I piani di Washington per i Balcani (secondo l’Atlantic Council)

Nel mese di novembre, il think tank statunitense Atlantic Council (AC) ha pubblicato uno studio di 20 pagine intitolato “Balkans Forward. A new US strategy for the region”, partendo dal presupposto che “mentre gli Stati Uniti e l’Europa sono concentrati sui propri problemi interni, la Russia e altri paesi stanno ridisegnando il paesaggio geopolitico della regione”. Gli autori, infatti, hanno evidenziato quelle che a loro modo di vedere sono le principali azioni con cui Mosca tenta di far precipitare la regione verso uno stato di caos (indebolendo così sia Bruxelles che Washington), nonché le possibili soluzioni per contrastare questa “influenza maligna”.

Per comprendere il testo è innanzitutto fondamentale notare come secondo l’AC lo scopo finale della politica statunitense verso i Balcani dovrebbe essere quello di giungere all’integrazione euroatlantica dell’area, facendo quindi entrare quanto prima nella NATO e nella UE gli Stati non ancora membri. Questa tesi viene ritenuta in linea con lo sforzo intrapreso in seguito agli accordi di Ohrid del 2001, quando emerse l’idea che la partecipazione all’Alleanza Atlantica avrebbe garantito i confini allora esistenti, mentre la possibilità di accedere ai mercati europei avrebbe spinto i governi locali a intraprendere con decisione la via delle riforme interne e ad abbandonare le tradizionali divisioni.

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L’insuccesso della politica appena menzionata, viene però fatta dipendere non tanto dagli errori commessi dai cosiddetti policymakers o dagli atteggiamenti spesso paternalistici con cui Bruxelles e Washington si relazionano con gli attori ex – jugoslavi, ma alla combinazione di diversi fattori quali l’influenza russa (Mosca viene apertamente accusata del presunto tentativo di golpe in Montenegro), la Brexit e il referendum olandese sull’Ucraina, nonché le dichiarazioni di Trump sulla politica estera statunitense.

Il risultato di ciò, sempre secondo gli autori, è che “i Balcani occidentali sono diventati un posto molto più pericoloso”, mentre la credibilità dell’Unione Europea, soprattutto dopo la moratoria sull’allargamento imposta da Juncker, è rimasta intatta solo grazie al ruolo della Germania, che ha creato una sua politica indipendente verso l’area sud-orientale del continente.

Partendo quindi da questi presupposti, vengono sviluppate una serie di altre considerazioni, che per semplicità del lettore verranno riassunte nell’ordine in cui compaiono nel paper.

  • LE DIVISIONI ABBONDANO: in questo primo capitolo, grande attenzione viene data all’ascesa al potere di Aleksandar Vucic e alla sua promessa iniziale di avvicinarsi alla UE e trovare una soluzione accettabile per la Serbia sulla questione kosovara. In particolare il presidente serbo viene criticato per aver cercato il supporto della Russia, vista come un possibile appoggio nel caso in cui il progetto europeo dovesse continuare ad affondare. Mosca, dal canto suo, viene attaccata a causa dei suoi stretti rapporti con Milorad Dodik (presidente della Rep. Srpska), ossia il leader che assieme ai suoi più stretti collaboratori avrebbe “speso un decennio a cercare di distruggere le fragili strutture della Bosnia”. Sorprendentemente, però, nell’ambito della crisi del Paese viene anche riconosciuta una certa responsabilità alla comunità croata di Bosnia e, in misura minore, a quella musulmana. La responsabilità del Cremlino, comunque, secondo l’AC si estende ulteriormente al Kosovo, in cui viene accusato di aver realizzato “fake news” per aizzare i serbi contro gli albanesi, al Montenegro e, soprattutto, alla Macedonia. Proprio quest’ultima è l’oggetto di un lungo approfondimento, nel quale, viene elogiato il nuovo Primo Ministro Zoran Zaev, capace di spodestare il VRMO-DPMNE, ossia il partito dell’ex premier Gruevski, considerato troppo vicino alla Russia. Ciò che stupisce di più, però, è l’ammissione che anche in Kosovo il nazionalismo spinto rappresenti una preoccupazione, nonostante Pristina venga spesso rappresentata come un alleato di ferro degli USA e la dimostrazione più chiara del successo della politica estera americana nell’area.

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  • COSA VUOLE LA RUSSIA? Si tratta del passaggio probabilmente più controverso dell’intero studio, in quanto, più che di un’analisi, assume i toni di un vero e proprio attacco nei confronti di Mosca. Questa, infatti, viene accusata di condurre una politica distruttiva incentrata sull’ottenimento di 3 obiettivi separati:
    1. Distrazione: ossia la creazione di confusione nell’area balcanica allo scopo di spostare il focus euro-atlantico dalle zone di maggiore interesse (come l’Ucraina) ai Balcani;
    2. Minaccia: destabilizzare scientemente l’ex-Jugoslavia, in quanto un’eventuale escalation (viene fatto esplicito riferimento ad una nuova guerra civile) rappresenterebbe appunto una minaccia diretta all’Europa;
    3. Precedente: mettere cioè in discussione i confini post-Dayton per modificare anche quelli della Crimea, del Donbass e delle Repubbliche Baltiche.

Come già avvenuto nel caso delle simulazioni della Rand e di altri think-tank su un’ipotetica invasione russa del Baltico, emerge qui l’idea che Mosca rappresenti ormai un chiaro nemico non solo dell’Occidente, ma anche delle stesse popolazioni destinate ad essere vittime della Sua politica estera. Proprio l’aspetto relativo alla volontà di queste nazioni assume una notevole importanza in quanto, contrastando parzialmente con quanto scritto nelle pagine precedenti, l’AC evidenza come “la popolazione della regione sa che non c’è futuro assieme alla Russia” che “rimane un attore relativamente debole nella regione”. Questi aspetti, quindi, vengono usati in quella che sembra essere a tutti gli effetti la riproposizione della missione universalistica americana per la liberazione dei popoli oppressi da regimi o influenze non democratiche.

epa04167878 US NATO soldiers of the 2nd Squadron, 38th Cavalry Regiment (2-38th) prepare to conduct parachute training exercises to keep soldier skills fresh at Camp Bondsteel, Kosovo, 15 April 2014. The USA is one of the major contributors to the NATO-led KFOR mission in Kosovo with 750 soldiers who are part of a total of 4,882 troops. EPA/VALDRIN XHEMAJ

  • SOTTO I RIFLETTORI: CORRUZIONE, NON “ODI ANTICHI”: abbandonando per un attimo il ruolo “malefico” di Mosca, in questa sezione l’accento viene messo sulle ragioni che hanno portato le diverse etnie a combattersi nel corso dei secoli. Secondo gli autori, la causa scatenante di questo fenomeno è da ricercare nella presenza di stati disfunzionali, corrotti e frutto di una scarsa esperienza nell’autogoverno. Conseguenza di ciò sarebbe l’affermazione costante, negli ultimi anni, di uomini forti, attorno ai quali si concentra l’intero potere istituzionale. A sostegno di tale tesi vengono portati i casi di Milo Đukanović (Montenegro), Hashim Thaçi (Kosovo) e Milorad Dodik (Rep. Sprska), ma anche di Aleksandar Vučić (Serbia), Dragan Ćović (Croati di Bosnia) e Bakir Izetbegović (comunità bosgnacca).

Il ragionamento, per quanto sensato, incontra però un grosso limite nel momento in cui ci si accorge che alcuni di questi “big men” sono stati e sono tutt’ora dei partner fondamentali per Washington e Bruxelles, nonché che la loro stessa ascesa al potere è stata fortemente caldeggiata dagli Stati Occidentali. Lo stesso procedimento è infatti attualmente in atto con Zoran Zaev, che sta lentamente sostituendo Gruevski nel ruolo di “uomo forte” della Macedonia. Infine, non va neppure dimenticato che buona parte della politica europea dell’ultimo secolo è stata, nel bene e nel male, dettata e plasmata da singoli leader carismatici o “illuminati”.

  • UNA SVEGLIA PER GLI STATI UNITI: partendo dall’assioma secondo cui i Balcani rappresentano il “ventre molle dell’Europa”, l’Atlantic Council ritiene che la chiave della sicurezza e di conseguenza dell’instabilità dell’area, sia rappresentata dalla Bosnia Erzegovina, la cui unità è messa a repentaglio da quello che viene definito “settarismo” (il nazionalismo). A questa considerazione vengono affiancati anche un approfondimento sulla cosiddetta “rotta balcanica” dell’immigrazione e una breve descrizione del fenomeno dell’estremismo islamico.Lo scopo è quello di evidenziare gli ambiti su cui la Russia (sempre lei) ha investito maggiormente per seminare discordia nella regione. Proprio in risposta a questo sforzo nemico, l’AC ritiene sia fondamentale che gli USA riprendano il proprio ruolo di stabilizzatori, il che sarebbe possibile attraverso 3 azioni potenzialmente in grado di mutare l’intero scenario locale:

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  1. Stabilire una presenza militare permanente nell’Europa sud-orientale, partendo chiaramente dalla base di Bondsteel, già in grado di ospitare un contingente di 7000 uomini. Il tutto potrebbe essere facilitato dalla fine della missione KFOR, a cui dovrebbe seguire un crescente impegno militare statunitense nell’area. Come è facile immaginare, infatti, il Kosovo sarebbe ben felice di poter ospitare altri soldati statunitensi, mentre la popolazione serba non avrebbe altra scelta che affidarsi alle truppe straniere per veder garantita la propria sopravvivenza e permanenza. Un contingente “sostanzioso”, inoltre, garantirebbe gli attuali confini degli alleati e permetterebbe di accreditare gli USA come potenza realmente interessata alla difesa dello status quo. Secondo gli autori, inoltre, a ciò dovrebbe essere affiancata la proposta di fornire supporto agli “amici” nelle operazioni di controspionaggio, spingendoli magari proprio a richiedere un tale intervento.
  1. Perseguire uno “storico” riavvicinamento con la Serbia, ossia convincere Vučić ad annacquare i legami con Mosca e i media locali a dare “un’adeguata copertura mediatica” a quelli che sarebbero i risultati (positivi) di un avvicinamento agli USA. Quest’ultimo aspetto, in particolare, è interessante, in quanto evidenzia una parziale verità. Infatti, sebbene il Presidente sia in grado di influenzare pesantemente quotidiani e televisioni, non va dimenticato che una buona fetta dei media locali sono di proprietà straniera (soprattutto tedesca, americana e turca).
  1. Riguadagnare la reputazione statunitense di onesto intermediario, ossia sfruttare le debolezze europee per guadagnare terreno. Nella prima parte di questo paragrafo, infatti, viene ribadita l’attitudine (sbagliata) che ha portato l’Europa a credere che qualsiasi problema potesse essere risolto con la semplice promessa di entrare a far parte dell’unione, usando cioè una leva prettamente burocratica. Nella più classica versione dell’eccezionalismo statunitense, quindi, risulterebbe compito di Washington correggere la miopia di Bruxelles, soprattutto attraverso una diversa gestione del rapporto con gli uomini forti locali.
  • DALLA SICUREZZA ALLA PROSPERITÀ: l’ultimo capitolo, forse quello più politico e meno tecnico, può essere riassunto con una semplice frase: “dovrebbe essere reso chiaro ai Russi che stanno solo perdendo tempo e denaro cercando di spargere caos nella regione”.

Alla luce di quanto sopra, è ora possibile fare una serie di commenti tecnici sul paper. Il primo aspetto da portare all’attenzione è certamente che non si tratta di un lavoro qualitativamente interessante, quanto piuttosto di un manifesto programmatico che risponde ad una serie di esigenze.

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La più importante è quella di dare una giustificazione al perseguimento di una politica anti-russa nei Balcani. Nonostante lo sforzo di inserire dei sondaggi relativi al supporto di cui godono gli USA nell’area, però, questa sembra essere motivata più da una chiara ostilità nei confronti del Cremlino unita ad una sorta di “fardello dell’uomo bianco” che da una reale paura delle popolazioni locali per quanto sia in grado di fare Mosca.

Inoltre, risulta anche peculiare il fatto che ad una presunta minaccia asimmetrica, l’Atlantic Council proponga di rispondere nel modo più convenzionale che gli USA conoscono, ossia mettendo sulla bilancia il peso delle proprie forze armate e della propria economia.

Oltre a ciò, emerge con chiarezza la sottovalutazione del pericolo rappresentato dall’estremismo islamico rafforzatosi lungo l’asse Bosnia-Sangiaccato-Kosovo-Albania, il che però non stupisce, in quanto il think tank gode di forte supporto proprio in alcuni dei paesi che hanno maggiormente investito per “reislamizzare” i Balcani. Questo “omissis” è particolarmente grave, in quanto si inserisce in quella diffusa tendenza a sottostimare il ruolo imperialista di alcuni stati musulmani per ragioni economiche e politiche.

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Il terzo punto che colpisce è la totale assenza di fonti in lingua locale e la presenza di pochi riferimenti a studiosi o esperti provenienti dall’area. Se ciò è da un lato giustificato dall’oggettiva difficoltà del mondo accademico locale di realizzare opere di qualità, dall’altro finisce per limitare notevolmente le fonti e orientarle inevitabilmente in senso-filo occidentale, dato che solitamente i grandi network in lingua inglese non danno troppo spazio alle voci più critiche delle politiche euro-atlantiche.

Infine, sebbene vi siano numerosi riferimenti al ruolo complementare di USA e UE, il documento sembra tracciare piuttosto le linee guida per sostituire Bruxelles in loco, un’ambizione non esagerata visto che, come sottolineato in precedenza, a causa della debolezza italiana e del disinteresse francese, la politica europea nei Balcani si limita alle azioni tedesche e agli spunti individuali di Federica Mogherini.

Quanto sopra, sebbene non rifletta in pieno la linea dell’attuale amministrazione americana, deve rappresentare un campanello d’allarme per tutti quei paesi (Italia in primis) che hanno forti interessi nell’area e che rischierebbero seriamente di trovarsi “fuori dai giochi” qualora anche solo alcune delle linee guida proposte dovessero essere messe in pratica. In aggiunta a ciò, grande attenzione e cautela dovrebbe essere applicata anche alla tendenza di alcuni ambienti interventisti presenti fra i democratici e i conservatori americani a interpretare qualunque sfida geopolitica con il prisma dello scontro fra Est e Ovest, sia perché ci farebbe nuovamente finire sulla linea di fuoco, sia perché ci impedirebbe di prestare le dovute attenzioni ai competitors più attivi, come Turchia, monarchie del Golfo e Cina.

Foto: Reuters, EPA, KFOR e RT

Triestino, analista indipendente e opinionista per diverse testate giornalistiche sulle tematiche balcaniche e dell'Europa Orientale, si è laureato in Scienze Internazionali e Diplomatiche all'Università di Trieste - Polo di Gorizia. Ha recentemente pubblicato per Aracne il volume “Aleksandar Rankovic e la Jugoslavia socialista”.

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