SIPRI YEARBOOK 2013: COSA CAMBIA NELLA SPESA MILITARE MONDIALE

Nei giorni scorsi, il noto istituto di ricerca svedese SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute) ha pubblicato il proprio rapporto annuale sull’evoluzione della spesa militare su scala mondiale. Subito un paio di doverose precisazioni; la prima, se vogliamo più banale, è che il «SIPRI Yearbook 2013» fa in realtà riferimento all’anno precedente. La seconda è più sostanziale e fa riferimento alle difficoltà (oggettive) di definire con precisione i reali livelli di tali spese per ogni singolo Paese; ne è la dimostrazione il frequente ricorso a stime (e non a dati ufficiali) che indicano un certo lavoro di interpretazione rispetto ai criteri di definizione della spesa militare adottati dallo stesso istituto. Un esempio evidente è rappresentato proprio dall’Italia; al nostro Paese viene infatti attribuito un impegno finanziario ampiamente superiore a quello reale per ragioni che sarà possibile approfondire più avanti. Le stesse identiche considerazioni possono peraltro essere estese ad alti Paesi e, del resto, appare chiaro l’obiettivo (del tutto legittimo) del SIPRI di dimostrare livelli elevati di spesa militare. Svolta dunque questa utile premessa e tenuto conto perciò di tutti i limiti di un simile lavoro, non si può non sottolineare la sua utilità quando ci si concentra sulla tendenza di più lungo periodo che riesce a restituirci.

Cala la spese mondiale
Il primo dato di rilievo che emerge dall’ultima edizione dell’«Yearbook» è che la spesa militare mondiale con i suoi 1.753 miliardi di dollari è calata (in termini reali) dello 0,5% tra il 2011 e il 2012, assestandosi al 2,5% del PIL mondiale; una contrazione a dir poco modesta che tuttavia segna un’inversione di tendenza per certi versi storica. Si tratta infatti della prima diminuzione da quasi 15 anni a questa parte in quanto dal 1998 in poi si era assistito a una crescita interrotta; per quanto sarà poi necessario attendere il prossimo anno per conoscere i dati del 2013, non è certo azzardato ipotizzare una ulteriore diminuzione. Tale evento, in definitiva, non rappresenta altro se non la naturale evoluzione di quanto sta accadendo da 2009, cioè da quando tali livelli hanno dapprima cominciato a mantenersi pressoché costanti e, successivamente, hanno intrapreso la strada di una discesa per effetto della crisi economico-finanziaria globale cominciata un anno prima; quest’ultima si sta facendo sentire ora in maniera consistente (e anche inevitabile), senza che vi siano peraltro segnali di nuova inversione di tendenza.
Il SIPRI fa comunque notare che, sempre in termini reali, la cifra del 2012 risulta comunque superiore a quanto si spendeva 25 anni fa e cioè in quel 1988 (appena 12 mesi prima la caduta del Muro di Berlino) considerato come l’ultimo anno del confronto tra NATO e Patto di Varsavia. In realtà, per un paragone più compiuto, bisognerebbe ricordare che il picco della spesa militare si ebbe qualche anno prima e che i dati di oggi sono influenzati dal peso che le operazioni reali (sotto forma di missioni internazionali) esercitano sui bilanci della Difesa dei vari Paesi. Ma se il 2012 verrà per l’appunto ricordato per questo primo dato storico, e cioè il calo della spesa militare mondiale dopo 13 anni, un altro argomento contribuirà a renderlo importante; il sorpasso da parte dell’area Asia-Pacifico sull’Europa in termini di risorse destinate alla Difesa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

In realtà, questo dato non si evince direttamente dal lavoro del SIPRI; ciò a causa del fatto che la suddivisione per aree geografiche adottata in questo caso è abbastanza singolare. Si distinguono infatti: Nord America, America Latina (comprendente dunque quella Centrale e quella Meridionale), Europa Centrale e Occidentale, Europa Orientale (comprendente ad esempio Russia e Ucraina); Medio Oriente (secondo un’interpretazione molto ampia, comprensiva di ben 15 Paesi compresi quelli del Golfo Persico), Africa (ma senza, per esempio, l’Egitto) e infine Asia-Oceania. Ebbene il SIPRI stesso certifica comunque che tra il 2011 e il 2012 si sono verificati importanti cambiamenti; cala il peso percentuale del Nord America (dal 42 al 40%), quello dell’Europa Centrale e Occidentale (dal 19 al 18%) rimangono stabili quelli dell’America Latina e dell’Africa (rispettivamente al 4 e al 2%) e, infine, aumentano quello dell’Europa Orientale (dal 5 al 6%), del Medio Oriente (dal 7 all’8%) e, soprattutto, dell’Asia-Oceania (che passa dal 21 al 22%).

Alla conferma di questo risultato contribuisce però anche un’altra prestigiosa pubblicazione, il «Military Balance» dell’International Insitute for Strategic Studies di Londra; nella sua recente edizione 2012 presentata nel marzo scorso, viene sottolineato che l’Europa (Paesi NATO e non NATO) è stata superata dall’Asia-Australasia, con la prima attestata al 17,6% e la seconda che raggiunge il 19,9%.
Sorpasso che avviene per la contemporanea presenza di 2 fattori concomitanti; da un lato il “Vecchio Continente” che spende sempre meno e dall’altro un’area sempre più “calda” impegnata in una inquietante corsa al riarmo. Prima di tornare ad affrontare di nuovo ciò che accade in Europa, soprattutto rispetto al dettaglio della specifica situazione italiana, di particolare interesse risulta un’ulteriore analisi all’interno delle singole regioni. In particolare, nel Nord America il SIPRI registra il vistoso calo degli Stati Uniti; -6% rispetto al 2011. Un dato in larga parte determinato dalla diminuzione dei fondi supplementari destinati alle OCO (Overseas Contingency Operations, le missioni all’estero) e solo in minima parte dagli gli effetti del Budget Control Act del 2011 che ha determinato un taglio di 487 miliardi di dollari tra gli anni fiscali 2012 e 2021. Considerando inoltre che gli anni a venire saranno caratterizzati dal cosiddetto “sequestration”, cioè i tagli automatici alle spese per la Difesa (circa 500 miliardi di dollari in 10 anni), ben si capisce quanto potranno cambiare certi equilibri mondiali anche a breve termine, soprattutto se sommati all’analoga tendenza in atto per tutto l’Occidente. Il tutto accompagnato da un paio di puntualizzazioni: la prima è che gli Stati Uniti destinano a questo settore (ancora oggi) più del 4% del proprio PIL mentre la seconda è che (da soli) rappresentano quasi il 40% dell’intera spesa militare mondiale.
Restando in America, ma questa volta Latina, si segnala un aumento generalizzato della spesa (+3,8%) e la conferma del Brasile quale “top spender”, non solo a livello regionale; tale fenomeno riguarda peraltro quasi tutti i Paesi dell’area, da quelli più grandi (come l’Argentina) a quelli di dimensioni inferiori (Venezuela in particolare ma anche Colombia, Cile, Perù e persino il Paraguay). In America Centrale, che registra a sua volta un significativo +8,1% sempre sul 2011, svetta in assoluto il Messico che aumenta ancora i fondi destinati alla Difesa fino ad assorbire quasi tutto il totale di questa regione.

Medio Oriente e Africa

All’insegna della “vivacità” si presentano anche le analisi relative al Medio Oriente e all’Africa; nel primo caso l’aumento tra il 2011 e il 2012 è dell’8,3%, nel secondo la crescita è del 2,3%%. L’aspetto tuttavia interessante che riguarda il continente africano è rappresentato dal fatto che si assiste a una netta separazione fra quanto accade nella sua parte settentrionale e in quella che rimane al di sotto del Sahara; prendendo infatti in esame il solo Nord-Africa si scopre un aumento annuo di quasi l’8% (con l’Algeria che continua a essere protagonista assoluta), mentre l’Africa sub-Sahariana registra un -3,2%. Tornando invece al Medio Oriente, non ci sono novità di rilevo nel senso che Paesi come Turchia, Israele ed Egitto (intesi peraltro più come Vicino Oriente) continuano a essere protagonisti quali “big spender” della regione; da quest’ultimo Paese giungono tuttavia segnali contrastanti mentre a rendere più difficile l’analisi contribuisce anche la crisi Siriana. Quanto sta invece accadendo nell’area del Golfo Persico non è certo una novità; la minaccia Iraniana contribuisce ad alimentare una corsa praticamente senza freni. Oltre all’Arabia Saudita (che, nel frattempo, negli ultimi 10 anni ha più che raddoppiato il proprio bilancio della Difesa), si segnalano gli aumenti (rigorosamente a doppia cifra) di Oman e Kuwait mentre permangono le difficoltà a definire i livelli di spesa di Paesi importanti come Iran e Emirati Arabi Uniti; per questi ultimi comunque, è tutto fuorché azzardato ipotizzare un andamento in linea con il resto della regione.

Corsa al riarmo in Asia
Uno dei “piatti forti” dell’analisi non può che essere rappresentato dall’Asia-Oceania (secondo la definizione del SIPRI) dove la spesa è aumentata di un altro 3,3%; e non inganni tale valore, solo all’apparenza modesto, perché in realtà esso fa parte di un trend che prosegue ininterrottamente da oltre 10 anni. In prima fila troviamo ovviamente la Cina, ormai saldamente al secondo posto nella classifica mondiale; con una nuova crescita del 7,8% sul 2011 (fino a 166 miliardi di dollari), l’aumento su base decennale raggiunge ora il 175%. Ricordato l’andamento sostanzialmente piatto delle spese per altri 2 protagonisti non solo a livello regionale, India e Giappone, il SIPRI rimarca invece gli exploit di Vietnam e Indonesia; per quanto poi non menzionati direttamente nelle anticipazioni rese note dall’Istituto svedese, è ovvio che grandi Paesi come la Corea del Sud, ma anche altri di dimensioni minori (Taiwan, Singapore e Filippine), continueranno a percorrere la strada di un potenziamento dei rispettivi strumenti militari. Unica eccezione al momento l’Australia, che sembra risentire più di altri dell’attuale crisi economica.
Considerando poi che le tensioni nell’area (tra Corea del Nord e dispute territoriali) non fanno che aumentare, è opinione diffusa che tale crescita non sia destinata a esaurirsi nei prossimi anni; anzi!

L’Europa “disarma”?
Ecco dunque il momento di tornare ad affrontare il tema dell’Europa. Partendo da quella che il SIPRI definisce come Europa Orientale, spiccano i dati di Russia e Ucraina; la prima mette a segno un altro +16% sul 2011 e consolida la sua terza posizione a livello mondiale con oltre 90 miliardi di dollari; impressionante anche il dato decennale, +113% (cioè un bilancio più che raddoppiato). Di rilievo anche la performance dell’Ucraina, anch’essa con un aumento a doppia cifra.
Piuttosto articolata invece appare la situazione in Europa Occidentale e Centrale. Il dato di fondo è una lenta ma costante erosione complessiva dei bilanci della Difesa a partire dal 2008, tanto che nel quinquennio 2008÷2012 la spesa totale è calata di poco meno del 7%. Il punto importante da sottolineare è però rappresentato dalla considerazione che i 3 più grandi Paesi europei (Regno Unito, Francia e Germania) in questo lasso di tempo non hanno registrato variazioni significative; esattamente il contrario di quello accaduto alla stragrande maggioranza del resto dell’Europa. A questo proposito il SIPRI ricorda che, sempre a partire dal 2008, 20 dei 37 Paesi europei hanno tagliato di più del 10% i propri fondi della Difesa. Un evento per certi versi inevitabile visita la grave crisi economica-finanziaria, accompagnata da quella dei debiti sovrani, che sta investendo (quasi) tutta l’Europa.

Sull’Italia dai inaffidabili
In questo quadro già a tinte fosche spicca il caso dell’Italia; come già accennato in precedenza, il dato dell’Istituto di Stoccolma sul nostro Paese è in realtà una stima, Il problema è che questa stima indica un livello di spese militari per il nostro Paese che (da sempre) è definibile come “fantasioso”; per il 2012, esso viene infatti fissato in 34 miliardi di dollari, che al cambio attuale corrispondono (indicativamente) a 26 miliardi di euro. Il dato reale è, come noto, molto diverso visto che in quell’anno le spese per la Difesa in Italia sono state pari (tenuto conto di tutti gli stanziamenti riferibili al comparto Difesa) a poco più di 17 miliardi di euro. Le ragioni di questo divario non sono di facile comprensione; questo perché non esistono elementi di informazione da parte del SIPRI stesso circa le fonti dalle quali sono attinti i dati, se e come sono successivamente elaborati né esistono indicazioni di come questi fondi sono reperiti e poi spesi. D’altro canto si può immaginare che l’inclusione nel conteggio totale della voce “paramilitary forces” (nel caso italiano, l’Arma dei Carabinieri) possa costituire un elemento di cui tenere debito conto. Allo stesso tempo, il fatto che nelle spese siano conteggiati i trattamenti previdenziali per il personale ritirato dal servizio finisce con il rappresentare una sorta di “trucco” contabile per il nostro Paese; giova ricordare che i contributi sono già conteggiati alla voce relativa al Personale delle Forze Armate. Ripristinato un minimo di verità, l’aspetto utile del lavoro svolto dal SIPRI si ritrova, come detto, nella capacità di restituire una tendenza della spesa militare su lungo periodo sufficientemente coerente.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Come si evince infatti dalla tabella (e fatta salva anche la contrazione sul 2011 del 5,2%), la cifra che risalta con grande evidenza per il nostro Paese, è il calo su base decennale: -19%. Considerato poi che solo 5 dei 15 “top spender” hanno visto diminuire il livello delle spese militari nell’ultimo decennio, e tutti con valori comunque inferiori al 5%, il dato per l’Italia è inequivocabile: circa un quinto del bilancio della Difesa andato in fumo. Su questo elemento, e più in generale su quanto sta accadendo in Europa, si rende quindi necessaria una riflessione conclusiva. Perché, per quanto sia comprensibile che in questo frangente così sfavorevole da un punto di vista economico anche il settore della Difesa debba (responsabilmente) fare la propria parte è quanto mai corretto, altrettanto responsabile sarà bene incominciare a domandarsi fino a che punto potremo spingerci in questo processo di erosione delle spese militari. Ancora con riferimento all’Europa, non si può infatti fare meno di notare quanto succede intorno a noi; la Russia, perennemente in bilico tra svolta autoritaria e definitiva affermazione della democrazia, continua coltivare i propri sogni di grande potenza aumentando in maniera esponenziale le proprie spese per la Difesa. Il Mediterraneo, che continua a rimanere una fonte di tensioni formidabili, a sua volta impegnato in corsa al riarmo senza precedenti. Il Vicino/Medio Oriente, magari meno prossimo a noi ma non meno importante per svariate ragioni, a sua volta diventato una sorta di “bazar” delle armi. E infine quell’area dell’Asia-Pacifico, questa sì veramente lontana ma di certo non trascurabile in quanto destinata a diventare il baricentro del pianeta, che scavalca proprio l’Europa in termini di spese militari.

Riflessioni per l’Europa

Il mondo sta cambiando, lo sta facendo in maniera rapida e in termini che per noi europei potrebbero essere poco “piacevoli”.
Ecco quindi che quello della costante diminuzione delle spese per la difesa e della analoga diminuzione delle capacità esprimibili dagli strumenti militari diventa un campanello d’allarme; un segnale che ci impone di fare delle scelte.
Inutile illudersi, Il sogno del singolo Paese capace di “fare da solo” (militarmente parlando) è ormai definitivamente tramontato; né la Francia né il Regno Unito possono prescindere dall’aiuto e dall’assistenza di altri soggetti. Se mai vi fossero stati dei dubbi in proposito, le operazioni sulla Libia lo hanno dimostrato in maniera inequivocabile. È dunque arrivato il momento di affrontare seriamente il tema di una più marcata collaborazione delle Forze Armate dei singoli Paesi europei, mettendo a fattor comune le eccellenze e colmando le lacune in termini di capacità operative ancora oggi numerose. Del resto, gli strumenti per affrontare questi problemi non mancano di certo e sono noti da tempo; dal «Pooling and Sharing» alla specializzazione fino all’integrazione vera e propria. In definitiva, è solo questione di volontà. Un percorso che, oltretutto, impedirebbe di farci invischiare a nostra volta in un circolo vizioso che porti a un continuo aumento delle spese militari come reazione alle scelte di altri perché consentirebbe di ottimizzare l’utilizzo delle risorse disponibili; tale percorso, al tempo stesso, potrebbe anche costituire la risposta adeguata alla tendenza/tentazione di comprimere tali spese (quasi) all’infinito.
Certo, va da sé che questa è, prima di tutto, una scelta di natura squisitamente politica che risponde essa stessa alla visione di un’Europa più unita; ma il punto fondamentale da capire è che non esiste alcun “piano B”.
Se questo nostro “Vecchio Continente” vuole che siano garantite le (ancorché residuali) necessità di difesa dei propri cittadini e, al tempo stesso, vuole essere in grado di fornire il proprio contributo alle esigenze di sicurezza collettiva, non ha scelta; deve agire con decisione (e rapidità) su questa strada. E solo in questo modo sarà possibile immaginare un ruolo adeguato all’Europa stessa sul proscenio internazionale ed evitare quella marginalizzazione che, sotto molti punti di vista, incomincia già a materializzarsi.
In tutto questo c’entra, come è ovvio che sia, anche l’Italia; non fosse altro per il fatto che essa risulta ancora più esposta a certi tipi di minacce (per una mera questione geografica oltreché per il soddisfacimento di specifici fabbisogni primari) e perché da sempre troppo poco attenta alle questioni riguardanti la propria sicurezza nonché al proprio ruolo sulla scena internazionale.
Anche in questo caso di opzioni più o meno “esotiche” non ne esistono; stante l’attuale (e sperabilmente futuro) livello di risorse disponibili, non resta che adattarvi lo strumento militare di conseguenza. Questo significa, all’insegna dunque del pragmatismo più estremo, allestire Forze Armate snelle, efficaci ed efficienti; ma accanto a queste caratteristiche occorrerà anche aggiungere quella giusta dose di lungimiranza affinché esse siano preparate ad affrontare in maniera adeguata quella possibile più ampia integrazione in ambito europeo. Solo in questo modo all’Italia sarà possibile recitare un ruolo da protagonista e avere la giusta voce in capitolo.
Avendo cura di ricordare a tutti i pacifisti “nostrani” che, nel pieno rispetto delle rispettive opinioni, il comparto Difesa ha già fornito un ampio contributo alle politiche di risanamento della finanza pubblica del nostro Paese e che quindi, continuare a teorizzare improbabili livelli di spesa militare o l’assenza di tagli reali a tale comparto quale giustificazione per nuovi interventi in senso riduttivo, non è utile a nessuno.
Così come, per quanto ovvio possa sembrare, sarà opportuno ricordare che la sicurezza (nel senso più ampio del termine) di un Paese non è mai gratis; fare parte di una comunità internazionale significa godere dei diritti che tale partecipazione comporta ma anche far fronte ai doveri che da essa scaturiscono. E fra questi doveri c’è anche quello di fornire il proprio contributo, finanziario e non solo. Che poi l’Italia abbia bisogna di far partire (una buona volta) un dibattito lucido, serio e più ampio possibile sulle proprie politiche di sicurezza-difesa, e dei loro risvolti su quella estera, non ci sono dubbi. Ma che la base di questo stesso dibattito possa essere il ricorso alla falsificazione/manipolazione dei dati o (peggio ancora) alla menzogna, non è accettabile. E quello che ci racconta almeno in parte il «SIPRI Yearbook», pur con tutti i suoi (enormi) limiti e difetti, è lì a dimostrarlo.

Giovanni MartinelliVedi tutti gli articoli

Giovanni Martinelli è nato a Milano nel 1968 ma risiede a Viareggio dove si diplomato presso l’Istituto Tecnico Nautico per poi lavorare in un cantiere navale. Collabora con Analisi Difesa dal 2002 occupandosi di temi navali in generale e delle politiche di Difesa del nostro Paese in particolare. Fino al 2009 ha collaborato con la webzine Pagine di Difesa.

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