La cecchina dell’Armata Rossa

“Il tiro diretto di un cecchino è una cosa straordinaria! In un colpo del genere, la traiettoria del proiettile non si alzava oltre il bersaglio per l’intera distanza del tiro. Impostando il mirino sul 6 e mirando alle calcagna dei soldati nemici, si riusciva a sparare una serie di colpi senza resettare il mirino telescopico. Gli ostili venivano prima colpiti alla gamba e poi, man mano che si avvicinavano, allo stomaco e, ancora più vicini, a 300 metri, al petto. Alla fine toccava alla testa.

Poi, più la distanza dal cecchino si riduceva, più l’ordine si invertiva: petto, stomaco, gamba”. Sono parole di un veterano del fronte orientale, il fronte più brutale della Seconda Guerra Mondiale. Ma era un veterano particolare, non era un cosacco baffuto pieno di cicatrici, bensì una bella ragazza russa di 26 anni che diventò la più micidiale cecchina dell’Armata Rossa.

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Era Ljudmila Pavlicenko, che accumulò un record sbalorditivo in meno di un anno, dall’agosto 1941 al maggio 1942, registrando 309 uccisioni confermate. Fu la più abile tra le oltre 2.400 donne specializzatesi come tiratrici scelte nell’esercito sovietico, sopravanzando colleghe come Liba Rugova (242 uccisioni), Ekaterina Zdanova (155) e Inna Mudretsova (143). La Pavlicenko fu superata solo da un pugno di cecchini maschi, fra cui li capofila Vladimir Salbiev, che uccise 601 nemici confermati, e Mikhail Surkov, che ne avrebbe annientati addirittura 702, cifra, questa, tuttavia non confermata.

Va detto però che gli altri tiratori sovietici da record ebbero a disposizione, in media, due anni di tempo per accumulare il loro “punteggio”, mentre la Pavlicenko fece tutto in dieci mesi. In ciò, la ragazza ebbe molto in comune con un’altra leggenda del cecchinaggio russo, quel Vladimir Zaitsev che fulminò le sue 242 vittime confermate nei mesi della battaglia di Stalingrado, dal settembre 1942 al gennaio 1943.

E se alla figura di Zaitsev fu dedicato nel 2001 il film “Il nemico alle porte”, diretto da Jean Jacques Annaud e interpretato da Jude Law, la Pavlicenko è stata celebrata nel 2015 con “Resistance, la battaglia di Sebastopoli”, di Sergej Mokritskij, con Yulija Peresild.

Cinema a parte, della fuciliera russa esce ora, per la prima volta in italiano, il diario di guerra. Edito da Odoya, “La cecchina dell’Armata Rossa” (320 pagine, euro 22) è un memoriale che miscela impressioni personali e precisione tecnica e storica, frutto anche dell’esperienza di Ljudmila come studentessa di Storia dell’università di Kiev. Per scrivere il libro, la donna mise mano dopo la guerra ad appunti che aveva preso in segreto durante il conflitto, quando era proibito tenere un diario. Non fece in tempo a vederlo pubblicato, avendo completato il manoscritto nel 1972, ma morendo prematuramente a 58 anni nel 1974. L’opera fu pubblicata in russo solo nel 2015, grazie alla curatrice Alla Begunova, e in inglese nel 2018.

Dal punto di vista della pura biografia, vi si ritrovano vicissitudini alla “dottor Zivago”. Una ragazza russa nata nel 1916, Ljudmila Belova, si sposa a soli 16 anni con un tal Alexei Pavlicenko, che le lascerà il cognome, oltre a un figlioletto, ma ne divorzia quasi subito. Poi, va a lavorare in fabbrica e s’interessa al tiro a segno fra i corsi ricreativi proposti agli operai. Per riprendere l’istruzione interrotta, si iscrive all’università, e proprio fra le aule la coglie nel giugno 1941 la notizia dell’invasione tedesca dell’URSS. La ragazza offre così la sua esperienza da tiratrice alla patria.

Sul fronte di Sebastopoli si risposa con un tenente, che muore poco dopo nei combattimenti. Evacuata nelle retrovie dopo essere stata ferita, verrà utilizzata dalla propaganda sovietica come una sorta di “ambasciatrice” e inviata alla Casa Bianca di Washington, dove stringerà amicizia con la First Lady Eleanor Roosevelt.

Dal punto di vista storico-militare, poi, la Pavlicenko rivela numerosi dettagli sui cecchini sovietici che per anni furono coperti da segreto, dedicando lunghe pagine alla descrizione degli appostamenti e delle azioni, ben inquadrate nel contesto climatico e ambientale. Utilizzò dapprima il fucile Mosin-Nagant M1891/1930 e poi il più moderno Tokarev SVT-40, entrambi camerati per la medesima cartuccia calibro 7,62 x 54 mm R, e dotati di mirini telescopici 4X. Ma non era solo questione di “ferraglia”.

Contavano gli stratagemmi artigianali, quelli che non si trovano sui documenti ufficiali. Una volta, la ragazza si appostò in mezzo a un cespuglio di rosa canina presso una strada percorsa da staffette tedesche:

“Sotterrai una borraccia mezza piena d’acqua. Infilai nel collo un’estremità di un tubo di gomma e misi l’altra nel mio orecchio. In questa maniera potevo rilevare il rumore dei passi e dei motori”. Così falciò un motociclista della Wehrmacht che aveva fermato la sua DKW RT 125 per mangiare delle bacche! Il 23 gennaio 1942 uscì vincitrice da un duello con un cecchino tedesco, dopo essersi rintanata, in mimetica bianca, in una trincea camuffata presso un torrente innevato.

Usò come esca un manichino con uniforme sovietica e attese che il tiratore nemico gli sparasse. Quel colpo rivelò il nascondiglio del nemico, prontamente centrato.

Volendo studiare personalmente un appostamento sulle colline di Sebastopoli, s’arrampicò su un albero con matita e taccuino, narrando poi: “Sui poggi il vento è presenza pressoché costante. Notai che i rametti degli alberi intorno al villaggio ondeggiavano, le foglie frusciavano e la polvere bianca turbinava nell’aria sopra la strada. Voleva dire che il vento spirava a velocità moderata, 4-6 metri al secondo.

Un proverbio dei cecchini recitava: “Il fucile spara, ma è il vento a trasportare il proiettile”. Scegliendo quella posizione, avremmo avuto un vento laterale che soffiava con un angolo di 90 gradi. In condizioni del genere e a una distanza di 100 metri dal bersaglio, al cecchino spettava un semplice calcolo: la correzione di lato orizzontale doveva essere di alcuni millesimi di radiante. C’era un’altra considerazione da fare. In luoghi situati in una posizione elevata rispetto al livello del mare, cambia la pressione atmosferica (la densità dell’aria diminuisce). In tal caso, aumenta sia la distanza della traiettoria che il volo del proiettile.

Tuttavia, Potapov aveva scritto nel suo libretto (un manuale di tiro diffuso in URSS, n.d.r.) che in colline sotto i 500 metri d’altezza – e lì non eravamo oltre i 310 – si poteva ignorare il vento longitudinale, ma era necessario tenere conto di quello laterale, perché poteva causare una significativa deviazione del proiettile”. Era un’arte che Ljudmila aveva nel sangue.

 

La cecchina dell’Armata Rossa
Ljudmyla Pavlicenko

Editore: Odoya
Collana: Odoya library
Anno edizione: 2021
In commercio dal: 25 febbraio 2021
Pagine: 272 p.
EAN: 9788862886482

 

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Nato nel 1974 in Brianza, giornalista e saggista di storia aeronautica e militare, è laureato in Scienze Politiche all'Università Statale di Milano e collabora col quotidiano “Libero” e con varie riviste. Per le edizioni Odoya ha scritto nel 2012 “L'aviazione italiana 1940-1945”, primo di vari libri. Sempre per Odoya: “Un secolo di battaglie aeree”, “Storia dei grandi esploratori”, “Le ali di Icaro” e “Dossier Caporetto”. Per Greco e Greco: “Furia celtica”. Nel 2018, ecco per Newton Compton la sua enciclopedica “Storia dei servizi segreti”, su intelligence e spie dall’antichità fino a oggi.

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