La super potenza americana nell’era Trump

Sostanziale modifica delle priorità strategiche abbinata a un deciso rafforzamento delle capacità militari. Le linee guida della politica di difesa di Donald Trump costituiscono una “rivoluzione” rispetto alle consolidate relazioni militari multilaterali degli Stati Uniti e dovranno essere meglio definite per risolvere qualche contraddizione e sciogliere alcuni dubbi sia negli USA che presso gli alleati.

Benché in Europa e Asia i principali partner militari di Washington abbiano accolto con freddezza o malcelato rammarico la vittoria di Trump, la politica estera e di sicurezza del nuovo presidente potrebbe offrire interessanti prospettive di affermazione all’Europa e alle potenze asiatiche alleate degli USA, Giappone e Corea del Sud in testa.

Distensione con Putin
L’aspetto più innovativo del programma di Trump in questo ambito è rappresentato dall’annunciata volontà di chiudere l’era della “nuova guerra fredda” con Mosca varata dall’Amministrazione Obama con l’intervento in Siria, il sostegno alla “rivoluzione” in Ucraina del 2014 e la continua espansione a est della Nato.

Per l’Europa la “pace” con Mosca significherebbe molto in termini economici e geopolitici. Un accordo di compromesso che risolva la crisi ucraina porterebbe all’abrogazione delle sanzioni alla Russia che colpiscono certo più l’export europeo di quello statunitense, tranquillizzerebbe polacchi e baltici circa l’intangibilità delle loro frontiere orientali e renderebbe di nuovo sicura la “via dell’energia” che porta in Europa il gas russo attraverso l’Ucraina.

La distensione aiuterebbe inoltre la stabilità dei Balcani, penetrati dall’estremismo islamico fin dai conflitti degli anni ’90, che videro gli Usa di Bill Clinton e la Nato attaccare la Serbia, e oggi teatro di scontro tra una Alleanza Atlantica che si allarga al Montenegro e la Russia che rinsalda i rapporti con la Serbia.

Nuovi rapporti con gli alleati
Il successo di Trump ha suscitato in Europa la preoccupazione per un disimpegno militare degli Stati Uniti alimentato dalle dichiarazioni del neo presidente circa lo scarso impegno militare e finanziario dei partner europei della Nato.

Del resto Washington chiede da anni agli europei di devolvere almeno il 2 per cento del PIL per la difesa, obiettivo raggiunto solo da un pugno di Stati del Vecchio Continente spronati recentemente dagli USA sull’onda della rinnovata “minaccia russa”.

Uno spauracchio che non ha mai convinto gli europei (esclusi i Paesi orientali a ridosso dei confini russi) sia perché la vera minaccia percepita è quella islamico-jihadista sia perché in termini di spesa militare “l’orso russo” investe ogni anno circa 100 miliardi di dollari. Cioè un terzo di quanto spende la Ue, un sesto degli USA e un nono della spesa complessiva della Nato.

Negli ultimi anni quasi tutti gli Stati europei (ma non l’Italia) hanno invertito la tendenza a tagliare i bilanci della Difesa ma la prospettiva paventata da Trump di un minore interesse di Washington nei confronti della Nato aprirà agli europei due importanti prospettive.

La prima è di allentare l’ingombrante presenza statunitense, responsabile con l’Amministrazione Obama di buona parte delle iniziative che hanno destabilizzato il “cortile di casa” degli europei: dalle primavere arabe ai conflitti in Libia e Siria, dall’Ucraina alle tensioni con Mosca estese all’arera balcanica.

La seconda, potenzialmente di portata strategica, concerne l’opportunità di concretizzare (se davvero la Ue ne sarà capace) decenni di discorsi sull’istituzione di uno strumento militare condiviso (se non congiunto) nell’ambito di un’organizzazione difensiva europea.

Sorprendono quindi le dichiarazioni offensive nei confronti del neo eletto inquilino della Casa Bianca da parte del presidente  della Commissione europea, Jean Claude Juncker, a ulteriore conferma di come i vertici degli apparati Ue, nominati ma non eletti, soffrano di una crescente avversione nei confronti della democrazia diretta, del suffragio universale e in ultima analisi della volontà popolare, elementi peraltro già emersi miseramente in seguito al referendum britannico che ha portato alla Brexit.

Anche con gli alleati asiatici i rapporti che Trump vuole instaurare saranno basati più su relazioni bilaterali e meno sul multilateralismo.

Non è un caso che in Asia si registrino perplessità ancora più forti che in Europa circa il prossimo inquilino della Casa Bianca.

Trump, che pure non ha un approccio morbido nei confronti dell’espansionismo cinese e della minaccia nucleare nordcoreana (attribuisce anzi a Pechino la responsabilità di “disarmare” Pyongyang) considera soprattutto Giappone e Corea del Sud “consumatori” di sicurezza offerta dagli USA e in campagna elettorale si è dichiarato favorevole all’ipotesi che i due alleati del Pacifico si dotino di armi atomiche per poter fare a meno del costoso “ombrello” di Washington pagato dai contribuenti americani.

Se davvero le linee guida espresse da Trump si tradurranno in fatti concreti avremmo nei prossimi anni Stati Uniti meno “invasivi” e un maggiore protagonismo anche militare di alcune potenze regionali in Asia, Medio Oriente ed Europa.

Risolvere le crisi
Del resto i pilastri della politica di sicurezza di Trump puntano a chiudere le crisi in atto, non a prolungarle all’infinito come è accaduto negli ultimi anni e come Hillary Clinton minacciava di continuare a fare.

Trump vuole intensificare gli sforzi militari contro l’Isis e il terrorismo islamico ma, come Obama, vuole evitare di coinvolgere sul campo di battaglia ingenti forze terrestri statunitensi (no boots on the ground).

In Siria punta a un’intesa con Russia e Turchia per chiudere il conflitto e stabilizzare la regione dopo la sconfitta dell’Isis e, a differenza di Hillary Clinton (che voleva imporre una no-fly zone sulla Siria) non vuole abbattere il regime di Bashar Assad ma impedire che il Paese cada in mano ai jihadisti.

 

 

Un obiettivo che, specie dopo quello che è accaduto nella Libia post-Gheddafi, dovrebbe trovare molti sostegni anche in un’Europa che dalla fine del conflitto siriano ha da guadagnare non solo in termini di riduzione del rischio terroristico ma anche di flussi di immigrati illegali.

La rinnovata alleanza con Israele annunciata da Trump porrebbe fine alle tensioni che hanno caratterizzato i rapporti tra Obama e Netanyahu e offrirebbe maggiori garanzie a Gerusalemme circa il rischio che l’Iran si doti di armi atomiche.

Un’ipotesi che secondo molti osservatori non è stata scongiurata dall’accordo internazionale sul programma atomico di Teheran, fortemente voluto dall’amministrazione statunitense uscente.

Teheran ha subito auspicato che il nuovo presidente rispetti gli accordi esistenti anche se in prospettiva una maggiore attenzione di Washington nei confronti del programma nucleare iraniano potrebbe disinnescare la corsa all’atomica che sta prendendo piede nel mondo arabo sunnita, Arabia Saudita in testa, che condivide con Israele la minaccia di un Iran potenza nucleare ma che a differenza dello Stato ebraico non possiede un deterrente di 150 testate atomiche.

Nessun disarmo
Soluzione negoziata delle crisi, disimpegno da alcune regioni lasciando che gli alleati si assumano le loro responsabilità, interventi armati solo in caso gli interessi nazionali dell’America siano in pericolo sono priorità che non coincidono con una riduzione delle forze militari e delle spese per la difesa.

Anzi, Trump ha parlato più volte di un’America più forte anche in termini militari e infatti prevede durante il suo mandato presidenziale (come indica il suo programma) di potenziare la flotta con una settantina di nuove navi riportando l’Us Navy a 350 unità di prima linea, fornire all’Usaf 1.200 nuovi aerei da combattimento, rafforzare i Marines portando a 36 battaglioni di prima linea e di aumentare gli organici dell’Us Army di 80 mila unità per riportarli a 540 mila effettivi dell’amministrazione Bush.

Obiettivi ambiziosi che consentirebbero agli USA di combattere almeno due ampi conflitti più altre crisi regionali minori nello stesso tempo e che non indicano certo la volontà di rinunciare alla capillare presenza militare statunitense nel mondo.

Anche in termini di costi un simile potenziamento difficilmente potrà essere finanziato con l’attuale bilancio del Pentagono di quasi 600 miliardi di dollari, sul quale si potrà forse risparmiare almeno una parte della sessantina di miliardi assorbiti dalle missioni oltremare (ma solo quando la guerra all’Isis e la lunga campagna afghana saranno concluse) o chiudendo alcune basi all’estero.

Solo il tempo dirà se il programma elettorale di Trump riuscirà a sopravvivere alla prova dei fatti.

Sedici anni or sono George W. Bush vinse le elezioni con un programma molto simile a quello di Trump che prevedeva meno truppe all’estero e in Europa, ritiro dai Balcani (all’epoca area di maggiore crisi dopo la guerra del Kosovo), supremazia militare ma interventi bellici solo per tutelare gli interessi nazionali. Un programma che non sopravvisse all’11 settembre 2001.

@GianandreaGaian

da Il Corriere del Ticino

Foto AP, Reuters e Getty Images e Save the Royal Navy.

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Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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