Chi spara in missione al rientro viene indagato

di Carlotta Ricci  da Il Tempo

In Italia capita anche questo. Capita che se sei un militare di professione puoi essere mandato in Afghanistan. E lì può capitarti che qualcuno ti spari addosso. E tu rispondi al fuoco. Capita più spesso di quanto gli italiani non immaginino.
Se qualcosa va storto torni in una bara avvolta nel tricolore. Le più alte cariche dello Stato si precipitano prima a Ciampino poi nella basilica di Santa Maria degli Angeli. Per tre giorni affollano le televisioni e intasano le agenzie con messaggi di cordoglio. Più o meno il copione è questo. Se invece sei fortunato e torni in Italia sulle tue gambe ti può anche capitare di essere indagato dalla Procura militare. Cosa ti contesta? La “distruzione di oggetti di armamento militare”, i colpi  sparati insomma.
È capitato a una quindicina di militari. Rientrati dopo sei mesi di missione in una delle zone più maledette di tutto il Paese, non hanno fatto neppure in tempo a riambientarsi che è arrivata la surreale sorpresa. Hanno incaricato un avvocato e si sono presentati dai carabinieri.

I casi si sono tutti risolti con l’archiviazione, qualche mese dopo. E dalla Procura fanno sapere che si è trattato di un “errore”. Perché generalmente questi casi vengono iscritti nel cosiddetto modello 45, il registro degli atti che non costituiscono notizie di reato. O, al limite, si apre un’indagine contro ignoti. E così, i fascicoli si aprono e si richiudono senza che nessuno venga a saperne nulla.
Errore o no, tuttavia, a monte un problema c’è e ha a che fare con l’enorme ipocrisia che ammanta le nostre missioni militari all’estero, in particolare l’Afghanistan. E con l’incapacità politica di gestire temi e vicende così delicate.
Nonostante il Codice penale militare di guerra specifichi, all’articolo 9, che le missioni all’estero devono essere assoggettate a quest’ultimo, problemi politici di tenute di maggioranze hanno fatto sì che dal 2006 alle missioni all’estero venisse applicato il Codice penale militare di pace. Una “deroga” confermata in ogni decreto di rifinanziamento delle missioni. Perché l’Afghanistan, si sa, è una missione di pace. E con norme di pace deve essere regolata. Esattamente come se fossimo in Italia. “Ogni volta che avviene uno scontro a fuoco in Afghanistan – racconta Marco De Paolis, Capo della Procura Militare di Roma – io devo agire come se fosse avvenuto in una qualunque strada di qualunque città italiana.

Applicando il codice penale militare di pace devo considerarlo un evento straordinario. Mentre, purtroppo, in Afghanistan tanto straordinario non è”. Insomma, la valle del Gulistan o le stradine insidiose del villaggio di Bala Morghab come via del Corso a Roma. “Sarebbe auspicabile – prosegue il Procuratore – adottare finalmente un corpo di norme attagliate alle missioni all’estero.  Nessuno dei due codici che abbiamo a disposizione ora è adeguato. E dobbiamo attrezzarci con ciò che abbiamo”.

Appunto, il terzo codice, uno strumento ormai divenuto mitologico. Sembra più il titolo di un libro di Dan Brown, ma in realtà è un disegno di legge, su cui hanno studiato esperti e giuristi fin dal 2001, e che ora giace in parlamento. Dal  2010. “È sicuramente modificabile, però almeno è ‘confezionato’ sulle esigenze delle missioni all’estero”, conclude De Paolis.
Le complicazioni, poi, non finiscono qui. Siccome non si tratta di una guerra, non ci sono nemici. Al limite ci sono terroristi. E quindi, quando ad esempio un mezzo italiano salta su un IED, uno di quegli infernali  ordigni esplosivi improvvisati che ormai si fabbricano anche in casa, interviene la Procura ordinaria e il tutto viene segretato. “È un errore perché l’esigenza primaria sarebbe quella di dire a tutti gli alleati, da Kabul  a Mazar-i-Sharif, come è stato confezionato quell’ordigno, se era un piatto di pressione, quali fili hanno usato, a quale telefonino era collegato. Invece il tutto viene posto sotto sequestro. Cosa che oltretutto, in un contesto internazionale, qualche problema lo crea”.

A raccontarlo è il Generale di Corpo d’Armata Marco Bertolini, attualmente comandante del Comando Operativo di Vertice Interforze. In Afghanistan c’è stato nel 2003, a capo del contingente inserito nella missione Nibbio e poi, anni dopo, come Capo di Stato Maggiore di tutta la missione ISAF, la missione NATO in Afghanistan. “Il vero problema è considerare uguali le due realtà, trattare ciò che succede in Afghanistan come se succedesse in Italia.  Ma, mentre qui ho l’esigenza di punire un colpevole, in una situazione come l’Afghanistan, dove non ci sono buoni e cattivi, è impossibile. Oltre che assolutamente irrilevante”. “Nessuno dice che i militari debbano essere al di sopra delle regole. Chi sbaglia è giusto che paghi, ma gli strumenti già ci sono: regole d’ingaggio, diritto umanitario internazionale. Però un corpo di norme più aderenti alla realtà è necessario.  Altrimenti si rischiano situazioni kafkiane da cui si riesce a uscire solo grazie al buon senso di chi applica le norme”.

Insomma, “prima la Procura e poi la medaglia”: così ha commentato, rassegnato, uno dei militari raggiunti dall’avviso di garanzia. Perché sì, dopo la chiusura dei fascicoli molti di quei militari sono stati insigniti di una medaglia per quelle stesse operazioni per cui sono stati indagati. Se non è schizofrenia questa…

Foto: Isaf RC-W

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