Se le forze di Assad risorgono

Dopo oltre quattro anni di guerra civile, le forze armate governative di Damasco resistono e, anzi, accumulano esperienze di battaglia a carissimo prezzo in combattimenti ad alta intensità, e prolungati nel tempo, quale pochi altri eserciti hanno sperimentato in anni recenti. Se l’ISIS verrà battuto e il paese verrà riconciliato, la Siria tornerà a essere un attore temibile, con forze temprate, inserito nell’alleanza sciita con Teheran e Baghdad contrapposta ai sauditi.

 

Quattro anni e mezzo di una feroce guerra civile sul proprio territorio, con combattimenti ad alta intensità e poca o nessuna attenzione per gli “effetti collaterali” sui civili, costituirebbero una prova ardua da superare per qualsiasi esercito del mondo, anche i più evoluti, sia sotto l’aspetto tecnico, sia sotto l’aspetto psicologico.

Possiamo quindi ben dire che le forze armate governative siriane, pur tenendo conto di tutte le difficoltà sul campo e delle tremende perdite subite, abbiano almeno finora dimostrato una tenacia e una combattività degni di riguardo. Con l’aiuto, certamente, degli alleati sciiti, in primis, come l’Iran e le milizie libanesi di Hezbollah, e di recente anche dei russi, che da semplici fornitori di armi e munizioni sono entrati direttamente in lizza dal 30 settembre 2015 coi loro aerei da combattimento.

Certo, le vicende sul fronte siriano sono ancora alterne e il Califfato ISIS resiste, pur accusando colpi da parte dell’aviazione russa e dal conseguente rilancio offensivo delle truppe di terra del presidente Bashar El Assad, sfruttanti l’appoggio dei caccia Sukhoi inviatigli da Vladimir Putin. Ma il non cedere contro avversari feroci come i jihadisti non può che temprare quelli che sopravvivono.

Una dura scuola di guerra

Non esagerava lo scorso 20 ottobre il quotidiano britannico “The Independent” a riflettere sul fatto che i governativi siriani emergeranno da questo conflitto, finisca esso presto o tardi, come il più esperto esercito del Medio Oriente, stanco ed esausto, sì, ma anche rotto a tutte le più brutali sfaccettature del caso e, perdipiù, conscio di aver battuto e/o arginato, pur con l’aiuto di potenti alleati, un nemico temibile.

Chiosava l’articolo: “Se esso vincerà, e se resterà saldo mantenendo compatto il suo materiale umano, l’esercito siriano uscirà da questa guerra come il più spietato, allenato e indurito dalle battaglie fra tutti gli eserciti arabi dell’intero Medio Oriente. Guai a chiunque dei suoi vicini che dimentichi questo aspetto!”.

E in effetti l’armata siriana è l’unico esercito della regione, insieme a quello iracheno, impegnato in un conflitto su larga scala che riguardi praticamente la totalità del territorio.

Con la differenza che le armate di Baghdad si sono rivelate in genere meno abili nei combattimenti, pur contando su rifornimenti migliori e sull’assistenza tecnica anche degli USA.

E non a caso in Iraq pare in proporzione più ingente il ruolo dei curdi Peshmerga e delle milizie popolari sciite innervate da agenti iraniani.

Che le truppe di Assad siano in ripresa lo hanno dimostrato esse stesse anche negli ultimi giorni, tra fine ottobre e inizio novembre 2015, riprendendo l’iniziativa all’ombra delle ali russe, soprattutto nell’area di Aleppo.

La martoriata città è stata oggetto di una controffensiva che il 5 novembre ha consentito di spezzare l’assedio dei jihadisti e di riconquistare la strategica autostrada che la collega a Latakia e alla capitale Damasco, ripristinando i rifornimenti di cibo e carburante per la popolazione e per la guarnigione governativa.

Un risultato non da poco se si considera che Aleppo figura come la capitale economica e demografica della Siria, contando nel 2011, alla vigilia del conflitto, 2,4 milioni di abitanti contro gli 1,9 milioni di Damasco.

Cifre oggi precipitate per l’esodo dei profughi, ma che danno un’idea delle proporzioni, per cui si può dire che chi controlla sia Damasco sia Aleppo, controlla la “Siria che conta”.

La liberazione dell’autostrada è stato il culmine dell’offensiva che l’esercito siriano, insieme ai paramilitari del partito Baath e ai miliziani alleati Hezbollah, ha scatenato dal 16 ottobre contro le zone controllate da distaccamenti ISIS e dai fiancheggiatori di Al Nusra e delle brigate Ahrar Al Sham sulle montagne dell’Azzam.

Nonostante perdite ingenti, quantificate nei primi giorni della campagna in 15 fra carri armati e veicoli blindati per fanteria distrutti dai jihadisti con missili perforanti, l’avanzata governativa è continuata fino a liberare già entro il 27 ottobre ben 50 villaggi scacciando le milizie jihadiste da un’area stimata in 120 km quadrati.

Il giorno prima, il generale siriano Ali Mayoub aveva dichiarato che “le nostre truppe, supportate da milizie locali, hanno attaccato le posizioni dell’ISIS nelle province di Aleppo e Homs, prendendo anche il controllo delle alture di Salma Joub Al Mar, vicino al confine con la Turchia”.

 

Fra queste milizie paramilitari filo-Assad, che affiancano i gruppi baathisti, spiccano i cosiddetti “Falchi del deserto”, compagine stimata fra 4000 e 5000 uomini messa assieme da un ex-generale siriano in pensione, Mohamed Jaber, il che avvalorerebbe l’ipotesi che molti di questi paramilitari siano esperti veterani delle numerose guerre combattute da Damasco negli ultimi decenni.

Oltre agli attacchi aerei russi e della propria aviazione, l’esercito siriano ha sfruttato molto soprattutto la propria artiglieria per demolire le difese nemiche e ha usato perfino dei bulldozer a fianco dei veicoli corazzati.

Tra i vari risultati, l’esercito di Assad sarebbe per giunta riuscito, con le cautele del caso, a uccidere uno dei capi di Al Nusra, l’egiziano Abu Sulaiman Al Masri, colpito fatalmente vicino a Tal Al Karsani, uno dei villaggi della cintura di Aleppo.

Sul campo di battaglia, l’esercito siriano sta sfoderando il meglio nel Nord, in particolare la 1° e 4° Divisione, più la Guardia Repubblicana e unità di forze speciali, seppure suddivisi per piccoli battaglioni mobili dato che è inutile e dannoso operare per grandi unità compatte in un simile conflitto.

La Stalingrado sotterranea

Un altro teatro operativo poco ricordato ma interessante sul piano tattico lo si riscontra nel Sud, fra le macerie dei sobborghi di Damasco. Lì, a causa dell’ostruzione delle strade con cumuli di rottami, oltre che degli attacchi aerei, le linee logistiche e i combattimenti sono migrati spesso sottoterra in gallerie ricavate a partire dalle cantine e dalla vecchia rete fognaria della zona.

I militari siriani vi stanno acquisendo, pur a caro prezzo, un’esperienza non comune non soltanto sulla scala degli eserciti mediorientali, ma probabilmente fra quelli di tutto il mondo. Stando a quanto testimoniato il 22 ottobre da un’inchiesta dell’agenzia russa Novosti, nel sobborgo di Darayya, a circa 20 km dalla capitale, i militari hanno spiegato al corrispondente: “Sotto Darayya c’è un’altra Darayya, sotto Jobar, un’altra Jobar, sotto Harasta, un’altra Harasta, eccetera”. In un primo tempo sono stati i ribelli a iniziare a scavare gallerie, soprattutto come vie di fuga per abbandonare palazzi eventualmente bombardati o circondati dalle truppe di Assad.

E anche per tentare aggiramenti o perfino per porre esplosivi sotto obbiettivi sensibili. Dalla fascia dell’hinterland di Damasco infestata dai jihadisti, la rete dei tunnel si è gradualmente estesa con ramificazioni che arrivano a una dozzina di chilometri a Est e Sudest, da dove entrano i rifornimenti.

Ma ora anche i governativi stanno rispondendo pan per focaccia, scavando loro stessi gallerie, in particolare usando macchinari messi a punto a tale scopo adattando con un pizzico d’ingegno piccole motozappe o falciatrici da giardino. Mezzi sufficienti per gli aridi sedimenti della zona, tanto più che la profondità rispetto al livello stradale si limita in genere attorno ai tre metri.

D’altronde, le gallerie sono larghe poco più di mezzo metro e permettono ai soldati di muoversi solo in fila indiana, con molto silenzio e alla tenue luce dei telefonini cellulari, per non farsi scoprire dai jihadisti. I tunnel avanzano inoltre alternando tratti rettilinei di una decina di metri a brusche svolte a gomito, anche per disorientare eventuali infiltrati.

Nelle profondità della terra i soldati di Assad cercano così di intercettare i tunnel degli avversari, interrompendoli con esplosivi ben piazzati. Un plotone avanza in silenzio fino al punto designato, dove, dall’altra parte di un residuo diaframma roccioso, si snoda un tunnel rivale. Posta la carica esplosiva e la spoletta, si torna indietro facendo poi il botto.

Quando i tunnel si intersecano nel momento sbagliato, è sparatoria sicura, quasi alla cieca. I militari cercano soprattutto di troncare le gallerie jihadiste che passano al di sotto della linea del fronte per consentire al nemico attacchi mordi-e-fuggi alle spalle.

E’ incredibile come nella Siria del 2015 si stia praticamente rinnovando la vecchia tradizione della guerra di mina e contromina, protagonista per molti secoli degli assedi anche in Europa, come ci ricorda il celebre episodio di Pietro Micca, sacrificatosi nel 1706 pur di bloccare ai francesi una breccia sotterranea verso il cuore di Torino. E in particolare, una guerra di mina appesantita dalla variante del combattimento urbano ad alta intensità, in sostanza come nel 1942 a Stalingrado. Un inferno che la maggior parte degli eserciti occidentali conosce oggi per memorie storiche, ma non più per esperienza diretta.

Il fronte del sottosuolo può sembrare a prima vista marginale, ma in verità è vitale in quel contesto, avendo molto contribuito il 4 novembre a una notevole penetrazione dei governativi tra le rovine di Darayya, con l’uccisione in 24 ore di “diverse decine”, secondo le fonti di Damasco, di miliziani di Al Nusra e Ahrar Al Sham, fra i quali ne sono stati riconosciuti 24 di origine straniera, quasi tutti sauditi.

A Darayya spesso i combattenti sono separati appena da un centinaio di metri di “terra di nessuno” e in un continuo rimpiattino di fanterie che sparano granate dalle finestre diroccate per poi cambiare subito posizione per evitare il fuoco di controbatteria è più importante cercare di tagliare le linee di rifornimento e di ritirata all’avversario.

E’ ciò che l’esercito siriano sta facendo negli ultimi giorni, puntando anche in tal caso alle arterie stradali come obbiettivo primario. Già il 26 ottobre è stata dichiarata “liberata dai terroristi” quasi tutta la strada che collega Damasco a Homs, salvo un ultimo tratto di 10 km per Harasta, per il quale però sembra solo questione di tempo.

Ha molto contribuito il miglioramento della pratica di cooperazione aria-terra, che vede i bombardamenti aerei come un rafforzativo dell’artiglieria. Del resto, si sa che l’esercito siriano difetta più che altro di fanterie e deve quindi fare un pilastro della sua tattica del martellamento delle posizioni nemiche per ammorbidirle il più possibile. Sono gli stessi soldati siriani di prima linea che trasmettono alle squadriglie russe quasi tutte le coordinate dei bersagli tattici da colpire, si dice da 200 a 400 coordinate ogni 24 ore.

D’altronde, nel migliorare le pratiche di cooperazione tra forze di terra e forze aeree, i militari di Assad hanno fatto scuola con la loro stessa aviazione siriana. Le squadriglie governative sono tornate a buoni livelli di operatività tanto che da luglio 2015 a oggi l’attività è arrivata ad attestarsi su ben 6000 missioni al mese, complice l’aumentato afflusso di pezzi di ricambio per i Mig-29 e Sukhoi Su-22 di fattura russa.

Che poi in molti casi, i piloti siriani adottino tattiche rozze, come lo sgancio in picchiata di bombe a caduta libera dai vecchi addestratori cecoslovacchi Aero L-39 Albatros, quasi “indegni” (si fa per dire!) eredi degli Stuka tedeschi del 1939, è un altro paio di maniche.
Ad ogni modo, l’aiuto russo, nonché iraniano, sta avendo un notevole ruolo nel tenere in efficienza le forze di Assad.

Partendo dall’Aeronautica, se la quantità di aerei da combattimento è scesa da circa 550 prima della guerra civile (ma molti già fermi in magazzino e in riserva) ai 290 stimati oggi, si tratta pur sempre di una quantità di tutto rispetto e non è escluso che un afflusso maggiore di pezzi di ricambio possa anche contribuire a rimettere in condizioni di volo alcuni caccia finora azzoppati negli hangar. Quanto ai mezzi corazzati, l’enorme inventario al 2011 (teorico) di 4800 carri da battaglia, anche contando i modelli più vecchi, ha offerto ampi margini di sopportazione delle perdite ed è probabile che almeno più di un migliaio di carri, un numero ancora buono, sia operativo.

L’aiuto esterno offre occasione per rimpinguare i sistemi campali più moderni, per esempio il missile anticarro russo Kornet, o AT-14 Spriggan per la NATO, relativamente recente e consegnato alla Siria a partire dal 2002, tanto che Damasco ne fornì alcuni a Hezbollah perché reagissero all’invasione israeliana del Libano nel 2006. Al 2013 si diceva che i siriani disponessero di 1000 missili Kornet/Spriggan con 100 apparati di lancio.

Molti sono anche i missili balistici a breve e medio raggio, come il Fateh 110 di origine iraniana, chiamato in Siria M-600 Tashreen e comprato in oltre 900 unità. L’annunciato impiego da parte del contingente russo dei sistemi campali per ascolto e guerra elettronica Borisoglebsk 2, in grado sia di captare, sia di disturbare le emissioni radio avversarie, può far presupporre che, col tempo, alcuni di questi sistemi verranno lasciati anche ai siriani, implementando le loro capacità di guerra elettronica, con conseguente ansia prevedibile da parte degli israeliani.

Quanto al numero degli uomini, oggi la consistenza delle forze armate siriane è valutata in un totale di 178.000 uomini, un buon 40 % in meno dei 300.000 valutati nel 2011. La scarsità di uomini, in effetti, è al momento l’unica seria pecca dell’armata di Damasco, il che potrebbe però alla lunga rafforzare la tendenza futura di sviluppo di questo esercito verso una più spinta meccanizzazione.

Grandi pedine sulla scacchiera

Da tutto ciò ben si evince come il potenziale militare della Siria, ammessa una vittoria di Assad o quantomeno una stabilizzazione territoriale dei suoi domini, abbia ancora molto da dire nel quadro geopolitico della regione.

Gli uomini non sono molti, ma la dura scuola della guerra civile sta temprando chi sopravvive e fa tesoro delle brutali esperienze. L’apparato militare accumulato negli anni precedenti al 2011, quando la rivolta e la successiva guerra civile ne causarono in parte la distruzione, è ancora in gran parte ntatto ed efficiente.

Non potrebbe essere altrimenti, pena il crollo del regime già da gran tempo, anziché la sua persistenza dopo oltre quattro anni di caos. Dopo un periodo in cui i rifornimenti e in particolare i pezzi di ricambio arrivavano con più difficoltà, costringendo a consumare armi e munizioni messe in cassaforte nel corso dei decenni precedenti, ora i paesi alleati, ma soprattutto la Russia, possono far arrivare apertamente ciò che vogliono, senza neanche più le limitazioni, per esempio, di far attraccare di notte i cargo ai moli di Tartus per non dover ammettere un coinvolgimento ormai da varie settimane divenuto palese.

In più, l’attività diplomatica russa, che sta cercando di mediare in primis coi curdi siriani, ma anche coi ribelli dell’Esercito Siriano Libero, ridotto al lumicino al confronto con l’ISIS, può aiutare una riconciliazione nazionale deviando a poco a poco la conflittualità unicamente contro il comune nemico del Califfato.

Una Siria di nuovo assestata e con forze armate di veterani passati attraverso una guerra ad alta intensità, ma, si prevede, prontamente rimesse in sesto con nuove forniture di materiale andrebbe presto a saldarsi con un Iraq a prevalenza sciita a sua volta sotto l’egemonia iraniana, creando un vero e proprio “architrave” alawito-sciita a Nord di Israele e dell’Arabia Saudita, che si sentirebbero entrambi minacciati come, e forse più che alla vigilia dell’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq di Saddam Hussein, nel 1990.

A differenza dell’Iraq baathista di allora, una Siria con un esercito rafforzato difficilmente agirebbe per colpi di testa, essendo più vincolata agli alleati che l’hanno salvata, in primis Russia e Iran, ma ugualmente giocherebbe un suo ruolo, simile a quello già interpretato negli anni della Guerra Fredda con Hafez al-Assad, padre dell’attuale presidente, quando a Damasco era riconosciuta una certa influenza autonoma quantomeno sul “cortile di casa” del Libano.

La Siria del dopo-ISIS non potrà agire solo di testa sua, ma s’inserirebbe in un’alleanza con Teheran e Baghdad, ringalluzzita dall’eventuale trionfo contro il Califfato, e magari favorita da un compromesso di più ampio respiro, magari di tipo confederale, coi transfrontalieri curdi, a fare da “cerniera”.

Ciò porterebbe al calor bianco la tensione nella regione del Golfo Persico, tanto più che sia l’Iran, sia l’Arabia Saudita sono potenze nucleari “virtuali”, disponendo, il primo di un ben avviato programma atomico di ricerca e di missili balistici, la seconda della possibilità di sfruttare ordigni dell’arsenale pachistano, che a suo tempo venne finanziato proprio dai petroldollari di Riad.

E poi c’è Israele, nel mezzo, che probabilmente spera che l’ISIS resista il più possibile, per stornare verso Nord l’attenzione di Damasco, Teheran e degli Hezbollah.

Forse anche non limitandosi a sperare, se è vero quanto riportato il 29 ottobre dall’agenzia iraniana Fars, secondo cui soldati iracheni avrebbero catturato tra le fila dei jihadisti del Califfato nientemeno che un ufficiale israeliano, il colonnello Yusi Oulen Shahak, della Brigata del Golan.

Negli ultimi giorni Shahak sarebbe sotto interrogatorio per capire a che titolo si trovava in mezzo ai seguaci del califfo Abu Bakr Al Baghdadi. Peraltro è noto da tempo che sul confine con la Siria le truppe israeliane hanno spesso cannoneggiato e bombardato le forze di Assad, e soprattutto i suoi alleati Hezbollah, curando invece i jihadisti dell’ISIS feriti che attraversavano il confine.

Parimenti preoccupata sarà la Turchia, che da un risorgere di una Damasco rimasta relativamente forte otterrà il ridursi dei suoi spazi di manovra politica autonoma, non restandole che scegliere se schierarsi al seguito del carro saudita oppure ritentare la un po’ stantia carta della spinta egemonica verso le etnie turcomanne dell’Asia centrale.

Di certo, comunque, il rinsaldamento di un asse siro-iraniano contro i sauditi e i loro soci porterebbe a Sud il centro di gravità della politica mediorientale, segnando l’eclisse del sogno neo-ottomano di Ankara, che per il resto si sente schiacciata fra l’ambiguo rapporto con l’Unione Europea e la mole della Russia.

Foto AP, REuters, AFP, Stato Islamico, Fronte al Nusra e  Aeronautica Araba Siriana

Nato nel 1974 in Brianza, giornalista e saggista di storia aeronautica e militare, è laureato in Scienze Politiche all'Università Statale di Milano e collabora col quotidiano “Libero” e con varie riviste. Per le edizioni Odoya ha scritto nel 2012 “L'aviazione italiana 1940-1945”, primo di vari libri. Sempre per Odoya: “Un secolo di battaglie aeree”, “Storia dei grandi esploratori”, “Le ali di Icaro” e “Dossier Caporetto”. Per Greco e Greco: “Furia celtica”. Nel 2018, ecco per Newton Compton la sua enciclopedica “Storia dei servizi segreti”, su intelligence e spie dall’antichità fino a oggi.

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