Il mare è nostro, ma anche i dubbi

di Leonardo Tricarico (presidente Fondazione ICSA)

L’operazione Mare Nostrum, così come è stata (o non è stata) delineata solleva questioni importanti prima di tutto sul piano interno. Ancora una volta si profila all’orizzonte ciò che in nessun altro Paese civile accade: Forze Armate  che esercitano supplenza per attività che la legge affida ad altre agenzie, create e finanziate per quegli scopi. Sembra risvegliarsi quella sorta di “richiamo della foresta”, che da due decenni ha portato i soldati nelle strade, in attività di ordine pubblico e sicurezza e che ora si rigenera nei mari, scenario in cui il Ministro della Difesa si avvia ad essere l’operatore dominante, per tempi che potrebbero eccedere la fase emergenziale. Non abbiamo poi visto o sentito il Ministro Lupi, dal quale dipendono funzionalmente le Capitanerie, alle quali la legge italiana affida il coordinamento delle operazioni di ricerca e soccorso in mare, anche nelle loro dimensioni internazionali. Per meglio capire chi fa cosa, secondo quanto stabilito dalla legge, non è il caso che la Presidenza del Consiglio attivi quei famosi tavoli di coordinamento interministeriale che lo stesso vertice di governo ha di recente istituito per decreto, proprio per far fronte a situazioni di crisi in cui è necessaria una robusta opera di composizione di quadri complessi?  L’esperienza delle ultime scorribande nelle diverse articolazioni dello Stato, legate alla vicenda dei marò ed alla “extraordinary rendition”  Shalabayeva, anche tenendo conto delle evidenti differenze, ne consiglierebbero la sollecita attivazione in seduta quasi permanente.

Sul piano tecnico-operativo poi bisognerebbe puntare su un robusto passo diplomatico con i Paesi rivieraschi per far si che i droni, questi mezzi straordinari che possono operare 24 ore su 24,  anziché essere impiegati in una ricerca senza mèta in mare aperto (non sono mezzi di sorveglianza d’area), vengano utilizzati per il pattugliamento delle coste libiche, per individuare in maniera precoce le attività preparatorie all’imbarco e fermarle per tempo. In fin dei conti con la Libia vi sono già attività di cooperazione avviate, è operante un contratto per il controllo della frontiera sud, è stato formalmente accettato un piano italiano di controllo delle frontiere terrestri e marittime, stiamo addestrando da molti mesi le loro forze di sicurezza. Pur nella consapevolezza della fragilità ed evanescenza dell’interlocutore, un tentativo di convincimento, associato a qualche incentivo,  andrebbe di certo fatto.
Sempre sul piano internazionale, il coinvolgimento dell’Unione Europea non può limitarsi alla promessa di potenziare – peraltro con soli 30 milioni di euro- il meccanismo Frontex. Altri Paesi con fragilità strutturali lungo le frontiere marittime o con problemi peculiari di sicurezza nei mari prospicienti, si sono attrezzati con Servizi di Ricerca e Soccorso in mare aperto molto capaci.

 

 

 

 

 

 

 

 

E’il caso ad esempio  di Gran Bretagna, Australia, Canada e Portogallo;  questi ultimi due hanno da tempo posto requisiti stringenti per elicotteri di ricerca e soccorso a distanze dalla costa superiori a quelle del bacino mediterraneo. In Portogallo di recente un elicottero AW 101, un mezzo che può salvare in mare svariate decine di naufraghi, ha compiuto con successo una missione dalle Azzorre della durata di quasi nove ore, a 700 km di distanza dalla costa ed in piena notte. E’ con questo tipo di Servizio, affiancato da altri dispositivi aerei e marittimi associabili, che l’Europa dovrebbe proteggere le sue frontiere a Sud, ad iniziare dai suoi segmenti più esposti. Per una mitigazione del fenomeno emigrazione, questa pare l’unica valida alternativa, ad una perdurante ed impropria militarizzazione unilaterale del Mediterraneo, la cui efficacia e sopportabilità finanziaria sono tutte da dimostrare e su questa alternativa va orientata la nostra diplomazia nel contesto europeo e Mediterraneo.

Foto: il generale  Leonardo Tricarico (in alto) e soccorso ai naufraghi (Marina Militare)

 

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