornirebbe una migliore copertura d’insieme e una migliore resistenza agli attacchi rispetto a uno o due siti fissi di Aegis.

Per abbattere i missili e i bombardieri nemici, il sistema difensivo disporrebbe di lanciatori mobili containerizzati per intercettori a lungo raggio SM-6 ed SM-3 Block IIA, che dovrebbero essere affiancati da sistemi erti a difesa di obiettivi ad alto valore aggiunto, e basati su lanciatori a medio e corto raggio come i Patriot, i National Advanced Surface-to-Air Missile System (NASAMS) e il futuro meta-sistema dell’esercito Indirect Fire Protection Capability.

Il tutto sarebbe potenziato da sistemi non cinetici a microonde ad alta potenza e da dispositivi da guerra elettronica  per danneggiare e ingannare i sistemi di guida dei missili in arrivo.

 

Le basi di Guam oggi

Come abbiamo detto, la Andersen AFB (Air Force Base) è sede del 36th Wing, composto dal 36th Operations Group, dal 36th Mission Support Group, dal 36th Medical Group, dal 36th Maintenance Group e dal 36th Contingency Response la cui missione numero uno è sostenere la proiezione delle forze aeree a livello globale, in primis dei B-1B, dei B-2, dei B-52H e dei caccia di scorta.

Fino a poco tempo fa, sei B-52H erano presenti a rotazione, similmente a quattro KC-135 e a diversi Global Hawk. Fra le altre unità permanenti figurano ancora il Detachment 1 del 69th Reconnaissance Group, il 734th Air Mobility Squadron, il Detachment 5 del 22nd Space Operations Squadron, e lo squadrone di elicotteri HSC-25 Island Knights dell’US Navy.

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Il Detachment 1 ci interessa particolarmente. Ha per missione principale l’intelligence, la sorveglianza e la ricognizione aerea. Opera infatti i droni RQ-4 Global Hawk Block 30, unici velivoli stanziati in permanenza alla Andersen AFB, che insieme a quelli dispiegati in altre basi nel Pacifico garantiscono al Combatant Commander una capacità ISR persistente sull’insieme del teatro di azione dell’INDOPACOM.

La funzione IMINT (Image Intelligence) è alimentata anche dalle ricognizioni dell’Air Force Satellite Control Network, una cui unità, stazionata a Guam, abbiamo indicato prima come Det 5 Guam Tracking Station del 22nd Space Operations Squadron.

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Parliamo di un assetto prezioso dell’USAF, inquadrato nel 50th Network Operations Group del 50th Space Wing di Schriever, una base aerea nel Colorado. Fra i compiti del Det 5 figurano ovviamente la sorveglianza dei satelliti e la preservazione delle loro capacità, ma anche il supporto e il coordinamento delle operazioni di lancio e orbitali del Pentagono e dei satelliti delle agenzie governative ausiliari alle operazioni combat e alle missioni della NASA.

Non si dimentichi che la Andersen AFB è uno dei pochi luoghi al mondo in cui possono atterrare le navette spaziali.

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L’appoggio alla mobilità rientra fra i compiti chiave, subito dopo il bombardamento strategico. La missione è garantita dal 734th Air Mobility Squadron, unità che dipende dal 715th Air Mobility Operations Group della Hickam AFB, alle Hawaii sulla Joint Base Pearl Harbor/Hickam.

Il 734th è diventato molto più operativo a partire dal marzo 2001, quando ancora si chiamava 634th AMSS. Deve oggi fornire un supporto di comando e una capacità di manutenzione alle unità dell’Air Mobility Command, non solo a Guam ma sui teatri operativi in cui sia proiettabile il personale.

Ecco perché le sue funzioni sono sussidiate dal 624th Regional Support Group. Più ‘scolastico’ è il compito del 497th Air Training Squadron, incaricato di organizzare e inquadrare le missioni di addestramento che si svolgono a partire da Guam.

 

La Guam National Guard

Visto lo statuto di territorio non incorporato, la protezione dell’isola richiede una forza peculiare. la Guam National Guard, che include un elemento terrestre, ovvero la Guam Army National Guard, e un elemento aereo, la Guam Air National Guard, di cui il 254th Air Base Group rappresenta la componente operativa. In poche parole parliamo di una milizia territoriale, non afferente alla catena di comando usuale dell’US Air Force, inquadrata nella giurisdizione del governatore dell’isola tramite l’ufficio dell’aiutante generale di Guam.

Forte di 450 uomini, il 254th è considerato come un’unità della componente di riserva aerea dell’USAF e infatti l’Air Reserve Component lo addestra e lo equipaggia. L’insieme della forza di protezione può essere inquadrato, meglio “federalizzato”, su ordine del presidente degli Stati Uniti.

In tal caso passerebbe sotto il comando di un maggior generale dell’aviazione. Il 254th si occupa anche delle rilevazioni meteo, del sostegno alla pianificazione, del coordinamento e del controllo della ricognizione aerea, del Close Air Support e del trasporto aereo tattico.

 

La base navale 

Quanto all’US Navy, la Naval Base Guam di Apra Harbor (nella foto sotto) ospita il Commander Submarine Squadron 15 della VII Flotta, il Coast Guard Sector Guam e la Naval Special Warfare Unit One (NSWU-1), oltre a supportare una ventina di comandi. Le unità attualmente in forza al 15° squadrone di sottomarini sono 3 sommergibili nucleari classe Los Angeles, l’USS Key West (SSN 722), l’USS Oklahoma City (SSN 723) e l’USS Asheville (SSN 758). A sua volta, la NSWU-1 appartiene, con la NSWU-3 di stanza in Bahrein, al Naval Special Warfare Group 1, una delle unità più imponenti del Naval Special Warfare Command dei SEAL.

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Ogni NSWU è un elemento di comando basato fuori dal territorio degli Stati Uniti, operante a vantaggio delle unità del NSWC dispiegate in seno allo Special Operations Command regionale o in seno a una Combined Joint Special Operation Task Force assegnata a un’operazione.

Ricordiamo che lo spettro operativo dei SEAL Teams include la ricognizione speciale, l’azione diretta, la guerriglia, il mentoring e la Foreign internal defence, le missioni Visit, Board, Search & Seizure, l’infiltrazione sottomarina preliminare alla ricognizione di spiagge da sbarco, la distruzione di edifici e installazioni navali e le missioni di sniping. I SEAL possono essere ingaggiati in sinergia con truppe convenzionali come i Marines.

A Guam l’US Navy opera stabilmente dal 1995 anche uno squadrone di elicotteri: l’HSC-25 Island Knights, che dal 21 aprile 2005 è stato riconvertito sugli MH-60S Seahawk. Parliamo dell’unica unità di elicotteri dell’US Navy proiettata in permanenza oltremare, che si occupa del trasporto logistico eliportato ed è armata da 80 ufficiali e quattro sottufficiali, con tanto di 14 Seahawk.

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Oltre a rifornire le navi dell’US Navy sui teatri di operazioni, l’HSC-25 garantisce continuità alle missioni di ricerca e salvataggio e di evacuazione sanitaria d’urgenza sia sulla zona di Guam sia sulle Marianne settentrionali. Ha partecipato a tutte le operazioni più recenti, fra cui menzioniamo quelle in Iraq e in Afghanistan, da Southern Watch a United Shield, passando per la Unified Assistance, Enduring Freedom e Iraqi Freedom.

 

I Marines a Guam

Entrambe le basi di Guam sono interessate dal piano di ristrutturazione delle forze statunitensi in Giappone, soprattutto per quanto riguarda le forze aeree. Nel 2011, il comitato del Senato per le forze armate aveva proposto che i caccia ubicati a Futenma prendessero il posto degli squadroni stazionati alla Kadena AFB, e questi ultimi passassero stabilmente alla Andersen AFB.

Una proposta allora caduta nel vuoto. Sta di fatto che l’accordo fra gli USA e il Giappone risalente al 2006 prevede che almeno i 5.000 Marines della III Marine Expeditionary Force di stanza a Okinawa siano riassegnati a Guam.

La base che li accoglierà sarà inaugurata in primavera, ma è già ultimata da fine settembre. È stata costruita con fondi giapponesi, pari a 3,1 miliardi di dollari, mentre il DoD sta garantendo la logistica con 8,6 miliardi. La nuova ‘casa’ dei marines è intitolata al brigadier generale Vicente Tomas ‘Ben’ Garrido Blaz, il primo marine di etnia Chamorro a raggiungere quel grado gerarchico.

Blaz era nato a Guam il 14 febbraio 1928. Entrato nei Marines nel 1951, combatté in Vietnam, guadagnandosi sul campo la Legion of Merit, la Stella di Bronzo con una ‘V’ per il valore dimostrato in combattimento e la Vietnamese Cross of Gallantry. Una volta congedatosi, Blaz servì Guam come delegato alla Camera dei Rappresentanti dal 1984 al 1992. Il suo nome e la sua opera testimoniano del legame fra il Corpo e l’isola, suggellato proprio da Camp Blaz.

La nuova base, la prima ad essere inaugurata dai Marines dal 1952 ad oggi, è agli ordini del colonnello Bradley M. Magrath. Si compone di infrastrutture che includono poligoni di addestramento interarma, per l’organizzazione di manovre anfibie e aeroterrestri, compresi spazi per accogliere un Air Combat Element di MV-22B Osprey, con mezzi completi di manutenzione e pulizia anticorrosione.

Il ridispiegamento degli uomini da Okinawa a Guam ha sollevato tuttavia un mare di polemiche. L’ex comandante del Corpo, generale Robert Neller, si è chiesto se fosse una buona idea sguarnire la linea del fronte proprio ora che il Corpo dei Marines si prepara a un confronto potenziale con la Cina. Il Generale teme che gli uomini, a Guam, manchino degli assetti da trasporto strategico necessari a raggiungere i teatri d’impiego.

Ma nei piani della Marina ci sono già 20-26 unità anfibie leggere, capaci di trasportare non meno di 75 Marines ciascuna su distanze di 3.500 miglia minimo.

 

I droni di Guam

Come anticipato in apertura, tutte le infrastrutture militari dell’isola saranno rafforzate per accrescerne la resistenza non solo di fronte a eventuali attacchi nemici, ma anche per difendersi dagli eventi sismici e dai tifoni tipici delle Marianne e di Guam. Come se non bastasse, l’isola sarà un centro nodale del sistema di controllo e controllo interforze pluridominio JADC2. Anche le novità tanto attese per l’US Navy sono ormai realtà.

200112-F-SX156-1006rANDERSEN AIR FORCE BASE, Guam (Jan. 12, 2020) An MQ-4C Triton unmanned aircraft system (UAS) taxis after landing at Andersen Air Force Base for a deployment as part of an early operational capability (EOC) to further develop the concept of operations and fleet learning associated with operating a high-altitude, long-endurance system in the maritime domain. Unmanned Patrol Squadron (VUP) 19, the first Triton UAS squadron, will operate and maintain two aircraft in Guam under Commander, Task Force (CTF) 72, the U.S. Navy's lead for patrol, reconnaissance and surveillance forces in U.S. 7th Fleet. (U.S. Air Force photo by Senior Airman Ryan Brooks)

Dal 2014 erano in costruzione due hangar per accogliere gli UAS da sorveglianza strategica MQ-4C Triton Broad Area Maritime System. Completate le infrastrutture, i velivoli sarebbero dovuti arrivare a fine 2018 ma, complice un incidente in fase di test operativo in California, nel settembre di quell’anno, la cosa è slittata a gennaio 2020.

Tre mesi dopo, una coppia di Triton è stata integrata nelle operazioni della flotta e nei voli di routine della Marina, in tutto il dominio operativo dell’INDOPACOM.

Gioiello su cui l’US Navy fa molto affidamento, il Triton è la variante navalizzata dell’RQ-4 GLOBAL HAWK, declinata appositamente per la sorveglianza marittima. Vola continuativamente per più di 24 ore, incrociando ad oltre 10 miglia di quota e coprendo un raggio utile di più di 8.200 miglia, fornendo intelligence marittima, capacità di sorveglianza e abilità di ricognizione che si sposano perfettamente con la duttilità dei pattugliatori classici.

I due Triton di Guam, che a termine saranno quattro, sono inquadrati nell’Unmanned Patrol Squadron 19, il primo del genere della Marina, e supportano direttamente la Commander Task Force 72, incaricata di «pattugliare e sorvegliare» l’area di responsabilità della 7a Flotta.

I nuovi arrivati stanno già dando soddisfazioni. «Volando in formazione serrata con più di una dozzina di piattaforme pilotate, un Triton decollato dalla base aerea di Andersen ha fornito una capacità operativa precoce, grazie alla quale è stato possibile elaborare un successivo concetto di operazioni» e consolidare l’integrazione tra la flotta e un sistema a lungo raggio e alta quota di tangenza, inedito negli scenari marittimi.

I sensori e i radar di bordo del Triton possono setacciare il mare, individuando e seguendo navi nemiche, possono tracciare i bersagli con sistemi di identificazione automatica, redistribuendo le informazioni alle basi terrestri, navali o alle piattaforme aeree vicine.

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Non tutto l’ecosistema Triton è basato fisicamente a Guam. Il ‘Big Red’ squadron, composto da 300 uomini, è policentrico. Un gruppo di ‘equipaggi e manutentori’ dell’Unmanned Patrol Squadron VUP-19 è di stanza nell’isola, ma gli ufficiali e gli operatori di missione sono acquartierati alla Naval Air Station Jacksonville, la casa madre del VUP-19, e un distaccamento permanente, inclusivo di tecnici specializzati in manutenzioni, è di casa alla Naval Air Station Point Mugu, in California.

 

Conclusioni

Man mano che si ridisegnano gli equilibri geostrategici e il dispositivo americano nella regione, il ruolo di Guam rimane sempre centrale.

L’USAF ha scelto l’isola, lo scorso febbraio per la prima esercitazione dinamica degli F-35A nel Pacifico, nell’ambito del concetto di ‘austere airfield operations’.

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Quattro JSF, unitamente a una pattuglia di F-16, e ad assetti giapponesi si sono addestrati da un aerodromo secondario nel nordovest di Guam, per un’esercitazione della serie ACE (Agile Combat Employment).

La pista è stata allungata e dotata di un sistema di arresto d’emergenza, per supportare, almeno temporaneamente, le manovre degli F-35. Il futuro è appena cominciato e potrebbe riservare sorprese, con lo schieramento venturo sull’isola delle batterie di missili ipersonici a raggio intermedio Long-Range Hypersonic Weapons, che potrebbero essere chiamate a contrastare un assalto anfibio della Cina contro Taiwan.

Foto: US DoD, Ministero Difesa di Taiwan, PLA, KCNA e Raytheon

 

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Francesco PalmasVedi tutti gli articoli

Nato a Cagliari, dove ha seguito gli studi classici e universitari, si è trasferito a Roma per frequentare come civile il 6° Corso Superiore di Stato Maggiore Interforze. Analista militare indipendente, scrive attualmente per Panorama Difesa, Informazioni della Difesa e il quotidiano Avvenire. Ha collaborato con Rivista Militare, Rivista Marittima, Rivista Aeronautica, Rivista della Guardia di Finanza, Storia Militare, Storia&Battaglie, Tecnologia&Difesa, Raid, Affari Esteri e Rivista di Studi Politici Internazionali. Ha pubblicato un saggio sugli avvenimenti della politica estera francese fra il settembre del 1944 e il maggio del 1945 e curato un volume sul Poligono di Nettuno, edito dal Segretariato della Difesa.

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