Gli obiettivi della strategia missilistca di Kim (e di Pechino)

Da Il Mattino del 30 agosto (titolo originale “Nord Corea, la sfida alza il rischio”)

 

Il missile balistico a medio raggio nordcoreano che ieri mattina è caduto in mare al termine di un volo di 2.750 chilometri e dopo aver sorvolato il cielo dell’isola nipponico di Hokkaido, rappresenta senza dubbio un ulteriore grave passo nella progressiva escalation determinata dai test balistici del regime di Pyongyang.

La comunità internazionale lancia moniti al regime e si interroga circa gli obiettivi perseguiti da Kim Jong-un, non facilmente comprensibili soprattutto se si resta ancorati alla narrativa del regime comunista guidato da un pazzo o alla valutazione che Pyongyang voglia la guerra e le sue iniziative provochino gli Stati Uniti ma mettano in difficoltà anche la Cina.

MAP AFP

Ipotesi forse giustificate dagli ultimi fitti test missilistici ma che non rispondono a nessuna logica sensata e sembrano prive di una malizia forse necessaria a tentare di interpretare gli eventi.

Al di là dei toni della propaganda, l’arsenale missilistico e atomico di Kim non è stato costituito per attaccare Washington, Tokyo o Seul ma per impedire un attacco di questi ultimi che farebbe collassare un regime che ha investito sulle armi di distruzione di massa anche perché consapevole di non avere le risorse finanziarie per mantenere competitivo un apparato militare convenzionale elefantiaco ma in gran parte obsoleto.

D’altra parte le armi nucleari hanno lo scopo di esprimere deterrenza.

Se si escludono gli ordigni di Hiroshima e Nagasaki, impiegati per far cessare un conflitto che avrebbe provocato altri milioni di morti nella conquista del Giappone, le armi atomiche e i missili balistici che le trasportano sono sempre stati concepiti come deterrente necessario a scongiurare le guerre, non a combatterle.

Così è stato nel confronto tra Urss e Usa ma anche in quello tra India e Pakistan, o India e Cina, oppure tra Israele e i paesi arabi: Stati che, non casualmente, hanno cessato di combattersi in campo aperto da quando dispongono di armi nucleari e missili balistici.

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L’ultimo missile lanciato da Kim, probabilmente un Hwasong-12 a raggio intermedio come quelli che a Ferragosto avrebbero dovuto colpire (secondo le minacce di Pyongyang) l’isola statunitense di Guam, ha sorvolato l’arcipelago nipponico mettendo in allarme la difesa aerea ma dimostrandone anche le difficoltà a intercettare armi del genere.

Era già successo che missili balistici nordcoreani sorvolassero le isole nipponiche ma nelle due occasioni precedenti si trattava di vettori impiegati nei test per la messa in orbita di satelliti mentre quello di ieri è stato un test bellico del missile probabilmente già in grado di imbarcare testate atomiche.

L’obiettivo di Pyongyang non era colpire il Giappone, del resto le autorità di Tokyo hanno confermato che non si sono stati danni né disturbi al traffico aereo o marittimo, ma probabilmente dimostrare che gli Stati Uniti non sono in grado di proteggere i loro alleati regionali, Corea del Sud e Giappone.

Obiettivo pienamente raggiunto a giudicare dalle reazioni degli Usa, che alzano la voce e ribadiscono che “nessuna opzione viene esclusa” ma di fatto sono consapevoli che un attacco militare a Pyongyang scatenerebbe devastanti rappresaglie su Seul, quanto meno con le armi chimiche che equipaggiano cannoni, razzi e missili a corto raggio posizionati lungo il 38° Parallelo, a tiro della capitale sudcoreana.

Donald Trump sa che questa guerra non si può combattere (come aveva sostenuto fin dall’inizio della crisi il consigliere Steve Bannon prima di venire “silurato” dal presidente), così come Kim Jong-un è consapevole che se attaccasse Seul o Tokyo nulla potrebbe metterlo al riparo da una durissima risposta militare.

Il braccio di ferro determinato dalle provocazioni continue, ma prive di conseguenze, consente ai nordcoreani di evidenziare i limiti della potenza militare americana. Un risultato che non può che risultare gradito a Pechino che da tempo sembra voler portare Trump al tavolo di un ampio negoziati strategico che ridefinisca gli equilibri nell’area del Pacifico (includendo Taiwan e gli arcipelaghi contesi del Mar Cinese) ma finora ha incassato dalla Casa Bianca solo lamentele e minacce di contromisure economiche.

Per questo, al di là del linguaggio diplomatico, potrebbe non essere esatto considerare la Cina estranea o addirittura “vittima” delle provocazioni di Kim, così come anche Mosca non si rammaricherà troppo delle difficoltà di Trump a rincuorare gli alleati del Pacifico di fronte al lancio reiterato dei missili balistici di Pyongyang.

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Pare evidente che se Mosca e Pechino volessero davvero fermare Kim, potrebbero bloccare il transito di derrate alimentari, medicinali, carburante e generi primari che ogni giorno attraversano le frontiere con la Corea del Nord garantendone la sopravvivenza.

Inoltre, non tutti i missili nordcoreani “vengono per nuocere”. Uniti ai limiti dell’ombrello statunitense, favoriscono la politica di pesante riarmo varata dal premier nipponico Shinzo Abe che ha fatto modificare la Costituzione per consentire anche l’impiego all’estero delle forze armate, ancora definite “di autodifesa” in ossequio al trattato di pace del 1945 che vietava a Tokyo di disporre di uno strumento militare offensivo.

Oggi in Giappone (ma anche in Corea del Sud) si dibatte circa l’opportunità, o la necessità, di dotarsi della “bomba”, di un deterrente nucleare per bilanciare l’arsenale di Kim come pure quello cinese.

Una corsa al riarmo nucleare forse non immediata, di certo tecnologicamente alla portata delle due potenze economiche asiatiche, ma che sancirebbe la piena autonomia strategica di Tokyo e Seul dall’ombrello nucleare statunitense indebolendo così le prerogative di Washington in quella vasta regione che la Cina, ormai potenza marittima oltre che continentale, considera il suo giardino di casa.

Foto: Getty Images, AFP, Yonhap e Reuters

Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli

Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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