Le difficili prospettive negoziali nel conflitto tra Russia e Ucraina

 

 

Se è vero che da settimane proseguono i contatti riservati tra Washington e Mosca per individuare punti condivisi utili ad avviare un possibile negoziato, è innegabile che il colpo di scena sia stato servito dagli americani o, meglio, da una parte della loro amministrazione in maniera del tutto inaspettata.

Come abbiamo visto nei giorni scorsi, il generale Mark Milley ha pubblicamente dichiarato che è molto difficile che gli ucraini possano riconquistare tutti i territori occupati, e che le probabilità di vittoria per Kiev non sono molto elevate nel breve periodo.

Gli ha fatto da sponda il consigliere per la sicurezza nazionale americano Jake Sullivan che, incontrando Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky a Kiev, gli ha consigliato di mostrarsi aperto a possibili trattative con richieste “realistiche” e priorità da portare ad un eventuale tavolo con i russi, inclusa una “rivalutazione” dell’obiettivo di riguadagnare la Crimea.

L’iniziativa di due autorevoli rappresentanti del cosiddetto “partito della trattativa”, una vera doccia fredda per i sostenitori della guerra ad oltranza d’oltreoceano, ma anche per il governo di Kiev, sembrerebbe aver aperto ufficialmente la tanto attesa fase delle trattative in un momento particolare del conflitto che, con l’inverno alle porte, non prevede sviluppi significativi sul piano militare, quello cioè che dovrebbe essere in grado di assicurare il conseguimento degli obiettivi strategici dei due belligeranti che devono essere esaminati e interpretati alla luce di questi ultimi sviluppi.

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È bene riepilogarli questi obiettivi poiché senza questo riferimento concreto è difficile valutare le eventuali soluzioni che potrebbero essere individuate ma, soprattutto, comprendere quanto sia difficile soddisfare le aspettative create.

Per la Russia:

  • Riconoscimento della Crimea e delle autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk, la regione di Kherson e quella di Zaporizhzhia quale territorio russo.
  • Garanzie per la sicurezza della popolazione russofona dei nuovi territori.
  • Demilitarizzazione dell’Ucraina (Ucraina stato neutrale).
  • Impedire che l’Ucraina faccia parte della NATO e della UE.

Per l’Ucraina:

  • Ricostituzione dei confini prebellici del 2014.
  • Garanzie di sicurezza da parte di Europa e Stati Uniti.
  • Adesione a NATO e UE.

Ci sono quindi almeno due temi dirimenti da tenere in considerazione: la questione territoriale e quella delle garanzie di sicurezza da istituire con criteri di reciprocità per assicurare una coesistenza pacifica e scongiurare eventuali iniziative belliche unilaterali. In ogni caso, l’individuazione di una possibile via d’uscita dal conflitto dovrebbe inscriversi nel contesto più ampio di un nuovo sistema di sicurezza europeo nel quale non è possibile escludere la Russia.

Tuttavia, l’ostacolo maggiore potrebbe essere rappresentato non tanto dall’inconciliabilità degli obiettivi da raggiungere, quanto dal prevalere di una logica della guerra a oltranza sopra ogni altra considerazione.

 

La questione territoriale

Mentre scriviamo i russi sono sulla difensiva su tutto il fronte con la possibilità di attacchi diversivi e offensive tattiche locali per migliorare le proprie posizioni difensive (settore di Bakhmut nell’Ucraina orientale). Mosca intende costruire una linea di difesa solida e duratura nei territori che ha occupato al fine di scongiurare ulteriori successi delle forze armate ucraine con ulteriori cambiamenti nei nuovi confini.

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La priorità, infatti, è quella di garantire che l’area controllata dagli invasori rimanga maggiore di quanto non fosse il 23 febbraio, prima che l’invasione fosse lanciata, e che i confini del 2014-2015 non vengano intaccati e Putin vuole passare l’inverno senza cedere altro terreno che Kiev è sicuramente intenzionato a riprendersi ma con costi, soprattutto di vite umane, probabilmente insostenibili.

Esiste un consenso occidentale sul fatto che Mosca non debba acquisire nuovo territorio a seguito delle sue azioni in Ucraina: l’intera impresa deve finire come una perdita complessiva per il Cremlino. Ciò significa riportare i confini almeno alla loro posizione del 24 febbraio, quando la Russia ha lanciato la sua invasione.

Tuttavia, Mosca non è disposta ad accettare questi cambiamenti. Il minimo che l’operazione militare speciale deve ottenere, ha dichiarato Putin ad Astana lo scorso mese di ottobre, è un corridoio terrestre garantito verso la Crimea, mentre gli altri confini possono più o meno tornare al punto in cui erano il 24 febbraio

In ogni caso, nessuna soluzione diplomatica al conflitto è possibile senza che una parte o l’altra ceda sulla questione territoriale. E questo problema non può essere rinviato a una data futura. Entrambe le parti hanno bisogno di chiarezza e di un accordo reciproco su dove sarà il confine.

L’Ucraina ha bisogno di garanzie che la Russia non cercherà di spostare i confini usando la forza ancora una volta in futuro, mentre la Russia ha bisogno di garanzie che l’Ucraina non andrà in guerra per cercare di risolvere la questione territoriale, indipendentemente da chi è al potere a Kiev. E questo ci porta alla questione altrettanto difficile e decisiva per gli esiti di qualunque negoziato e cioè il nodo delle garanzie di sicurezza.

 

Scongiurare future aggressioni

Per ora, sembra che tutte le soluzioni proposte a questo problema si siano basate su un pacchetto di garanzie di sicurezza occidentali per l’Ucraina che verrebbero attuate a seguito di un’eventuale dichiarazione di neutralità da parte dell’Ucraina. In termini concreti, queste garanzie si ridurrebbero a rapide consultazioni (nelle prime 24-48 ore dopo un’invasione russa) per concordare una serie di aiuti militari occidentali per Kiev.

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Logicamente, questa ipotesi di lavoro è stata giudicata inconsistente dagli ucraini poiché incapace di assicurare la deterrenza nei confronti di un’eventuale ulteriore aggressione e perché priva di ogni automatismo d’intervento occidentale.

Zelensky vede due possibili vie d’uscita dalla situazione. La prima, quella sicuramente preferita, è l’adesione accelerata alla NATO, prospettiva che Stoltemberg ha recentemente confermato. D’altronde, anche l’adesione dell’Ucraina all’UE porterebbe fornire garanzie di sicurezza militari in quanto sarebbe coperta dall’articolo 42.7 dell’Unione, che è simile all’articolo 5 della NATO, quello della difesa collettiva.

La seconda possibile via d’uscita è che l’Ucraina diventi un altro Israele: armato fino ai denti e in uno stato permanente di preparazione per una guerra su vasta scala. Ovviamente, entrambe le prospettive sono irricevibili per Mosca poiché, a sua volta, ha bisogno di garanzie contro un possibile futuro revanscismo di Kiev e l’appartenenza dell’Ucraina alla NATO sarebbe oltretutto assolutamente impossibile da accettare politicamente. Da qui le richieste (già irrealistiche) per l’Ucraina di smilitarizzare.

Una possibile alternativa alle garanzie di sicurezza occidentali potrebbe essere quella di schierare in Ucraina una forza d’interposizione internazionale su mandato delle Nazioni Unite. Forze di pace ben armate consentirebbero di ottenere la deterrenza senza l’eccessiva militarizzazione dell’Ucraina e senza che il paese aderisca formalmente al Trattato di Washington.

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La composizione del contingente dovrebbe ovviamente prevedere il contributo sia di truppe della NATO che dei paesi eventualmente disposti a sostenere gli argomenti della Russia. Un impegno di altissima visibilità politico militare niente affatto scontato. Difficilmente Mosca potrebbe accettare lo schieramento ai propri confini di forze dell’Alleanza Atlantica, un vero e proprio atto sacrilego agli occhi degli ultranazionalisti e di gran parte del fronte interno.

Le capitali occidentali dovrebbero accettare il rischio di possibili incidenti e scontri con le truppe russe e le milizie separatiste eventualità, questa, molto probabile data l’altissima tensione militare che contraddistinguerebbe quello scenario.

Per i paesi di un possibile “terzo blocco” si tratterebbe di essere esposti, al pari delle forze occidentali del contingente, in situazioni di possibile escalation di difficile gestione e dagli esiti incerti. Varrebbe la pena correre questo rischio per Mosca?

 

La necessità di un nuovo sistema di sicurezza europeo

Probabilmente nessuna proposta di accordo potrebbe essere concretamente realizzata senza elevare lo sguardo verso obiettivi di lungo termine avviando una riforma sulla sicurezza in Europa superando le mappe disegnate all’indomani del crollo dell’Unione Sovietica, come a lungo richiesto da Mosca.

Recentemente, in un’occasione pubblica Zelenski ha dichiarato che “L’Ucraina e i suoi partner stanno gradualmente creando un sistema che fermerà l’aggressione della Russia, smantellerà le sue conseguenze e garantirà la sicurezza a lungo termine dell’Ucraina e del mondo”. Zelensky: We are creating a system that will stop Russian aggression and guarantee long-term security (ukrinform.net)

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Il sistema al quale il Premier ucraino si riferisce non è certamente quello che i russi auspicano di realizzare, cercando di ridurre il ruolo della NATO in Europa e garantendo a Mosca una posizione dominante nella politica di sicurezza europea.

La Russia non si limita più a chiedere un diritto di veto in tutte le questioni relative alla sicurezza del Vecchio Continente, come richiesto nella proposta dell’ex presidente Dmitry Medvedev del 2008 per un trattato su una nuova architettura di sicurezza europea. Invece, l’obiettivo è ridurre drasticamente il ruolo degli Stati Uniti, stabilire garanzie di sicurezza per Mosca e consolidare le sfere di influenza in Europa su base giuridicamente vincolante. Ipotesi di lavoro decisamente irrealistiche non solo per Kiev ma per una larga parte dei paesi occidentali.

Un’altra ipotesi di lavoro, molto recente, è costituita dalla European Political Community (EPC), il nuovo blocco geopolitico formato da quarantaquattro paesi pensato dalla Francia e inaugurato a Praga il 6 ottobre scorso.

La membership include i ventisette paesi della UE, e un caleidoscopio di nazioni che comprende il Regno Unito, la Turchia, la Norvegia, l’Ucraina, la Moldavia, l’Armenia, l’Azerbaigian, la Georgia, i paesi dei Balcani non-UE (Albania, Serbia, Bosnia Erzegovina, Kossovo, Macedonia del Nord e Montenegro), l’Islanda e persino Israele. Potrebbe essere l’inizio, come molti auspicano in primis ovviamente i francesi, di un riordino storico dell’Europa politica e del continente (possibilmente sotto la loro guida).

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Un nuovo accordo geopolitico per fornire all’Ucraina, e ad altri paesi normalmente esclusi dalla discussione delle dinamiche europee, una nuova comunità strategica e un forum dove avviare nuovi confronti e discutere nuove iniziative.

In fin dei conti, con la Brexit e l’adesione in stallo della Turchia, una parte strategicamente importante dell’Europa probabilmente non sarà mai nell’UE, così come le potenze energetiche ed economiche come la Norvegia e Svizzera. Inoltre, sia l’Europa non UE che quella UE condividono interessi territoriali e geostrategici che possono essere maggiormente sfruttati nel contesto di nuove istituzioni transnazionali che in quelle esistenti.

Mosca è stata esclusa dal progetto, assiema alla Bielorussia, poiché l’EPC è funzionale alla gestione del confronto strategico con la Russia, ma la sua evoluzione potrebbe riservare delle sorprese perché nel lungo periodo la definizione di una nuova geopolitica dell’Europa non potrà prescindere dal contributo di Mosca e l’EPC potrebbe costituire un foro negoziale ospitale per il Cremlino.

 

Le ragioni della guerra a oltranza

Nel frattempo, considerata la situazione nei termini che abbiamo appena indicato, quanta voglia davvero c’è di fermare le operazioni e, soprattutto, a chi converrebbe in questo momento?

Negli Stati Uniti, il punto di vista dei sostenitori della guerra a oltranza è ampiamente illustrato dall’analisi offerta da due studiosi della RAND, Raphael S. Cohen e Gian Gentile, pubblicata lo scorso 22 novembre sul sito del think tank What’s the Harm in Talking to Russia? A Lot, Actually | RAND i quali sono fermamente convinti che sollecitare l’Ucraina a negoziare ora invierebbe il segnale agli ucraini, per non parlare di altri alleati e partner in tutto il mondo, che gli Stati Uniti non sono intenzionati di impegnarsi a lungo e che alla fine le abbandoneranno (sindrome da Afganistan).

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Inoltre, sostengono sempre i due autori, l’Ucraina ora è in una posizione negoziale più forte perché ha combattuto piuttosto che parlare. Ci sono molte ragioni per credere che Kiev sarà in una posizione negoziale ancora più forte con il passare del tempo per via dei successi ottenuti, del continuo afflusso di aiuti militari occidentali e del morale elevato, a fronte di una situazione diametralmente opposta per i russi.

Ripetute sconfitte, difficoltà ad alimentare lo sforzo bellico, morale basso al fronte vero e proprio e in quello interno con un milione di persone in fuga per sfuggire all’arruolamento coatto. Una soluzione negoziata che congelasse il conflitto ora, comporterebbe una serie di rischi morali, operativi e strategici.

Lascerebbe milioni di ucraini sotto l’occupazione russa. Darebbe all’esercito russo la possibilità di ricompattare i ranghi e riavviare la guerra in un secondo momento ma, soprattutto, concederebbe il tempo alla variegata coalizione internazionale che sostiene l’Ucraina di fratturarsi, o di propria iniziativa o a causa degli sforzi russi di creare un cuneo nella coalizione. Il momento dei negoziati arriverà, concludono gli autori, solo quando la Russia ammetterà di aver perso e di voler porre fine alla guerra. Oppure arriverà quando l’Ucraina dirà che il ripristino del suo territorio non vale il dolore continuo del bombardamento russo.

È evidente che entrambe le ipotesi sono difficilmente realizzabili perché gli ucraini combatteranno sino all’ultimo uomo e per i russi la parola sconfitta non è compresa nel vocabolario. Il concetto di “Perdiamo tutto, lo ricostruiamo dopo, ma la vittoria è tutto”, fa parte della storia nazionale russa.

Per questo le ragioni della guerra ad oltranza a Mosca sono meno articolate che a occidente. Il problema di Putin è quello di capire come avviare una nuova fase del conflitto facendo la quadra tra gli ultranazionalisti, i servizi segreti (segnatamente il FSB), il gruppo Wagner e il Ministero della difesa.

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L’ordine di apparizione riflette l’attuale peso che le rispettive organizzazioni hanno nell’attuale sistema decisionale del Cremlino. Le prime tre sono accomunate dalla volontà di addossare ai militari la cattiva condotta delle operazioni sul campo.

Ultranazionalisti e FSB sostengono la necessità dell’escalation, mentre il finanziere (e padrone) del gruppo Wagner Yevgeny Prigozhin sta istituendo strutture militari parallele per consolidare la sua immagine di ultranazionalista pro-guerra bypassando la linea di comando militare tradizionale.

Difficilmente i russi potranno fermare le operazioni unilateralmente di fronte a un avversario che punta al suo annientamento. D’altronde la logica dell’annientamento è ben sostenuta, oltre che dall’Ucraina, anche nel contesto della compagine NATO/UE tra quei paesi che hanno subito la dominazione dei russi e che vedono in questa guerra un’occasione storica di “fare giustizia” una volta per tutte. Insomma, non possiamo parlare di un ambiente favorevole allo sviluppo di negoziati. Ma siamo proprio sicuri che l’inconciliabilità degli obiettivi strategici non sia solo un pretesto?

Foto: Ministero della Difesa Russo e Ministero della Difesa Ucraino

 

 

Nato a Vicenza nel 1960, è stato il vice comandante dell'Allied Rapid Reaction Corps (ARRC) di Innsworth (Regno Unito), capo di stato maggiore del NATO Rapid Reaction Corps Italy (NRDC-ITA) di Solbiate Olona (Varese), nonché capo reparto pianificazione e politica militare dell'Allied Joint Force Command Lisbon (JFCLB) a Oeiras (Portogallo). Ha comandato la brigata Pozzuolo del Friuli, l'Italian Joint Force Headquarters in Roma, il Centro Simulazione e Validazione dell'Esercito a Civitavecchia e il Regg. Artiglieria a cavallo a Milano ed è stato capo ufficio addestramento dello Stato Maggiore dell'Esercito e vice capo reparto operazioni del Comando Operativo di Vertice Interforze a Roma. Giornalista pubblicista, è divulgatore di temi concernenti la politica di sicurezza e di difesa.

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