Il fallimento del multiculturalismo e della de-radicalizzazione in Regno Unito

Quando sono iniziati i mondiali di calcio in Russia, i pub inglesi hanno esposto le bandiere di tutte le squadre partecipanti, tranne quelle saudite: la protesta è nata come reazione ai musulmani che hanno iniziato a creare disordini e problemi perché durante la proiezione delle partite di calcio venissero venduti gli alcolici che l’islam vieta.

Ma se i gestori delle birrerie inglesi iniziano a dare i primi cenni di insofferenza, benché in maniera blanda, lo stesso non si può dire del clero della regina. Nella cattedrale di Southwark di Londra, infatti, per più sere sono state servite cene iftar– il pasto dopo il tramonto durante il mese di Ramadan – inserite nel programma di eventi per celebrare l’anniversario dell’attentato al London Bridge.

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Uno strano ossimoro inventato dal vescovo Christopher Chessun, il quale non ha fatto che parlare di una “città di pace” e di una “comunità di pace” nel discorso celebrativo, chiosando anche l’evento come “una opportunità per riunire persone e religioni diverse e celebrare l’amore e la compassione reciproca”.

E mentre una strana interpretazione della compassione andava in scena, il 4 giugno una cellula jihadista composta interamente da donne, madre e due figlie, veniva scoperta a Londra. Le donne, di 18, 22 e 44 anni, sono state arrestate per reati legati al terrorismo e per aver ordito un attentato al British Museum.

Un giro sulla ruota panoramica del multiculturalismo tutto british non può che offrire una prospettiva delle vittime per eccellenza sacrificate sull’altare del politicamente corretto: le bambine figlie dell’immigrazione indisciplinata. Nell’indifferenza diffusa, infatti, la Gran Bretagna è probabilmente la capitale europea delle mutilazioni genitali femminili (MGF).

La pratica è stata dichiarata illegale nel Regno Unito nel 1985, eppure fino a oggi nessuno è stato ancora processato per questo crimine. Di tanto in tanto vengono emessi “ordini di protezione” – così li chiamano. Come a Sheffield a inizio giugno, quandob tre  bambine rispettivamente di uno, quattro e sei anni, sono state ritenute a rischio di mutilazione genitale e sono state portate fuori dal Paese. L’emergenza è nazionale. Basti pensare che la Oxford Against Cutting, ha lanciato una campagna di sensibilizzazione, per le ragazze che potrebbero essere a rischio, tappezzando l’Oxfordshire, il Bershire e il Buckinghamshire di poster tra scuole, ospedali, centri comunitari, autobus.

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Addirittura la Clinica per il ‘Benessere Femminile’ presso l’Infermeria Reale di Cardiff è diventata la prima clinica del Galles a fornire assistenza medica e psicologica alle vittime della mutilazione genitale femminile (MGF). I numeri sono da capogiro, e solo nell’ultimo periodo è stato stimato che circa 2.000 ragazzine in Galles siano state sottoposte all’infame pratica. Secondo la BBC viene scoperto un caso di MGF in media ogni tre giorni.

Ma a casa della regina le emergenze non finiscono mai. L’unità per i “matrimoni forzati” (FMU), un’agenzia specializzata del Ministero degli Interni, ha riferito di 1.196 casi di matrimoni forzati in Gran Bretagna solo nel 2017. Le vittime in circa l’80% dei casi erano di sesso femminile, il 15,6% dei casi ha coinvolto ragazzine con meno di sedici anni.

In nome dell’integrazione (a senso unico, però), nel frattempo, il clero della Chiesa d’Inghilterra nel Worcester East Deanery ha prestato il proprio sostegno ad un ambizioso progetto da 3 milioni di sterline per costruire una nuova moschea nel cuore della città. L’idea della moschea nasce dall’esigenza di andare incontro al crescente numero di fedeli. Dalla chiesa di San Nicola alla chiesa di San Giovanni Battista a Claines a quella di Tutti i Santi di Worcester, è stato dato il sostegno spassionato alla costruzione della moschea per la promozione del dialogo ecumenico.

Sarà stato, allora, in nome dello stesso che Khalid Ali, un ingegnere di 28 anni, pianificava un attentato a Westminster. L’uomo è stato condannato a fine giugno anche per aver fabbricato bombe per i talebani. A sfogliare la cronaca inglese, così, si apprende che nella Gran Bretagna multikulti si finisce in gattabuia per aver aggredito e picchiato la vicina di casa incinta “per via del mal di testa da digiuno per il Ramadan”, come è successo a una certa Sameena Ahmed.

O, ancora, si può scoprire che Karen Sunderland, candidata Tory per il consiglio comunale a Lewisham (Londra) è stata sospesa dopo aver paragonato l’islam al nazismo sui suoi profili social. Oppure che Mohammed Aslam Rabani, imam in una moschea di Nottingham, è stato condannato a cinque anni di carcere per pedofilia ai danni di una dodicenne. La ragazzina ha subito violenze sessuali tra il 1990 e il 1993, e solo oggi la vicenda, almeno in parte, conosce una parvenza di epilogo.

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In Gran Bretagna il multiculturalismo offre uno dei profili migliori di tutta Europa. Il mito ostentato dal politicamente corretto mostra e dimostra tutti i limiti dell’esperimento sociale. Ma se la società multiculturale risulta ormai difficile da addomesticare, lo stesso non si dovrebbe dire dei programmi di de-radicalizzazione.

Nel Regno Unito, gli stessi sono, nel migliore dei casi, semplicemente inefficaci, nel peggiore, controproducenti. È uno studio del Behavioral Insights Team (BIT, noto anche come “nudge unit”). Come riportato di recente dal Times, il BIT ha esaminato trentatré programmi di de-radicalizzazione in tutta la Gran Bretagna. I programmi della strategia Prevent– presentata al parlamento inglese nel 2011 dall’allora segretario degli interni – hanno coinvolto le scuole, i centri giovanili, le società sportive e i corsi di lingua inglese per stranieri. Il progetto doveva servire allo scopo di impedire ai cittadini considerati “vulnerabili” di diventare terroristi islamici.

Il BIT ha rilevato che solo due dei programmi hanno ottenuto qualche successo. “… Gli educatori non volevano trattare argomenti scomodi. Gli insegnanti in particolare avevano paura di sollevare questioni di razza e religione con i loro studenti nel timore di apparire discriminatori”, si legge nello studio.

In Gran Bretagna, l’82% dei 228 detenuti per reati legati al terrorismo sposa la versione più integralista dell’islam. Nell’agosto 2017, il coordinatore antiterrorismo dell’UE, Gilles de Kerchove, ha reso noto che il Regno Unito ha una percentuale maggiore d  musulmani radicalizzati rispetto a qualsiasi altro paese europeo. La Gran Bretagna “ha identificato da 20.000 a 35.000 estremisti, di cui 3.000 sono materia dell’MI5 – l’agenzia di controspionaggio per il Regno Unito-, e di questi 500 sono oggetto di costante e speciale attenzione”, sempre secondo le stime di de Kerchove.

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Stando al neo ministro dell’interno, Sajid Javid, negli ultimi cinque anni sono stati sventati ben venticinque attentati, al di là di quelli invece riusciti al prezzo di sangue innocente. In un recente discorso, il ministro ha ammesso che il fallimento della strategia Prevent nasce solo (sic!) dall’incapacità degli addetti ai lavori di comprendere il compito che gli è stato affidato.

E per dimostrare, invece, i vantaggi del programma ha raccontato la storia di un tredicenne vittima, a suo dire, di razzismo a scuola. Il ragazzino ha iniziato a dedicarsi, per reazione, alla propaganda online con lo scopo arruolarsi poi per Daesh.

“Ma sulla sua strada”, racconta il ministro, “ha incontrato chi è stato capace di fornirgli il supporto necessario per non diventare un terrorista al cento per cento”. Aggiungendo l’ormai classica chiosa finale, “Voglio essere molto chiaro: i musulmani non sono in alcun modo responsabili degli atti di una minuscola minoranza che distorce la loro fede e so che non esiste una omogenea comunità musulmana”.

Senza volerlo, nel raccontarci questa storia, Javid ha mostrato esattamente il perché del fallimento dei programmi di de-radicalizzazione: tutto viene ridotto ad un rapporto di causa ed effetto fasullo, inventando lo strano sillogismo del razzismo-a-scuola-dunque-passione-per-la-propaganda-violenta-online.

Non viene mai fatto alcun riferimento non solo all’incapacità di risolvere il fenomeno dell’indottrinamento online, ma neanche alla fede islamica, e all’intolleranza predicata da un’interpretazione “radicale” del Corano. Continuare a fornire una versione politicamente corretta dei fatti non può aiutare le strategie dell’antiterrorismo né risolverà gli effetti collaterali del multiculturalismo.

Foto: Reuters, The Sun, Daily Mauil e Getty Images,

 

Lorenza FormicolaVedi tutti gli articoli

Giornalista nata a Napoli nel 1992, si occupa di politica estera, in particolare britannica, americana e francese ma è soprattutto analista del mondo arabo-islamico. Scrive per Formiche, La Nuova Bussola Quotidiana, il Giornale e One Peter Five.

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