L’escalation bellica in Siria sulle spoglie del Califfato

da Il Mattino del 20 giugno

Lo Stato Islamico è quasi sconfitto ma dalle rovine del Califfato emerge il vero conflitto in corso in Medo Oriente, rimasto in parte latente negli ultimi anni, ma che ha influito pesantemente sull’inaspettata longevità dello Stato Islamico di Abu Bakr al-Baghdadi.

Se il Califfo sembra ormai defunto, colpito dai raid aerei russi e siriani a fine maggio, e i suoi miliziani combattono battaglie difensive disperate nelle ultime roccaforti di Mosul, Raqaa e Deir az-Zor, prende sempre più piede il vero ruolo rivestito dalla Coalizione a guida statunitense, blanda nel combattere l’Isis ma molto attiva oggi più che mai nell’ostacolare l’avanzata delle forze di Damasco e dei loro alleati russi e iraniani impegnati a riconquistare i territori siriani caduti nelle mani del Califfato e di altre milizie jihadiste.

L’abbattimento di un vecchio bombardiere Sukhoi 22 nel settore di Raqqa (e di un drone di costruzione iraniana Shahed 129 vicino ad al-Tanf nei pressi del confine giordano, abbattuto da un  F-15E Strike Eagle dell’Usaf -Ndr) confermano la tendenza di Washington a impiegare le sue unità militari (incluse le forze speciali sul terreno al fianco dei ribelli basati in Giordania e delle milizie curdo-arabe delle Forze Democratiche Siriane nel nord della Siria) per contrastare i reparti governativi siriani.

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L’abbattimento del jet, che secondo Damasco colpiva postazioni dell’Isis e secondo Washington quelle delle FDS, ha alato ulteriormente l’asticella dell’escalation del confronto tra Usa e Russia in Siria.

Sul campo di battaglia le milizie curde si scontrano con le truppe di Damasco per il controllo dei dintorni di Raqqa mentre Mosca ha sospeso ogni coordinamento con i comandi statunitensi nelle operazioni aeree ha ammonito che “aerei e droni della Coalizione internazionale individuati ad ovest del fiume Eufrate saranno monitorati e considerata bersagli”.

Non è la prima volta che Washington attacca le le truppe di Damasco. Nel settembre scorso i jet americani colpirono “per errore” le postazioni siriane a Deir ez-Zor, in aprile Donald Trump ordinò il lancio di 60 missili da crociera Tomahawk contro una base aerea siriana come rappresaglia per un mai dimostrato (e poco credibile) uso di armi chimiche a Idlib da parte delle forze di Damasco.

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Nelle ultime settimane i jet Usa hanno poi compiuto diversi raid nei pressi del confine giordano nel vano tentativo di impedire alle truppe di Assad di congiungersi con le milizie filoiraniane di Baghdad che hanno ripreso il controllo della frontiera tra i tre Paesi prima in mano all’Isis.

La saldatura tra le forze di Iraq e Siria di fatto toglie ogni spazio di manovra alle milizie anti-Assad addestrate in questi anni in Giordania dagli anglo-americani.

Nel nord, una volta caduta Raqqa, Damasco potrebbe trovare un inaspettato alleato contro le FDS nella Turchia, preoccupata che i curdi-siriani (alleati dei curdi del PKK) possano ritagliarsi una regione autonoma. Un’eventuale intesa tra Ankara e Damasco impedirebbe di fatto agli statunitensi di continuare ad alimentare le FDS dalle basi in territorio turco.

Il fatto stesso che la Coalizione abbia impiegato tre anni a sconfiggere l’Isis, la cui disfatta è in realtà dovuta più agli sforzi bellici di Damasco, Baghdad, Teheran e Mosca che all’intervento degli alleati occidentali, la dice lunga sulla reale strategia di Washington in Medio Oriente indipendentemente dalle amministrazioni alternatesi alla Casa Bianca.

Se Obama aveva più volte minacciato Damasco aprendo però a Teheran con il contestato accordo sul nucleare iraniano, Trump sembra determinato a dare concretezza alle operazioni militari contro il cosiddetto “asse scita” in ossequio anche alla rilanciata alleanza con l’Arabia Saudita.

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In questo contesto il raid compiuto dagli iraniani con il lancio di sei missili balistici Zulfiqar rappresenta un chiaro messaggio di deterrenza rivolto a Washington e Riad, che non rinunciano a gestire milizie in territorio siriano per impedire la vittoria di Bashar Assad in quel conflitto.

I Guardiani della Rivoluzione hanno lanciato i più moderni e precisi missili balistici a raggio intermedio in loro possesso, che hanno sorvolato per 700 chilometri il territorio iracheno e siriano devastando le postazioni dell’Isis nel settore di Dei az-Zor.

Non c’era nessuna esigenza tattica che richiedesse l’impiego di missili balistici ma con questo attacco Teheran ha voluto dimostrare capacità e disponibilità a impiegare il suo nutrito arsenale di missili balistici che tanto spaventa le monarchie arabe del Golfo.

Sul campo di battaglia siriano la sproporzione di forze in campo a favore dell’asse scita potrebbe rendere inutile l’escalation cercata da Washington con gli attacchi alle forze siriane anche al di là dei rischi di confronti diretti tra i jet russi e statunitensi.

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Probabilmente Trump ha bisogno del braccio di ferro con Mosca per allontanare le ombre dell’impeachment per i suoi supposti rapporti con la Russia ma è evidente che l’ostilità nei confronti dell’Iran rischia di ottenere il solo scopo di alzare la tensione nella regione senza che gli USA dispongano né dei mezzi militari né di una strategia politica per stabilizzare la situazione.

Del resto anche nella crisi tra Arabia Saudita e Qatar gli Stati Uniti stanno mostrando posizioni ondivaghe che variano dalle accuse a Doha di “sostenere i terroristi” a ribadire l’alleanza col Qatar che ospita la più importante base aerea USA in Medio Oriente.

Prima con la titubanza di Barack Obama, ora con il caotico interventismo di Donald Trump, gli Usa mantengono elevata la conflittualità, favorendo la destabilizzazione del Medio Oriente, area energetica non più necessaria per un’America ormai autosufficiente e destinata a diventare tra pochi anni.

Anzi, dopo il fallito tentativo saudita di distruggere l’industria dello shale americana, con la politica del ribasso dei prezzi del greggio, appare evidente che un Medio Oriente in fiamme favorirebbe l’export di gas e petrolio statunitense.

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Resta da chiedersi quali interessi abbiano l‘Italia e l’Europa a seguire gli USA su questa strada. E’ nostro interesse aumentare le tensioni in un Medio Oriente indispensabile per i nostri approvvigionamenti energetici? Ci conviene un confronto con l’Iran con il quale stiamo rilanciando la cooperazione economica o con la Russia nostro partner energetico strategico nella lotta all’islamismo sunnita?

Cosa stiamo a fare in una Coalizione a guida americana che bombarda le truppe siriane e le milizie filo-iraniane in prima linea da sempre nel combattere Isis e altre milizie jihadiste? Abbiamo obiettivi e interessi da perseguire o andiamo solo a ruota degli USA?

Si attendono articolate risposte da Roma e Bruxelles.

Foto: US DoD, IRNA, Ministero Difesa russo, SANA e CNN

 

Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli

Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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