Le munizioni circuitanti: impiego, programmi e sviluppi

Si stanno diffondendo a macchia d’olio, stimate da un numero via via crescente di eserciti e milizie, come si è visto in Siria e in Libia in seguito all’intervento militare turco. Ma è con il conflitto nell’Alto Karabakh che hanno ricevuto la loro consacrazione definitiva, grazie alla propaganda martellante del ministero della Difesa azero. Parliamo delle loitering munitions il cui impiego nel Caucaso non è nuovo. Già nel 2016, Baku ne aveva fatto uso. Prevalentemente montuosa, l’area favorisce l’uso della terza dimensione per compensare i vantaggi offerti dalla natura a chi si arrocchi in difesa.

Gli azeri si sono procurati il necessario in Turchia e, soprattutto, in Israele che negli ultimi anni ha fornito loro diverse centinaia di droni tattici Heron, Hermes 450 e 900, microdroni ISR Aerostar e Orbiter 3, e droni-suicidi Harop (nell’immagine di apertura e nella foto qui siotto), Orbiter 1K e SkyStriker.

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Concepiti da Aeronautics Ltd, gli Orbiter sono stati realizzati in più varianti. Fra il 2016 e il 2019, Baku ne avrebbe ricevuto 80, sui 100 circa ordinati, parte di un contratto che prevederebbe la fabbricazione su licenza in Azerbaigian. Più piccoli e meno prestanti degli Harop, gli Orbiter-1K hanno una testa bellica a frammentazione, pesante 3 chili.

La loro versione da osservazione e da detezione è l’Orbiter-3, acquistata in una decina di esemplari fra il 2016 e il 2017. Degli Harop (nell’immagine sopra) parleremo meglio dopo, ora è meglio spendere due parole sugli SkyStriker (nella foto sotto)  di Elbit Systems, che sono sistemi a pilotaggio remoto interamente autonomi, provvisti di un carico bellico da 5 o 10 chili, ottimi per le forze di manovra e le forze speciali.

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Propulsi elettricamente, gli SkyStriker hanno una debolissima segnatura acustica e termica, utilissima nelle operazioni mordi e fuggi, e nei raid coperti ad alta precisione. Possono coprire 20 chilometri in 10 minuti, orbitare sull’obiettivo e perseguirlo per due ore prima di colpirlo se montano la testata da 5 chili o per un’ora con la testata da 10 chili usando la navigazione autonoma.

Durante la fase di ingaggio, lo SkyStriker è guidato sull’obiettivo dai sensori elettro-ottici. Vi picchia contro a una velocità massima di 300 nodi. Resiste a venti fino a 40 nodi, deviando leggerissimamente dal punto d’impatto. Baku ha integrato l’intera panoplia nel ciclo del fuoco di artiglieria e delle bolle F2T2EA (Find-Fix-Track-Target-Engage-Assess), mostrando un continuum trasformativo nel preparare il terreno a una manovra classica blindo-meccanizzata.

 

Lezioni dal Nagorno-Karabakh

I video pubblicati dagli azeri mostrano raid congiunti di droni e loitering munitions contro carri armati (MBT), contro postazioni fisse e veicoli di difesa aerea, sia seguendo una logica di attrito sulle posizioni preesistenti, sia come preludio a un assalto convenzionale, servendosi delle capacità simultanee offerte dagli stessi sistemi nel campo dell’ISR (Intelligence, Sorveglianza, Ricognizione).

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Gli obiettivi sono stati duplici, posizioni e forze, senza dimenticare i raid di interdizione del campo di battaglia. Almeno una colonna logistica armena in marcia è stata distrutta così, sotto il fuoco di droni kamikaze e di micromunizioni MAM-L, (nelle due immagini qui siotto) lanciate da distanze di 10 chilometri dagli UCAV turchi Bayraktar TB2.

Leggere e ‘intelligenti’, le munizioni MAM-L sono ottime contro i camion, ma si prestano bene anche contro i blindati pesanti, vulnerabili nel cielo dei veicoli, dove la blindatura meno resistente.

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Tutti gli obiettivi sono ingaggiabili oltre il raggio di gran parte delle difese aeree a corto raggio (SHORAD). E i TB2 eludono facilmente anche le batterie SAM (Surface Air Missile) a medio raggio, ottimizzate per abbattere i jet veloci. Il vero rimedio sono le contromisure elettroniche diretta contro il sistema di collegamento e comando, per inabilitare il command link, ma l’enorme energia emessa in fase di attacco espone l’emittente a molte vulnerabilità.

Ecco perché non meno di 100 T-72 armeni sono stati polverizzati dalle loitering munitions e dai TB2. Sebbene le difese aeree dell’Artsakh e armene abbiano abbattuto diversi sistemi, l’Azerbaigian aveva scommesso sul numero, sulla precisione e sulla letalità di sistemi d’arma peraltro economici.

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Un Harpy (nell’immagine qui sotto) ha un costo unitario di 70.000 dollari circa. Può essere altamente spendibile contro sistemi di difesa che impiegano intercettori costosissimi, pensati per abbattere piattaforme aeree di alto valore. Impiegati in salve ravvicinate, i droni kamikaze, saturano i sensori delle batterie SAM. Nelle missioni SEAD (Distruzione delle Difese Aeree Nemiche) nell’Alto Karabakh, la priorità è stata data alle batterie di SA-8 Gecko e SA-13 Gopher che contrastavano la superiorità aerea azera.

Baku puntava infatti a ritagliarsi una libertà di manovra in due tempi, prima sul piano tattico e, a partire dall’8 ottobre, anche sul piano operativo, per l’attacco in profondità.

L’uso sincronizzato delle nuove armi ha reso il campo di battaglia più letale, decimando i pezzi pregiati dell’avversario. Almeno un lanciatore S-300 della base di Shuskakend e diversi radar asserviti sono stati distrutti insieme a un sensore associato a un SA-4.

Per il presidente azero Ilham Aliyev i droni-kamikaze delle forze armate azere avrebbero fatto strame di almeno 7 TEL (Transporter Erector Launchers) di S-300, di due stazioni di guida e di un radar. Numeri forse esagerati, perché i sistemi, non concepiti per la guerra anti-UAV, non sarebbero stati interamente distrutti.

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Ma cifre impressionanti, che la dicono lunga sulla vulnerabilità dei sistemi avanzati di difesa aerea. Cosa sorprendente, i droni-kamikaze sarebbero serviti in missioni di guerra contro le misure elettroniche nemiche. Avrebbero messo fuori gioco almeno un jammer Repellent-1, particolarmente adattato contro i droni, rivelando la vulnerabilità del sistema russo, affiancato solo tardivamente da un ottimo complesso da guerra elettronica Krasukha e da un sistema di punto Polye-21E, che ha ostacolato la libertà aerea azera per soli 4 giorni

Il jammer Polye-21E si è rivelato peraltro deludente, poco manovrabile e senza quell’efficacia che gli sarebbe stata garantita solo se affiancato da un complesso antidrone Silok-02. Scriverne a giochi fatti è facile. L’Armenia aveva a disposizione i Buk e gli SA-15 Tor-M2KM, sulla carta più efficaci dei Pantsir contro i droni-kamikaze.

Ma il loro impiego tardivo e in numero esiguo, ha limitato il numero di velivoli abbattuti. Peggio ancora, almeno un lanciatore Tor è andato distrutto, il 9 novembre, nel settore del fronte all’altezza di Khojavend. La verità è che la taglia ridotta delle loitering munitions le rende particolarmente sfuggenti ai sensori delle batterie SAM. Senza contare che la difesa aerea armena non era particolarmente densa, né moderna, incentrata soprattutto su vecchi sistemi sovietici 2K11 Krug, 9K33 Osa, 2K12 Kub e 9K35 Strela-10.

Forse Erevan avrebbe potuto fare qualcosa di più nella guerra dei droni? Negli ultimi anni, l’industria armena aveva mostrato i primi timidi tentativi nel campo, capitalizzando le lezioni del conflitto del 2016. Al salone ArmHiTec-2018, aveva presentato alcuni prototipi di loitering munitions, invero scarsamente innovativi.

 

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Uno, ribattezzato Hreesh, assomiglia come una goccia d’acqua all’Hero-30 dell’israeliana UVision. Prodotto dal gruppo ProMAQ, lo Hreesh ha un peso di 7 kg e un carico utile di 1,6 kg. Il suo raggio operativo non supera i 20 km, mente la quota di tangenza sfiora i 1000 metri.

Per svilupparlo sono occorsi due anni, ma non è chiaro quale sia stato l’iter, né quale sia il motivo della stretta somiglianza con la linea di prodotti Hero. L’unica cosa certa è che il gruppo ProMAQ è recentissimo, messo su nel 2016, dopo la guerra dell’Aprile di quell’anno nel Nagorno-Karabakh.

Fanno parte del Gruppo diverse compagnie preesistenti, spinte dal governo a convergere nello sviluppo e nella produzione di UAV e loitering munitions.

Nell’agosto scorso c’erano i presupposti per altri droni-kamikaze promettenti. Artak Daytyan, presidente del comitato dell’industria militare armena ed ex capo di Stato maggiore generale, si era recato in visita nelle officine di UavLab, stretta collaboratrice di ProMAQ. Era stata l’occasione per presentare alla stampa nuovi modelli, senza troppi fronzoli, né dettagli sul loro ingresso in linea. Poco tempo dopo, quando c’erano già avvisaglie delle nuove scintille e la metà di settembre era ormai alle spalle, Hakob Arshakyan, ministro dell’Industria armena per le alte tecnologie, mostrava sul suo profilo Facebook un video di un drone-kamikaze, ancora in fase di test, ripreso nelle fasi di attacco finale contro il simulacro di un MBT.

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Il ministro era particolarmente dinamico in quel periodo, segno che l’industria locale stava facendo progressi. Sul suo account personale c’era un altro video, appena precedente, con un filmato di una nuova loitering munition, imprecisata, ripresa mentre manovrava in volo. Non c’era nessun altro dettaglio, né sulle dinamiche di attacco, né sugli eventuali filmati del terreno girati dalle telecamere del drone.

Per Rob Lee, del King’s College di Londra, poteva trattarsi della munizione errante Drakon, dal raggio operativo di 100 km, payload di 10-15 kg e velocità massima di 180-200 km/h. Un terzo video, sempre postato dal Ministro, rivelerebbe l’esistenza di un ulteriore modello in fase avanzata di test.

Il fervore è cessato con l’inizio delle ostilità, quando l’Armenia ha diffuso scarsissimi video girati dai droni, lasciando campo libero quasi totale alla propaganda azera. Ma l’Armenia non è certo sola a mostrare carenze in questo settore.

Dopo l’abbandono del Fire Shadow da parte dei britannici anche i paesi europei hanno perso il treno delle munizioni circuitanti, puntando sui classici droni tattici e sui MALE, più confacenti alle loro culture tecnologiche e umanitarie.

 

Dentro le loitering munitions

Ma che cosa sono di preciso le loitering munitions e che cosa fanno? Queste armi hanno precisione, persistenza sull’obiettivo e costi contenuti. Spesso chiamate droni kamikaze o munizioni erranti, possono essere definite come sistemi d’arma a metà strada fra i droni armati e i missili da crociera, di cui mutuano alcune caratteristiche. Peculiarità numero uno delle loitering munitions è la loro insistenza sull’obiettivo, inferiore a quella dei droni, ma di gran lunga superiore a quella dei missili.

Se l’armamento dei droni armati da combattimento è definibile come un’opzione cinetica sommata a un vettore destinato a compiti primari di ISR, d’intelligence, sorveglianza e ricognizione, la concezione delle munizioni erranti è diametralmente opposta.

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Loro finalità è veicolare una carica militare su un obiettivo. Come armi, le munizioni circuitanti non sono affatto concepite per sacrificare in battaglia strumenti di osservazione e trasmissione, preziosi e molto costosi, ma per svolgere compiti talvolta misti, dato che molte di esse sussumono nell’ordito generale ottime capacità ISR. Da un altro punto di vista, potremmo dire che la concezione del missile da crociera parte dal principio che l’acquisizione del bersaglio è sempre completata prima del tiro, per cui la persistenza del cruise è circoscritta alla distanza dall’obiettivo per la quale è concepita.

Ed è proprio qui che subentra la munizione circuitante, capace di apportare un margine di manovra aggiuntivo e un ulteriore atout alla panoplia dei sistemi d’arma in mano all’attaccante. In parole semplici, il drone-kamikaze risolve un vecchio problema tecnico: colpire un nemico nascosto dall’altro lato della collina, protetto dall’osservazione o dal fuoco dai vantaggi tattici offerti dalla natura del terreno, in cui il tiro di un mortaio in posizione defilata sarebbe inoperante.

In uno scenario urbano, la munizione circuitante stanerebbe l’avversario trincerato in edifici, penetrando da qualsiasi varco. Questo perché una loitering munition può venire esplosa e rimanere in standby, circuitando su una zona d’interesse, in attesa che il nemico si riveli, tutto il tempo per il quale è stata programmata. Da un punto di vista militare, il vantaggio principale è quello di ridurre il ciclo decisionale. Tutto comincia con l’analisi preventiva, cui segue il posizionamento dell’arma su una zona del campo di battaglia. Da quel momento in poi, la munizione è utilizzabile ad libitum, e all’istante, nel frangente in cui un bersaglio venga identificato in quanto tale. Il sistema permette di accelerare l’applicazione del fuoco.

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Lascia all’avversario poche possibilità di scamparla. In altri termini, le munizioni circuitanti forniscono più tempo a una forza per affinare il targeting. Offrono inoltre innumerevoli opzioni per annullare un ordine di strike, riducendo al minimo il punto di non ritorno. Consentono infine di trattare obiettivi furtivi, ben occultati e protetti, difficilmente eliminabili con armi alternative, per via di un’esposizione troppo breve, d’ostacolo a qualsiasi finestra di tiro.

Come anticipato, sono armi molto vantaggiose in scenari di combattimento urbano, dove forze e terreno sono spesso congestionati e compartimentati. Senza dimenticare altri vantaggi aggiuntivi, visto che alcune di esse possono tornare alla base se la missione abortisce. Altre ancora integrano una funzione di autodistruzione nel caso esauriscano il carburante a disposizione o se l’operazione finisca senza un impiego. Ma in che contesto nascono le munizioni circuitanti?

 

Dalle missioni SEAD alle eliminazioni mirate

Le loitering munitions sono state concepite agli esordi per la lotta antiradiazione. Hanno mosso i primi passi negli anni ’80 del secolo scorso, nell’ambito delle missioni SEAD (Suppression of Enemy Air Defense), la Soppressione delle difese aeree nemiche. Sono un concetto israeliano, maturato nel corso dell’operazione Drugstore contro il Libano, nella valle della Bekaa.

Sono il frutto delle lezioni apprese dall’impiego dei droni come esche per attivare i radar delle batterie di difesa aerea siriane e fornire bersagli paganti ai missili antiradiazione degli aerei israeliani. All’epoca, nel giugno 1982, le 19 batterie di SAM SA-6 siriano-sovietiche utilizzate per la difesa aerea contavano sulla mobilità e sull’impiego intermittente dei radar di scoperta e tiro per eludere i missili del tipo HARM, offrendo finestre di tiro molto esigue per poter esser trattati.

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Gli israeliani erano però motivati. Volevano eliminare l’OLP, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, dal Libano. Oltre che con i SAM, avrebbero dovuto vedersela con un’importante forza aerea nemica, suscettibile di proteggere l’intero territorio libanese e la piana della Bekaa. I missili erano il nemico numero uno perché ostacolavano la capacità di appoggiare le forze terrestri, incaricate di marciare su Beirut.

La Heyl Ha’Avir, l’aviazione israeliana, aveva però un asso nella manica. Aveva ormai in linea tutta una nuova generazione di equipaggiamenti. Gli F-15, gli F-16 e i Kfir erano controllati e coordinati dagli E-2C Hawkeye di detezione aerea avanzata.

La ricognizione beneficiava dell’arrivo di droni tattici di differenti tipi. Il 9 giugno 1982, Israele lanciò l’operazione Artzav-19, inviando droni Mastiff (nella foto sotto) per ingannare i radar siriani. Accendendosi, questi ultimi trasmettevano in tempo reale l’immagine della loro posizione. I missili SA-6, 57 dei quali puntarono i droni, confusi dai siriani con velivoli, permisero agli E-2 e ai B-707 da guerra elettronica di captare e disturbare le frequenze dei radar.

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Fu allora che una parte dei 96 jet da combattimento israeliani ingaggiati in battaglia esplose le salve di missili antiradar. Fu una tempesta di fuoco che distrusse i lanciatori SAM a colpi di armi a guida laser ed elettro-ottica. Sferrata in quindici minuti, l’operazione fu un successo. Permise di annientare 17 delle 19 batterie SAM, senza perdita israeliana alcuna.

Frastornati, i siriani abbozzarono una reazione. Fecero decollare un centinaio di velivoli, caccia e cacciabombardieri, MiG-21 e MiG-23 in primis. Ne persero 26 in trenta minuti di combattimenti aerei. L’indomani, i velivoli israeliani tornarono. Avevano come obiettivo l’annientamento dei due SA-6 restanti.

Si imposero definitivamente, abbattendo altri 35 velivoli siriani. Per l’ennesima volta senza incassare perdite. Il 10 giugno, distrussero altri 21 velivoli siriani. In tre giorni, Damasco aveva perso 82 jet da guerra e 19 batterie SAM. Una disfatta per una forza armata che prima della guerra  aveva 460 aerei da combattimento. A fine luglio 1982, mancavano ai siriani 87 jet.

Gli israeliani lamentavano la sola perdita di qualche elicottero, di un RF-4E Phantom II da ricognizione e di un A-4 Skyhawk, abbattuti da missili spalleggiabili a ricerca di calore SA-7 lanciati dai guerriglieri dell’OLP.

I siriani commisero molti errori: non spostarono velocemente e frequentemente le batterie, non posizionarono i radar sulle alture, né cercarono di occultare le posizioni con schermi fumogeni, riducendo la visibilità dall’aria. Rimane tuttavia che il vantaggio tattico e tecnologico israeliano era lampante. Per la prima volta furono impiegati AWACS moderni come gli E-2 Hawkeye e i droni fecero la comparsa massiccia sul campo di battaglia, sorvolando perfino le basi aeree siriane per anticipare i decolli.

Fu in questo scenario che maturò l’operazione Drugstore, un concetto che avrebbe ispirato il perfezionamento delle munizioni circuitanti, per approfittare al meglio delle opportunità offerte dall’accensione dei radar nemici. Pochi anni dopo, nel 1990, Israel Aerospace Industries (IAI) svelò al pubblico l’Harpy, una loitering munition capace di circuitare sei ore di seguito su una zona d’interesse.

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Un drone-kamikaze che avrebbe avuto un enorme successo commerciale, venduto fra gli altri a sudcoreani, turchi, indiani e cinesi. Il ruolo giocato dalle munizioni erranti nelle missioni SEAD si è poi ampliato a partire dagli anni 2000.

Ha investito i raid a lunga distanza e l’appoggio tattico delle truppe al suolo, grazie soprattutto a sistemi leggeri, portabili dai combattenti sbarcati. Fra i nuovi sistemi, spicca senz’altro lo Switchblade di AeroVironment, (nella foto a lato) che pesa appena due chilogrammi e mezzo ed è stato impiegato in quattromila esemplari da alcune unità delle forze speciali americane in Afghanistan e in Siria. Gli statunitensi l’hanno usato per colpire obiettivi ad altro valore aggiunto, postazioni di tiro di mortai nemici o veicoli di insorti.

Nel 2016, l’esercito azero in guerra contro combattenti armeni nell’Alto Karabakh ha distrutto con un Harop di fattura israeliana un bus che trasportava miliziani. A sua volta Tsahal ha impiegato le munizioni circuitanti Harop per colpire un sito di SAM Pantsir-S1 siriano nel 2018, nella guerra contro i rifornimenti di armi e le installazioni iraniane e filoiraniane in Siria.

Concepiti sempre da IAI, gli Harop hanno il pregio di essere un’arma standoff antiradiazione, a lancio terrestre e a guida elettro-ottica, capaci di ghermire un bersaglio ‘carpendo’ autonomamente le sue onde elettromagnetiche.

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Anziché avere una testata ad alto esplosivo, il drone stesso è la munizione principale, calibrata per circuitare sul campo di battaglia e attaccare gli obiettivi, autodistruggendosi.

Misura 2,5 m per 3. Gli israeliani privilegiano questi sistemi contro gli obiettivi ad alto valore aggiunto, di cui gli Harop acquisiscono i dati di puntamento, di targeting e di intelligence preliminare. Il raggio d’azione della munizione circuitante è di 200 km, l’autonomia di 9 ore.

La velocità si spinge fino a 225 nodi, per una quota di tangenza di 15.000 piedi. Bassa la segnatura radar, inferiore ai 0,5 m2, preludio all’elusione dei sistemi SAM e dei sensori radar concepiti per abbattere grossi velivoli o intercettare missili a traiettoria fissa. La precisione è estrema, essendo l’errore circolare probabile inferiore a un metro con una testata da 16 chili.

La piattaforma è interamente automatizzata, ma l’ordine di attacco prevede l’intervento umano, per evitare danni collaterali. È contemplata la possibilità di interrompere la missione in qualsiasi istante, recuperando la munizione. In caso di attacco, l’angolo di strike è aperto a 360°. Gli ottimi risultati ottenuti in battaglia hanno galvanizzato Gerusalemme, che ha sviluppato un ibrido fra l’Harop e l’Harpy, ribattezzato Mini Harpy (nella foto sotto e in questo video). 

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Il sistema pesa appena 45 kg. Conserva inalterate le capacità antiradiazione e la guida elettro-ottica dell’Harop. Prima dell’attacco, il Mini Harpy partecipa alla raccolta d’intelligence. Vola silenzioso, grazie ai propulsori elettrici, autonomi per due ore, tempo nel quale può coprire un raggio utile di 100 km. Può essere lanciato da piattaforme terrestri, navali o aeree.

Il carico bellico è di 8 kg. Similmente alle altre munizioni circuitanti, anche il Mini Harpy è interamente automatizzato, ma l’ordine di strike è impartito dall’operatore, che in qualsiasi istante può interrompere la missione, recuperando il sistema.

Boaz Levy, vicepresidente esecutivo di IAI Systems, Missiles and Space Group, sostiene che il sistema sia ottimizzato contro obiettivi in movimento rapido, che si palesino per pochi secondi, anche all’improvviso. Il drone non è stato ancora ordinato da Tsahal, ma il 4 maggio scorso, il ministero della Difesa israeliano ha annunciato una commessa per un numero imprecisato di mini-UAV circuitanti FireFly (nella foto sotto), un concentrato di tecnologie pensato e sviluppato da Rafael e dalla Difesa stessa per le forze speciali e le fanterie.

Parliamo di un’arma che ha richiesto 15 anni di sforzi e di riflessioni, basate in parte sulle lezioni apprese nella Guerra dei Sei Giorni, quando i soldati israeliani furono costretti a combattere all’alba, nelle trincee di Gerusalemme, durante la battaglia della Collina delle Munizioni. Nella maturazione del design sono state incorporate anche le esperienze belliche nella Striscia di Gaza e le difficoltà incontrate dagli eserciti occidentali in città come Mosul, in Iraq.

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Quanto ne è venuto fuori è un drone-kamikaze dotato di rotori multipli, che può temporeggiare sull’obiettivo oltre la linea di vista, essendo ottimizzato soprattutto per colpire nemici trincerati in edifici civili. Gal Papier, direttore dello sviluppo commerciale di Rafael, ha tenuto a precisare che il nuovo sistema integra un seeker elettro-ottico, un datalink e ovviamente una testata. Assomiglia come una goccia d’acqua ai missili Spike, una famiglia sempre targata Rafael. Se ne differenzia per i rotori duali, che gli permettono manovre persistenti di hovering e operatività anche in presenza di vento, senza alterazione alcuna della stabilità.

La testata pesa massimo 400 grammi, ed è pensata per sopprimere insorti, nidi di mitragliatrici e cecchini. Il sistema vola a una distanza di 1,5 km in linea di vista e per mezzo km oltre. Premendo un pulsante ad hoc sul tablet di pilotaggio, il drone può interrompere la missione e far ritorno alla base.

Ha una tecnologia sensoristica che gli consente di volteggiare evitando gli ostacoli, sia di giorno, sia di notte, con ridotta segnatura acustica. La batteria e la testata sono sostituibili.

Per missioni di sola ricognizione, quest’ultima può cedere il posto a una seconda batteria, che aumenta l’autonomia in volo di 15 minuti. Quando azionato dal tablet dell’operatore, il FireFly può picchiare sull’obiettivo a 70 km orari. Rafael lo sta configurando anche per poter essere lanciato da veicoli, in sciami.

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Regina dei droni-kamikaze e non solo, Israele pullula di aziende hi-tech. UVision Air Ltd  è una referenza del settore con la serie delle munizioni circuitanti Hero: Hero-30, 70, 120 (nella foto sopra) ,  250, 400EC, 900 e 1250), molto diffuse anche fra alcuni eserciti di punta della NATO.

L’ultima novità dell’azienda è il concetto sinergico sviluppato con Milrem Robotics per equipaggiare gli UGV estoni Type-X e THeMIS con lanciatori pluritubo, così da renderli delle piattaforme mobili di lancio per i suoi droni-kamikaze.

L’idea è quella di fornire alle truppe di prima linea una capacità indipendente nel localizzare, tracciare ed eliminare obiettivi altamente protetti, ingaggiandoli da grandi distanze in ambienti non permissivi, con segnali GPS degradati e comunicazioni intermittenti, senza richiedere il supporto dei comandi sovraordinati.

Sul Type-X, che ha recentemente adottato la CPWS II (Cockerill Protected Weapons Stations Generation II), è stato installato un lanciatore Multi Canister. E il robot è ora in grado di operare la munizione circuitante Hero-120, munita di testa anti-tank e autonoma fino a un’ora, oltre che la loitering munition Hero-400EC, che raddoppia l’autonomia in volo e veicola una carica bellica devastante contro i bersagli fortificati. Per massimizzare il controllo remoto,

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il robot è stato equipaggiato con un’antenna di comunicazioni dal raggio di 40 km, montabile su un mast telescopico. Quanto al THeMIS, che ha conosciuto il battesimo del fuoco in Mali con il contingente estone , il sistema è stato configurato per lanciare con il Multi Canister fino a sei munizioni circuitanti UVision, a vantaggio delle fanterie appiedate e delle forze speciali.

Il robot è già in servizio in Norvegia, Regno Unito, Stati Uniti, Olanda e Germania. Vedremo se incontrerà i favori del mercato anche nella nuova variante. A conti fatti, i giganti mondiali nel settore delle loitering munitions sono ancora pochi. Una buona parte vede primeggiare proprio gli israeliani, opposti agli iraniani.

Teheran ha sviluppato un buon numero di munizioni circuitanti, fra cui meritano di esser menzionate le Ababil-T, in tre configurazioni, le Farpad, le Karrar Hadaf-1 o Ababil Jet, le Lark, le Samad 2 e le famigerate Samad 3, fornite anche agli Houthi, i guerriglieri zaiditi yemeniti, le Raad-85, le Qasef-2 e le Qasef-2K. Munizioni iraniane sono state usate contro i siti petroliferi sauditi di Abqaiq-Khurais nel 2019.

 

L’ascesa di Pechino nel settore delle munizioni circuitanti

Oltre ai due nemici mediorientali, Stati Uniti e Cina si disputano un mercato in crescita. Pechino ha cominciato a interessarsi alle loitering munitions a metà anni ’90. È allora che inizia la storia del suo drone-kamikaze ASN-301, presentato per la prima volta alla parata militare del luglio 2017, in occasione del 90° anniversario della fondazione dell’Esercito Popolare di Liberazione. In quegli stessi anni, Pechino aveva commissionato a IAI 100 droni Harpy, pagandoli 55 milioni di $. Era un periodo che gli ingegneri cinesi compravano i sistemi, li smontavano e li riproducevano.

Poco prima del 2000, l’Università Politecnica del Nord-Ovest fu incaricata di reingegnerizzare l’Harpy. Un anno dopo, a luglio, la copia sinizzata era quasi ultimata, pronta ai test di calibratura e di stabilità a terra. Ma sorse un problema. Il motorista inglese UEL, che forniva a IAI il motore a pistoni AR731, stralciò l’accordo con i cinesi, costringendoli a rivedere i piani e a sbrigarsela in casa. Nel frattempo, il programma di aggiornamento dell’Harpy, previsto nel contratto iniziale fra Pechino e Gerusalemme, fu bloccato dagli Stati Uniti. Era il 2004.

Da Washington arrivò anche il veto al progetto per l’AWACS A50I, destinato sulla carta all’aviazione cinese. La Commissione Militare Centrale, a Pechino, reagì immediatamente. Entrambi i veti non avrebbero affossato le ambizioni cinesi, che sarebbero state perseguite ‘a solo.

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Fu così che nacquero l’AWACS cinese KJ-2000 e l’antenato dell’ASN-301. Paragonato all’Harpy, cui si ispira fortemente, l’ASN-301, o JWS01 (nelle foto sopra e sotto) , come lo apostrofa la nomenclatura interna dell’esercito cinese, dispone di un collegamento dati supplementare con le unità di comando basate a terra, che permette agli operatori di intervenire, riprendendo il controllo del sistema nel caso si vogliano interrompere o modificare i parametri della missione.

La cosa è resa possibile grazie all’inserimento di una suite optronica, che ritrasmette i dati visivi a terra. Una capacità presente anche sull’Harop, posteriore all’Harpy. Gli ingegneri cinesi hanno aggiunto al drone quattro derive verticali retrattili, che ne migliorano la tenuta aerodinamica nella fase di attacco terminale, quando entra in gioco la modalità ‘drone-suicida’, posteriore all’identificazione e alla localizzazione del bersaglio.

L’antenna passiva della versione cinese dell’ASN-301 permette di captare uno spettro più ampio di frequenza, fra i 2 e i 18 GHz, contro i 2-16 GHz della variante per l’export, con una testa radar cercante dal raggio di 25 km. Non meno di due forme diverse di sensori sono state identificate sul drone cinese, suggerendo che il sistema possa essere diretto contro due diverse categorie di obiettivi.

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Quanto alla motorizzazione, il drone ha un motore a pistoni, come l’Harpy, ma i cinesi se lo sono fatto in casa e hanno fatto in modo che possa essere alimentato con semplice carburante per automobili.

Di taglia simile all’Harpy, il JWS01 misura in lunghezza 2,5 m e ha un’apertura alare di 2,2 m. Supera l’originale israeliano per autonomia e velocità, balzando da 500 a più di 600 km e da 185 a 220 km/h. La variante per l’export, ASN-301, è stata limitata nella portata (280 km). La sua resistenza in volo si aggira sulle 4 ore.

Poi, o colpisce, o rientra alla base. La carica bellica, che coincide con il drone stesso, contiene 7.000 frammenti esplosivi, dal raggio distruttivo di 20 m. Autonomo in tutto, il drone-kamikaze cinese può essere controllato da remoto. É ottimizzato per le missioni SEAD e l’attacco ai sistemi radar. In teatro, è lanciabile da camion militari 6×6 sul cui retro sono montati 6 container per 6 droni, in 3 file sovrapposte, con portelloni apribili.

Capitolo costi: i vantaggi non mancano. I cinesi vendono ogni drone a due milioni di yuan, circa 254.000 euro, poco più del costo di un razzo guidato da 300 mm in uso al loro esercito. Ma l’Esercito popolare di Liberazione sta per ‘arruolare’ altri due droni-kamikaze, sempre made in China, il CH-901 e il WS-43.

Il primo è stato presentato da Poly Defense al salone SOFEX 2018, ad Amman. Dedicato alle forze speciali, il CH-901 può circuitare per 40 minuti sull’obiettivo, braccandolo e poi ghermendolo con una carica a frammentazione o con una testa ad alto potenziale, capace di penetrare fino a 10 mm di acciaio RHA, distruggendo blindati leggeri. Il drone pesa 9 kg e può essere facilmente manipolato da un singolo commando, in una classica missione di controterrorismo o di azione diretta. Vola a velocità comprese fra i 7 e i 120 km/h, coprendo distanze massime di 10 km. Nelle due ore di autonomia, può individuare e tracciare obiettivi lontani oltre un chilometro e mezzo da un’altezza di 450 metri grazie ai sensori da ricognizione.

Generalmente spicca il volo da un container ed è pronto all’uso in meno di 3 minuti. A settembre, l’Accademia cinese di elettronica e di tecnologia informatica (CAEIT), sussidiaria del gruppo CETC, ha testato il drone in una configurazione finora inedita: un volo in sciame, che ha coinvolto 200 esemplari, eiettati in un pugno di secondi da un lanciatore munito di 48 tubi.

Il container-lanciatore era montato per l’occasione su una versione modificata del veicolo tattico leggero 6×6 Dongfeng Mengshi, ma il sistema può essere facilmente traslato sulle unità navali, come dimostrato in statica terrestre. Il video del test mostra però dell’altro.

C’è anche un elicottero Bell 206L, in volo, da cui è rilasciato un CH-901 e si vede una formazione compatta di 11 droni, manovrata da un operatore a terra via un tablet con schermo touch-screen. Non si capisce invece se le riprese effettuate dai sensori elettro-ottici dei droni-kamikaze abbiano anche funzionalità ad intensificazione luminosa o IR per il volo notturno.

Una cosa è certa. Pechino sta bruciando le tappe, in parte ispirandosi ai programmi dell’US Army e dell’Office of Naval Research. Punta a dotare del CH-901 tutte le branche dell’Esercito popolare di Liberazione, in primis le forze speciali, i cui effettivi sono raddoppiati dagli anni 2000 ad oggi, arrivando a contare 20-30.000 uomini.

L’esercito allinea nove brigate di commando, ognuna di 2-3.000 uomini. La brigata Arrow, creata all’inizio degli anni 1990, passa per essere già specialista nell’uso di droni ISR e di altri armamenti specifici, laser soprattutto.

Per la Marina è la flotta del Sud ad avere gli incursori del reggimento Sea Dragon e il gruppo Jiaolong, incaricato degli abbordaggi e del controterrorismo marittimo. Tutti i JTAC delle forze speciali cinesi usano droni per la ricognizione e l’intelligence ottica. Acquisire le loitering munitions li metterebbe al passo dei tempi e all’altezza delle nuove sfide.

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Per le forze terrestri e i marines sarebbe pronta anche l’altra munizione circuitante, la WS-43 (nella foto sopra), che ha il pregio di poter esser sparata da un lanciarazzi. Il drone vola poi autonomamente, grazie a dosi di intelligenza artificiale, anche se ha un raggio limitato a 60 km e può orbitare solo per mezz’ora montando una testa bellica da 20 chili.

Del grande rivale statunitense parleremo meglio dopo, ora è meglio spendere due parole sull’arcinemico regionale, l’India, che punta a riequipaggiarsi anche nel settore emergente dei droni-kamikaze.

Il 6 marzo scorso, il ministero della Difesa, a Delhi, ha pubblicato una richiesta di informazioni per acquistarne 100 unità. I requisiti minimi sono stringenti: il drone-kamikaze scelto dovrà essere portatile, pesante meno di 20 kg, autonomo in volo per almeno mezz’ora, avere un raggio di 15 km in linea di vista, capace di operare fino a 4.500 metri sul livello del mare e a non meno di 300 m dal suolo, essere scudato dai disturbi elettromagnetici e GPS, montare testate anti-personale e comunque sufficienti a distruggere obiettivi scarsamente protetti.

Ovvio, il drone dovrà essere comandabile da un operatore a terra tramite un collegamento dati e dovrà essere provvisto di tutta la suite sensoristica, con capacità diurna e notturna, di una stazione di controllo terrestre munita di display manuale digitale, sistemi di comunicazione, antenna e treppiede.

La stazione di controllo terrestre dovrà essere in grado di operare contemporaneamente più loitering munitions. Il MoD indiano ‘pretende’ un sistema lanciabile anche da piattaforma aerea, ad ala fissa o rotante. E vuole che quasi tutti i 100 esemplari siano consegnati entro 18 mesi dalla stipula del contratto. Fiutando l’aria, già a gennaio 2020, l’israeliana UVision Air ha creato una joint venture con l’autoctona Aditya Precitech per produrre munizioni circuitanti sotto il brand PALM (Precision Attack Loitering Munition) Hero Systems. Un modo per rispondere al requisito Make in India, lusingare il governo e spiazzare la concorrenza.

 

La corsa alle loitering munitions

In questo mare magnum ancora ristretto ed altamente competitivo, cominciano ad affacciarsi Russia, Taiwan e Ucraina. Al salone Army-2019, la russa ZALA Aero, una filiale del gruppo Kalashnikov, ha presentato il suo Lancet 3, un drone-kamikaze capace di svolgere missioni di ricognizione, comunicazione, navigazione e attacco. Derivato dall’UAV Kyb, il Lancet 3 ha un payload maggiore e una guida TV, che permette all’operatore di controllare la munizione fino alla fase terminale del volo. Il sistema, che ha un peso massimo al decollo di 12 kg e un raggio operativo di 40 km, è propulso elettricamente e monta un piccolo rotore bipala.

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Il carico bellico da 3 kg è rappresentato da una testa HE (High-Explosive) o da una carica a frammentazione ad alto potenziale. Ne esiste anche una minivariante da ricognizione, il Lancet 1. Ma a noi interessa, la munizione circuitante standard che, a novembre 2020, è stata impiegata con successo dai regolari russi nel settore di Idlib, in Siria, ricevendo il battesimo del fuoco.

Un discorso a parte merita l’Ucraina, che sta conoscendo una seconda giovinezza nel campo dei droni-kamikaze. A fine febbraio 2019, all’UMEX di Abu Dhabi, Kiev ha presentato il suo RAM (nella foto sotto), un drone kamikaze concepito per fare attacchi e ricognizioni, soprattutto in scenari urbani.

La munizione ucraina può essere equipaggiata con tre diverse testate, modulari e dal peso variabile fra i 2 e i 4 kg. Una contiene 150 submunizioni. É concepita come carica bellica ad alto esplosivo e a frammentazione, disegnata per contrastare fanterie allo scoperto e veicoli scarsamente protetti, nel raggio di 45 mq; un’altra ha una carica termobarica, destinata a trattare installazioni campali nell’area di 15 mq; mentre la terza è una testata anticarro ad alto potenziale di penetrazione, capace di perforare blindature spesse fino a 40 mm. Il RAM ha un CEP (Circular Error Probable) che non supera il metro. Può ingaggiare obiettivi in marcia ed è propulso da un motore elettrico, con bassa segnatura acustica.

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Il suo peso al lancio varia, a seconda della testata, fra gli 8 e i 10 kg. Quanto ad apertura alare, la munizione non supera i 230 cm. Può volteggiare fino a distanze di 30 km, a una velocità massima di 50 km/h. Persiste sull’obiettivo fino a 30 minuti, se monta la testata da 4 kg, ma in caso di testa bellica da 2,5 kg può circuitare per un’ora. In assetto da ricognizione, l’autonomia sale a 150 minuti.

La suite sensoristica è imperniata su un seeker attivo e una camera elettro-ottica ad alta definizione, dotata di uno zoom ottico di 10x. La camera individua l’obiettivo, acquisendolo in tempo reale, e guida la munizione, che è munita di un datalink criptato a due vie. Dell’azienda Athlon Avia è invece il sistema da attacco con lancio a traiettoria verticale ST35 Silent Thunder, concepito per essere trasportabile da un team di tre uomini in tre zaini da circa 15 kg, con tre munizioni circuitanti l’uno.

Il sistema è ottimo per intervenire in scenari urbani densamente popolati, in cui sia richiesto minimizzare i danni infrastrutturali e le perdite inutili fra i civili inermi. Sembra sia pensato appositamente per le azioni dirette delle forze speciali ucraine, ma non solo, che prevedano di attaccare stazioni radar, sistemi di guerra elettronica, elementi di comunicazione e piattaforme di comando e controllo, arsenali di munizioni, depositi di carburanti, insomma bersagli paganti e ad alto valore aggiunto, particolarmente protetti.

Ha un design esacottero, che integra un trasponder e una munizione singola con una testa esplosiva incendiaria FAE (Fuel-Air Explosive) da 3,5 kg, alternabile con una testa antitank ad alto potenziale, con una carica termobarica, una cumulativa o con una carica ad alto esplosivo frammentabile. Il vettore ST-35 ha un raggio di 40 km, che può coprire alla velocità di 120 km/h.

Dispiegabile in 15-20 minuti, ha un peso massimo al decollo di 9,5 kg e un’autonomia di un’ora, durante la quale sfuggirebbe a gran parte delle intercettazioni visive, acustiche e radar. L’efficacia nell’attacco sarebbe garantita nel 95% dei casi, con una deviazione circolare non superiore ai 3 metri.

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Non paga, un’altra azienda ucraina, A.Drones, sta lavorando al Pilum, una loitering munition (nella foto sotto) con autonomia sufficiente a coprire 50 km di raggio. Equipaggiato con una camera ottica, il drone-kamikaze può inviare immagini alle truppe a terra, mentre orbita su un obiettivo o su un’area assegnata. Se l’operatore che lo comanda identifica un bersaglio pagante, comincia l’attacco: il drone picchia sull’obiettivo con il carico bellico da 2 kg, aumentabile a 5 kg nella versione con bomba planante.

Il drone è adattabile con pochissime modifiche strutturali per il lancio da un container terrestre o da un vettore aereo. Se l’Ucraina comincia ad emergere, la Polonia eccelle già da tempo, con il Warmate di WB Electronics..

Parliamo di un drone pesante 5 chilogrammi, armato di una testa bellica intercambiabile a seconda della missione. La testata può essere anticarro, a frammentazione, termobarica o configurata come un sensore ISR. Recuperabile in caso di non impiego, il Warmate ha un’autonomia di 30 minuti e una portata di 10 chilometri.

L’esercito polacco l’ha ordinato in mille esemplari e ha cominciato a riceverne i primi nel dicembre 2018. Nel frattempo, Cablex ha firmato un contratto con WB Electronics per produrlo su licenza e rifornirne l’esercito australiano.

 

Munizioni a basso costo e vantaggi tattici

L’interesse crescente per le munizioni circuitanti è motivato senz’altro dal costo, molto contenuto. Confrontato con altri sistemi per colpire un bersaglio dall’aria, questo tipo di munizioni è assai meno oneroso per il contribuente e per i vincoli di bilancio, sempre più stringenti, della difesa. Le loitering munitions rappresentano un ottimo compromesso fra qualità e prezzo.

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Permettono inoltre di fornire una risposta coerente ad alcune necessità. I missili da crociera come i Tomahawk sono in effetti sovradimensionati per tutta una categoria di obiettivi, non solo per la carica bellica troppo elevata, dati i 450 kg di esplosivo contro i 16 kg dell’Harop di IAI (nell’immagine qui sopra), ma anche per il loro costo unitario, superiore al milione di dollari.

Da questo punto di vista, uno Switchblade è molto più pregnante per colpire un combattente o un veicolo leggero che non un’arma sganciata da un aereo. Tanto più se si considera l’ultima iterazione dell’arma: lo Switchblade 600, sempre portatile, più pesante (22,7 kg) della versione base, pronta al lancio in meno di 10 minuti, montabile su un veicolo o un velivolo slow mover, come la variante senza pilota a bordo del Kaman K-Max, il Northrop Grumman MQ-8C Fire Scout e altri.

La nuova munizione, alimentata da una batteria elettrica, è autonoma per 80 km o, se si preferisce, per 40 minuti di volo. Un intervallo di tempo in cui può compiere molteplici orbite sull’obiettivo prima di colpirlo, fosse anche in movimento.

Ottima la velocità, garantita a 169 km/h. Sul naso dell’arma è montata una suite di sensori elettro-ottici e di camere all’infrarosso per la navigazione, la sorveglianza e il targeting, fondamentali per abortire automaticamente la missione in caso di presenza di forze amiche o di civili. Il tutto è pilotato con un tablet in cui è installato un sistema di controllo del fuoco che consente all’operatore di guidare l’UAV sull’obiettivo, manualmente o automaticamente. Le testate dell’arma sono modulari, disponibili perfino in variante antiradar, da guerra elettronica.

Il sistema potrebbe essere un’alternativa o un arricchimento dell’arsenale di missili anticarro Javelin, TOW ed Hellfire. Aerovironment ha pensato la ‘classe’ 600 per rispondere ai requisiti del programma di sviluppo dell’US Army ‘Single Multi-Mission Attack Missile’. E l’investimento si è rivelato vincente, perché anche il Corpo dei Marines e altre componenti di forza armata hanno espresso requisiti simili. L’azienda è impegnata in un’offensiva tous azimuts.

Ha fatto squadra con General Dynamics Land Systems per offrire una soluzione che integri il binomio veicolo da combattimento di nuova generazione/drone kamikaze nella gara Optionally Manned Fighting Vehicle dell’Esercito americano.

E si è associata con Kratos Defense and Security Systems per plasmare «un dimostratore di UCAV a lungo raggio e ad alta velocità che funga da vascello madre per rilasciare uno sciame di Switchblade 300 (nell’immagine sotto) organizzati come una rete di sensori informativi e muova dal bersaglio verso una stazione di controllo terrestre per eseguire sinergicamente manovre di attacchi multipli a livello tattico e soverchiare, disabilitandoli, i sistemi nemici».

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La compagnia sta azionando le leve e i suoi canali lobbistici per piazzare lo Switchblade 600 fra gli effettori dei futuri elicotteri del programma Future Vertical Lift (Air-Launched Effects). Ma che vantaggi offrono le munizioni circuitanti rispetto ai proietti classici? Il tempo di reazione è molto minore con una loitering munition. Impiegarle permette inoltre di scongiurare al massimo il rischio di fuoco fratricida, essendo l’arma guidata dall’unità presa sotto tiro, diversamente da un missile lanciato dal pilota di un bombardiere.

La precisione se ne giova, risultando superiore a quella di un tiro di artiglieria. Ultimo, ma non meno importante, questi sistemi hanno una bassissima segnatura radar, ottica e sonora, di molto inferiore a quella dei droni da combattimento. La loro taglia ridotta, la loro rapidità e la loro agilità li rendono estremamente difficili da distruggere sia dagli armamenti terra-aria tradizionali, sia dalle armi di fanteria, tanto più che, per loro discrezione, le truppe al suolo li individuano troppo tardi per poter reagire.

E gli apparecchi a batteria non emettono quasi segnatura termica, una cosa che impedisce ai sistemi spalleggiabili contraerei MANPADS di ingaggiarli e contrastarli. Inoltre, uno dei più grandi vantaggi delle munizioni circuitanti consiste nelle possibilità d’impiego più varie, impossibili per gli altri sistemi volanti esistenti.

In futuro, le loitering munitions, in rete o in sciami, potranno mettere a fattor comune i loro mezzi di osservazione, attaccando indipendentemente o simultaneamente gran copia di nemici. Un esempio tattico può illuminare il futuro operativo: si prenda il campo delle forze speciali. Attaccando in sciame, le munizioni circuitanti potrebbero trasformare e massimizzare gli effetti potenziali di un raid delle forze speciali nelle profondità del dispositivo avversario, aumentando le possibilità di sopravvivenza degli operatori.

 

Le prospettive nel Corpo dei Marines

Ma il campo d’impiego delle loitering munitions va ben oltre l’orizzonte già ampio delle special forces. Oltreatlantico, l’US Marine Corps ha lanciato il programma ‘Organic Precision Fires-Infantry Light’ per acquisire droni-kamikaze a lancio terrestre, capaci di volare in sciami. La richiesta di informazioni risale a novembre. Nel dettaglio, essa prevede che il sistema d’arma sia maneggiabile da non più di due marine e che il velivolo si spinga fino a 20 km di distanza, orbiti per 90 minuti sul campo di battaglia e sia capace di scovare e distruggere truppe e materiali nemici, evolvendo in scenari contestati elettronicamente.

L’idea è quella di impiegare i sistemi d’arma in un eventuale conflitto insulare con la Cina, traendone effetti d’area. Il Corpo vorrebbe droni-suicidi anche fra la panoplia delle armi lanciabili dai sistemi a bordo dei LAV, i veicoli da ricognizione armata usati per pattugliare il teatro.

Il requisito è sorto nel 2020. Subito ribattezzato Organic Precision Fires-Mounted (OPF-M), permetterebbe ai marines di fare ricognizioni profonde e strike in un raggio fra i 7 e i 100 km, senza esporsi, sfruttando le peculiarità delle munizioni circuitanti.

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Come se non basasse, l’USMC sta per sovvertire, rivoluzionandolo, l’appoggio organico delle proprie unità da combattimento. Da fine 2017, sta radiando l’insieme dell’Expeditionary Fire Support System, articolato intorno ai mortai M-327 da 120 mm. Molte ragioni ne sono alla base, soprattutto la scarsa interoperabilità con il convertiplano MV-22 Osprey.

Un handicap che causa delle vulnerabilità nella copertura delle unità sbarcate, così come problemi di affidabilità sui veicoli di appoggio associati all’M-327. Con il ritiro di questi mortai, si apre un vuoto fra gli obici M-777 da 155 mm e i mortai leggeri da 60 e 81 mm che si spartiscono le missioni di appoggio di artiglieria.

Se i Marines si accontentano oggi dei mortai leggeri e dei missili anticarro FGM-148 Javelin, le munizioni circuitanti rappresentano una delle opzioni principali all’esame per rimpiazzare i mortai M-327, che avevano una gittata di 8 chilometri. Oltre agli sciami di droni-kamikaze, l’USMC odierno vuole un’arma dal raggio minimo di 25 km, possibilmente esteso fino a 50 km. Dotato di sensori capaci di effettuare missioni ISR limitate, questo sistema dovrà essere recuperabile in caso di non impiego o nell’eventualità in cui la connessione con l’operatore si interrompesse.

Uno degli scogli maggiori che si frappongono fra le loitering munitions e i Laethernecks riguarda la perdita di situational awareness, di percezione e padronanza della situazione operativa, nel caso in cui l’operatore fosse tutto focalizzato sul pilotaggio della munizione.

Il soldato rischierebbe di esser stritolato fra due compiti esigenti in caso di ingaggio diretto sulla sua posizione. Il sistema d’arma dovrebbe pertanto poter evolvere in maniera semi-autonoma, esigendo un intervento umano limitato alla scelta e alla convalida del bersaglio.

Il tubo di lancio dovrà misurare meno di 30 centimetri di diametro e meno di due metri e mezzo di lunghezza, con un peso totale che consenta a un binomio, e ancora meglio a un singolo, di trasportarlo a piedi. Quanto ad autonomia si parla di un requisito minimo di un’ora. I costi unitari dovranno essere molto più contenuti di quelli di un Javelin, che si aggirano sugli ottantamila dollari per missile. Solo così l’arma presenterebbe un vantaggio marginale nell’impiego contro un ampio spettro di obiettivi leggeri, come nidi di mitragliatrici, postazioni di mortai nemici e piccoli gruppi di combattenti avversari.

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Lo scenario è in fermento. Anche l’US Army comincia a studiare l’affare con smania. Nell’ambito del programma LMAMS (Lethal Miniature Aerial Missile System) ha appena assegnato un contratto da 76 milioni di $ ad Aerovironment per la fornitura ed il supporto dello Switchblade 300 alle proprie unità.

Ma guarda già oltre. Deve rispondere a un’acquisizione d’urgenza operativa. Potrebbe essere interessato a collaborare con l’USMC, per ridurre i costi della commessa. E già fioccano le scommesse. A titolo di esempio, il Coyote costa appena quindicimila dollari, ma è totalmente sprovvisto di sensori ISR.

L’Hero 120 di UVision, che ha un’ora di autonomia e quaranta chilometri di raggio utile, si avvicina in molto ai requisiti del Corpo dei Marines, similmente all’Hero 400 EC, con la sua ora e mezza di autonomia e i suoi 100 chilometri di portata. Vedremo chi la spunterà.

 

I Navy SEALs e le loitering munitions

Le forze speciali navali non sono da meno. Stanno studiando a tappe forzate la possibile integrazione delle munizioni circuitanti sulle imbarcazioni degli Special Warfare Combatant-craft Crewmen (SWCC). Una cosa che permetterebbe di colpire dal mare bersagli paganti appena identificati o altri obiettivi ridotti, pur sempre d’importanza strategica, senza dover ingaggiare uomini a terra.

È il tema ricorrente del programma Maritime Precision Engagement (MPE), lanciato nel marzo 2018 dall’US Navy per equipaggiare i Combatant Craft Medium (CCM) e i Combatant Craft Heavy (CCH), le nuove imbarcazioni rapide del Naval Special Warfare Command.

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L’Hero 30 di UVision, con 30 minuti di autonomia, è fra le opzioni papabili. Pesante tre kg, ha una carica bellica di mezzo chilo, proiettabile contro obiettivi distanti fino a 40 km. È già stato testato in ambiente marittimo sebbene sia più pesante, intorno ai 125 kg, l’Hero 1250 è anch’esso integrabile sulle imbarcazioni rapide e potrebbe rispondere ad altre necessità delle forze speciali, essendo in grado di trattare bersagli relativamente imponenti ad oltre 190 km di distanza.

Dal canto suo, AeroVironment propone una versione dello Switchblade capace di proiettare sei droni simultaneamente. La panoplia presenta un inviluppo di peso e di volume talmente contenuto da poter essere installata sui CCM, sui CCH e perfino sui Combatant Craft Assault (CCA), la minore delle imbarcazioni delle forze speciali navali. Parliamo di un tipo di equipaggiamento che potrebbe prefigurare tattiche di swarming nelle operazioni speciali. Gli SWCC usano impiegare le loro unità navali come basi d’appoggio flottanti e un lanciatore multiplo galvanizzerebbe ulteriormente la loro potenza di fuoco.

I quadricotteri Rotem (nella foto sopra)  e Green Dragon (nell’immagine sotto) di IAI potrebbero rispondere benissimo ai bisogni del NSWC (Naval Special Warfare Command). Il Green Dragon ha infatti un’autonomia di un’ora e mezza e una portata di 90 chilometri.

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Oltre ai sistemi d’arma installabili sulle imbarcazioni, l’US Navy è inoltre interessata a un’arma portatile, trasportabile da un uomo sul dorso, come uno zaino, per essere impiegata a terra. Se i SEALs integrassero una loitering munition su un CCH o un CCM, nulla impedirebbe alle Special Forces dell’US Army di fare altrettanto con i veicoli.

D’altronde, i camion 6×6 Pinzgauer o gli LMTV War Pig svolgono un ruolo simile alle imbarcazioni dei SEALs come basi mobili presso i gruppi di Berretti Verdi disseminati nella profondità del dispositivo avversario. Secondo la taglia del sistema, questo potrebbe essere installato su un’intera gamma di veicoli più o meno pesanti, come gli Humvee, gli M-ATV, i GMV 1.1 o i 4×4 Polaris LT-ATV. Il futuro delle munizioni circuitanti è appena cominciato.

 

Conclusioni

Diversamente da un missile, i sistemi di cui abbiamo parlato possiedono tutte le funzioni di un drone. Hanno capacità di visione diurna e notturna, possono essere utilizzati in un ambiente non accessibile al GPS, hanno autonomia di navigazione e così via. Rispetto a una munizione classica, l’idea è anche quella di poter fare un handover, ovvero una trasmissione di controllo.

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Traducendo in parole più semplici: il drone sarebbe lanciato da un posto operativo avanzato e la sezione da ricognizione sul terreno ne prenderebbe il controllo nelle fasi terminali della missione. Si tratterebbe pertanto di una munizione intelligente, circuitante, che può essere dispiegata su una zona operativa senza obiettivi prestabiliti. Non va confusa con lo spettro dei sistemi d’arma letali autonomi, capaci di identificare l’obiettivo e di decidere autonomamente di ingaggiarlo.

Nel caso delle munizioni circuitanti viene sempre richiesta l’autorizzazione dell’operatore per l’impiego della carica bellica. Oggi non risultano unità che rischierebbero di addentrarsi in un teatro sorvolato da un robot programmato per decidere unilateralmente se far esplodere il carico bellico o meno. Con le loitering munitions, tutto il processo decisionale finale rimane in mano al combattente e le munizioni circuitanti apportano solo un ventaglio di opportunità in più.

 Immagini: IAI. Rafael, Ministero della Difesa dell’Azerbaigian, Roketsan, Uvision, Milrem Robotics, Elbit e AeroVironment, US Army, US Marine Corps e CATIC

Francesco PalmasVedi tutti gli articoli

Nato a Cagliari, dove ha seguito gli studi classici e universitari, si è trasferito a Roma per frequentare come civile il 6° Corso Superiore di Stato Maggiore Interforze. Analista militare indipendente, scrive attualmente per Panorama Difesa, Informazioni della Difesa e il quotidiano Avvenire. Ha collaborato con Rivista Militare, Rivista Marittima, Rivista Aeronautica, Rivista della Guardia di Finanza, Storia Militare, Storia&Battaglie, Tecnologia&Difesa, Raid, Affari Esteri e Rivista di Studi Politici Internazionali. Ha pubblicato un saggio sugli avvenimenti della politica estera francese fra il settembre del 1944 e il maggio del 1945 e curato un volume sul Poligono di Nettuno, edito dal Segretariato della Difesa.

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