I danni ambientali nei conflitti tra diritto e obiettivi militari

 

 

La guerra Russia-Ucraina ci lascia il fiato sospeso per il rischio di danni alle numerose centrali nucleari presenti nell’area (nella foto sopra quella di Zaporizhzhia)  fa comprendere che non si possono più nutrire illusioni sulla “pace permanente” poiché i rapporti tra gli Stati sono condizionati dal costante progresso nel perfezionamento e nella crudeltà dei mezzi e dei metodi di guerra. La capacità di produrre armi con effetti devastanti sull’ambiente e sulle risorse naturali ha assunto una rischiosa tendenza alla guerra asimmetrica ed all’aggressione di ciò che più è privo di difesa.

Il conflitto in Ucraina ci allontana dalla giustizia, ma anche dalla salvaguardia ambientale e dagli obiettivi climatici, facendo emergere nuove debolezze del diritto internazionale da colmare con il diritto umanitario.

Come reagiscono le vie di azione del diritto internazionale umanitario sulle regole per la tutela dell’ambiente nel corso dei conflitti armati? Quali sono le nuove sfide da affrontare?

Nella seconda metà degli anni settanta, l’autodeterminazione di nuovi soggetti statuali, la guerra di Corea, l’Indocina, l’Algeria, i conflitti Arabo-Israeliani, la guerra del Vietnam come pure le guerre civili in Africa, Asia e Sud America, evidenziarono la necessità di aggiornare le Convenzioni di Ginevra del 1949 alla nuova realtà geopolitica e sociale.

Nel 1977, con l’adozione dei due Protocolli Aggiuntivi alle Convenzioni del 1949 vennero ridefinite le tipologie dei conflitti armati includendo, fra quelli a carattere internazionale, le guerre di liberazione contro le dominazioni coloniali, l’occupazione straniera e i regimi razzisti. Così facendo si diede spazio a maggiori tutele su chi meno può difendersi dagli attacchi indiscriminati: i civili, l’ambiente e le risorse naturali.

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Venne, ad esempio, tradotto in norma il divieto già presente nel diritto consuetudinario: “In ogni conflitto armato, il diritto delle Parti in conflitto di scegliere metodi e mezzi di guerra non è illimitato”. E’ vietato l’impiego di armi proiettili e sostanze, nonché metodi di guerra capaci di causare mali superflui o sofferenze inutili. E’ vietato l’impiego di metodi o mezzi di guerra concepiti con lo scopo di provocare, o dai quali ci si può attendere che provochino, danni estesi e durevoli all’ambiente naturale” (art. 35 del Primo protocollo addizionale del 1977).

Sempre nel Primo protocollo sono contenute le seguenti norme:

L’art. 48 enuncia la regola fondamentale in tema di protezione della popolazione civile imponendo alle parti di curare, “in ogni momento”, la distinzione fra la popolazione civile e i combattenti, nonché fra beni di carattere civile e gli obiettivi militari.

L’art. 51, vieta inoltre gli attacchi diretti nei confronti della popolazione civile anche a titolo di rappresaglia nonché gli “attacchi indiscriminati” .

Il successivo art. 52 offre la definizione di “obiettivo militare” vietando contestualmente l’attacco o la rappresaglia su beni di carattere civile.

All’art. 55 sono inoltre introdotte disposizioni destinate a salvaguardare l’ambiente naturale da danni estesi, durevoli e gravi come quelli causati dall’uso di napalm e defolianti, sostanze distruttive vietate ulteriormente dal III Protocollo del 1981 sulle armi che producono sofferenze inutili e dalla apposita convenzione del 1977 sulla salvaguardia dell’ambiente naturale nei conflitti armati, la Convenzione sulla modificazione dell’ambiente naturale  più nota con l’acronimo “Enmod” (Enviroment modification) relativa al divieto di utilizzare tecniche di modifica dell’ambiente naturale per scopi militari o per qualsiasi scopo ostile.

Infine, l’art. 56, indica le norme di protezione per le opere e installazioni che racchiudono forze pericolose (come dighe idriche e centrali nucleari) a causa dei danni che possono derivare all’incolumità della popolazione civile.

Il Secondo Protocollo Addizionale del 1977, memore delle guerre civili combattute in Africa, Asia ed America del Sud (in Argentina i desaparecidos furono circa 30.000 in soli quattro anni), detta in 28 articoli la disciplina dei conflitti armati non internazionali, le cui vittime erano state, fino a tale momento, abbandonate alla tutela minimale offerta dall’art. 3 comune alle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949.

Il contenuto dei citati Protocolli pone fine alla tradizionale bipartizione fra diritto dell’Aja, relativo a mezzi e metodi di combattimento e diritto di Ginevra, relativo alla protezione delle vittime dei conflitti armati, dando origine al moderno Diritto Internazionale Umanitario.

Come accennato, i Protocolli addizionali furono anche una risposta a quanto avvenne in Vietnam a seguito dell’impiego massiccio di “Agente Orange” (un liquido defoliante a base di diossina, gravemente tossico e devastante per la biologia ambientale e la fisiologia umana). A seguito di tale nuova coscienza venne vietato di impiegare mezzi e metodi di guerra concepiti per provocare danni estesi, durevoli e gravi all’ambiente naturale, le cui disposizioni sono dettate dagli articoli. 35, comma 3 e 55 del Primo Protocollo addizionale del 1977.

La Conferenza del Comitato sul disarmo, tenutasi a Ginevra il 18 maggio 1977, diede a sua volta origine alla Convenzione sulla proibizione dell’uso militare o di qualsiasi altro uso ostile delle tecniche di modificazione dell’ambiente, (ormai nota come Convenzione “Enmod”).

Anche se lo scopo di tutelare l’ambiente in cui vive l’umanità è comune ad entrambe gli strumenti, sorprendentemente i termini di riferimento dei Protocolli e della Convenzione “Enmod” non hanno ottenuto la medesima interpretazione.

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Il Primo Protocollo è orientato alla protezione dell’ambiente in quanto tale, indipendentemente dal fatto che il suo danneggiamento si ripercuota direttamente sulla popolazione civile; perciò al termine “danno durevole” viene associato un effetto che si protragga per un periodo di vari decenni.

Invece gli “understandings” della Convenzione “Enmod” forniscono una implicazione temporale ben più restrittiva: per “durevole” si intende un danno ambientale protratto per un periodo di mesi, pari a circa una stagione. Sempre per la Convenzione “Enmod” il termine “esteso” viene riferito ad un’area di parecchie centinaia di chilometri quadrati e per “grave” si intende una seria e significativa distruzione che costituisca – anche alternativamente e non contemporaneamente – un pregiudizio per la vita umana o per le risorse economiche e naturali.

Inoltre, l’obbligo di proteggere l’ambiente naturale in tempo di conflitto armato è stato ribadito dal XXIV Principio della Dichiarazione di Rio del 1992 sull’ambiente e lo sviluppo e tale obbligo si desume anche “a priori” nel parere sulla liceità della minaccia o dell’uso di armi nucleari, con cui nel 1966 la Corte Internazionale di giustizia ha dichiarato l’esistenza di un obbligo internazionale di proteggere l’ambiente naturale contro danni estesi, durevoli e gravi (ICJ, Reports, par. 31).

Allora che dire della cancellazione di migliaia di ettari di foreste indocinesi durante la guerra del Vietnam? Purtroppo, a quell’epoca – si rammenti che la guerra terminò nel 1975 – queste norme non erano in vigore, né era noto l’altissimo livello di pericolosità della diossina, che solo nel 1994 è stata riconosciuta come una grave minaccia alla salute pubblica. Pertanto, le devastanti operazioni di deforestazione ADM (Area denial missions) condotte in quel teatro operativo con l’agente orange, non possono essere retroattivamente considerate alla stregua di crimini di guerra.

Ancora oggi gli erbicidi e i defolianti non sono considerati armi chimiche e il loro uso nei conflitti armati è proibito solo se provoca effetti estesi, durevoli e gravi all’ambiente naturale. La proibizione pertanto riguarda l’uso che ne viene fatto, come del resto è riconosciuto nel preambolo della Convenzione sul disarmo chimico (Parigi 1993) che condanna gli erbicidi come “metodo” di guerra.

Un altro “schiaffo” alle convenzioni internazionali sulla tutela ambientale nelle operazioni militari è la rivelazione degli studi e le ricerche scientifiche del programma “Kontinent” avviato dall’URSS negli anni settanta. Tale programma è proseguito per quasi venti anni dopo la firma della Convenzione “Enmod” (accordo che venne sollecitato dalla stessa URSS) e gli studi del programma proseguirono anche dopo la fine dell’Unione Sovietica. Secondo quanto dichiarato dallo scienziato Giancarlo Bove,: “abbandonati i test nucleari sotterranei, diventati ormai pericolosi per l’impatto ambientale e l’inquinamento provocato dalle esplosioni, i responsabili scientifici e militari si orientarono verso la TeleGeoDinamica e i sistemi d’arma a energia diretta EM (electronic pulse weapon) per concludersi definitivamente nel 1996”.

Ma nelle minacce della guerra moderna rimane sempre da risolvere un interrogativo: come si può salvaguardare l’incolumità della popolazione civile senza la tutela ambientale?

Il Primo Protocollo addizionale del 1977 non attribuì alla guerra ambientale la categoria di “grave violazione” del diritto internazionale umanitario, ma si limitò a proibire l’uso indiscriminato di mezzi bellici intesi deliberatamente a causare danni all’ambiente naturale e pregiudicare la salute e la sopravvivenza della popolazione. Venne così introdotto il divieto di modificazione dell’ambiente naturale a scopo di rappresaglia per limitare la portata della guerra asimmetrica, si pensi alla deviazione del corso di un fiume per creare siccità o l’abbattimento di una diga per provocare una vasta area di allagamento.

Oggi invece lo Statuto della Corte Penale Internazionale, tenendo come riferimento gli “understandings” della Convenzione “Enmod”, annovera fra i crimini di guerra anche il “causare danni diffusi, duraturi e gravi all’ambiente naturale” e tra tali crimini include anche i danni collaterali all’ambiente se questi sono estesi, durevoli e gravi. In questo caso, attraverso l’ipotesi di crimine internazionale anche per danni collaterali, lo Statuto ha inteso rafforzare la tutela dell’ambiente, nella considerazione di poter realizzare una forma di ulteriore protezione nei confronti dei civili che non prendono parte alle ostilità.

Nella recente storia dei conflitti armati i precedenti non mancano, senza dubbio un’attività di manipolazione dell’ambiente naturale a fini militari, è stata realizzata nella primavera del 1991 durante la Guerra del Golfo, quando per effetto dell’incendio dei pozzi petroliferi del Kuwait, ordinato da Saddam Hussein durante la ritirata del suo esercito, il cielo fu oscurato per parecchie settimane, rendendo l’aria irrespirabile e limitando di fatto le operazioni aeree e terrestri, rivolte contro l’esercito iracheno.

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Anche il mare, coperto da una densa patina di petrolio greggio, fu inquinato in parecchie miglia di costa, con conseguente disastro all’ecosistema. La circostanza fu oggetto di particolare preoccupazione per il Comando della coalizione a guida statunitense che, preoccupato delle capacità di guerra batteriologica del regime di Saddam, valutò la spessa coltre di fumo come un’efficace cortina anti luce, atta a consentire una prolungata sopravvivenza sul terreno, per eventuali virus ed agenti patogeni, protetti in tal modo dall’azione dei raggi solari. Forse a causa di tale timore, si deve la decisione, mai spiegata dagli strateghi, di arrestare la penetrazione delle forze terrestri verso Baghdad e rinunciare al rovesciamento del regime di iracheno.

Tuttavia, nonostante la gravità del disastro causato, è da segnalare che tale deliberato grave inquinamento ambientale e di sciupio di ingenti risorse naturali non apparve tra i sette capi d’imputazione contestati a Saddam Hussein nel processo tenutosi presso il Tribunale speciale iracheno instituito nel 2004 per processare il regime Baath

Al giorno d’oggi, grazie alla vigenza dello Statuto della Corte penale internazionale, lanciare un attacco con la consapevolezza che abbia la conseguenza di causare danni gravi, estesi e duraturi sull’ambiente naturale, costituisce un crimine di guerra (art. 8) ma sussiste ancora un vuoto nel Diritto Internazionale sulla regolamentazione dei danni provocati all’ambiente poiché la Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite.

Commissione che, sebbene nell’ultimo decennio abbia cercato di stimolare un dibattito in tal senso, non è riuscita ad arrivare alla stesura di una serie di principi generali in materia e nonostante i significativi passi in avanti verso una definizione delle responsabilità e degli obblighi degli attori statali e non statali nei conflitti armati, siamo ancora molto lontani dall’ideale auspicato da giuristi ed opinione pubblica in riferimento ai danni provocati all’ambiente, vale a dire la stesura di una nuova Convenzione di Ginevra per sostenere la protezione ambientale durante i conflitti internazionali e le guerre civili.

Allo stato attuale, rimane quindi da sperare che gli strateghi e le forze in campo nell’attuale conflitto scoppiato in Europa Orientale, cioè i singoli soggetti, politici e militari, con incarichi di responsabilità, valutino opportunamente il rischio ambientale costituito dalla presenza di alcune tra le più grandi centrali nucleari del continente europeo e da territori che storicamente costituiscono una estesa e primaria fonte di produzione agricola per l’Europa ed il Medio oriente. (19/03/2022).

Foto US DoD e UNIAN

 

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Carlo StracquadaneoVedi tutti gli articoli

Colonnello in congedo dell'Aeronautica, ha conseguito il Master in Studi internazionali strategico militari e la qualifica di Consigliere giuridico per i conflitti armati. Titolare per 12 anni della cattedra di Diritto internazionale dei conflitti armati presso la Scuola di Guerra Aerea, dal 2008 insegna "Tutela internazionale dei diritti umani" presso l'Università di Firenze. Ha scritto diversi libri e oltre cento articoli in tema di diritto internazionale, diritto della navigazione, diritto processuale penale e diritto penale militare. Dal 2008 al 2011 ha svolto l'incarico di consigliere giuridico di diritto internazionale umanitario del Ministro della Difesa.

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