Congo, inferno dimenticato

L’uccisione dell’ambasciatore italiano Luca Attanasio, del carabiniere di scorta, appuntato Vittorio Iacovacci e del loro autista congolese Mustafà Milambo Baguna ha riportato all’attenzione dell’opinione pubblica italiana lo stato di perenne crisi, umanitaria e militare, della Repubblica Democratica del Congo (da intendersi l’ex-Zaire e da non confondersi con l’assai più piccolo Congo Brazzaville) e delle zone limitrofe alla regione africana dei Grandi Laghi.

Da decenni tutta la fascia orientale dell’enorme paese, ricchissimo di risorse minerarie, è preda di numerosissimi gruppi ribelli, la cui presunta titolarità politico-eversiva spesso sconfina nel puro e semplice brigantaggio. Massacri di civili, rapimenti a scopo di riscatto e contrabbando di minerali rari rendono la zona una delle più pericolose del mondo e la stessa presenza di una forza ONU di 17.000 militari non basta, alla luce dei fatti, ad aiutare l’esercito governativo.

Questo inferno “nascosto”, è da tempo dimenticato e rimosso dall’opinione pubblica occidentale, che difficilmente ricorda il genocidio del Ruanda del 1994 e che ignora, forse del tutto, che in una fase particolarmente acuta, dal 1998 al 2003, la regione conobbe perfino una lunga guerra da 5 milioni di morti, una vera “guerra mondiale africana” che vide l’intervento di molti paesi del continente. Ora quel calderone ha di nuovo sollevato il suo coperchio.

 

Agguato sulla strada

La mattina di lunedì 22 febbraio 2021 l’ambasciatore Luca Attanasio, 43 anni, che fin dal suo arrivo in Congo, nel 2017, si era dedicato a svariati progetti umanitari, si trovava nella città di Goma, capoluogo della provincia del Kivu Nord, nell’estremo lembo orientale del paese, a ridosso del confine con il Ruanda, dove era arrivato fin dal 19 febbraio. Da lì doveva raggiungere la città di Kiwanja, circa 73 km a Nord di Goma, percorrendo la strada RN2, detta “Kamango Road”.

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Un tragitto teoricamente breve per gli standard europei, ma che, date le condizioni accidentate della rotabile africana, richiede oltre due ore di tempo, per l’esattezza una media di circa 2 ore e 24 minuti. A quanto è stato finora accertato, l’ambasciatore ha lasciato Goma lungo la Kamango Road attorno alle 9.27 ora locale insieme ad appena sei persone, suddivise su due veicoli fuoristrada del World Food Program con i distintivi ONU. Attanasio doveva infatti presenziare a Kiwanja per la realizzazione di un progetto di alimentazione a favore delle derelitte popolazioni dell’area.

Dall’analisi delle fotografie scattate immediatamente prima della partenza da Goma, si riconoscono sia Attanasio, sia il carabiniere di scorta, appuntato Vittorio Iacovacci, insieme a quattro delle cinque persone destinate ad accompagnarli, fra le quali una potrebbe essere l’autista Mustafà Milambo. Fra gli accompagnatori c’era anche l’italiano Rocco Leone, alto funzionario del WFP.

Da una prima ricostruzione, l’ambasciatore viaggiava sul secondo dei due fuoristrada incolonnati, veicoli di tipo commerciale senza alcuna protezione blindata. Il tutto senza alcuna scorta, tranne che per la presenza del giovane carabiniere. In un punto che le autorità congolesi hanno indicato nei dintorni di Kibati, cioè a soli 15 km dopo la partenza da Goma, e quindi presumibilmente attorno alle ore 10.00, i due veicoli sono stati oggetto di un agguato da parte di un gruppo di “sei uomini armati di machete e di Kalashnikov”.

Su questa versione concordano le dichiarazioni a caldo del presidente del Congo, Félix Tshisekedi, e del governatore del Kivu Nord, Carly Nzanzu Kasivita. I due veicoli sono stati fermati sotto la minaccia delle armi e solo il veicolo di testa mostrava danni a un finestrino, mentre quello più arretrato, su cui viaggiava Attanasio, non avrebbe subito danni.

A questo punto, il primo a essere stato ucciso è stato l’autista Milambo, per intimorire gli altri componenti del piccolo convoglio e spingerli a seguire i guerriglieri. Almeno una delle guardie congolesi al seguito si sarebbe salvata fingendo di essere morta.

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Questo primo dettaglio sembra quindi già avvalorare l’ipotesi, poi emersa come sempre più probabile, di un tentativo di rapimento. Il gruppo composto dai rapitori e dagli ostaggi si sarebbe quindi spostato verso Nord di alcuni chilometri prima di essere intercettato dalle prime forze dell’ordine messe in allarme, ovvero i ranger del parco naturale di Virunga, elementi presumibilmente già di per sé abituati a confrontarsi in armi con bracconieri e banditi.

Ai rangers seguivano a ruota soldati dell’esercito congolese e caschi blu ONU della missione MONUSCO, attirati anche dal rumore degli spari. Immagini riprese coi telefonini e diffuse subito dopo mostrano che il gruppo di rapitori è stato agganciato in una zona chiaramente identificabile dalla presenza di tre grandi antenne per telecomunicazioni in una località presso Buhumba, a 23 km da Goma.

A quel punto, vistisi i ranger alle calcagna, ormai a soli 500 metri dietro di loro, i rapitori hanno in pratica abortito il loro piano iniziale e, per poter sfuggire alla svelta, hanno abbandonato gli ostaggi, non prima, però, di aver sparato al carabiniere Iacovacci, uccidendolo, e allo stesso Attanasio, ferendolo gravemente all’addome.

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Secondo i risultati dell’autopsia condotta il 24 febbraio, sulle salme, rientrate in Italia con un volo speciale, i due italiani sono morti per un totale di 4 colpi di fucile d’assalto AK-47 Kalashnikov, due colpi per ciascuno, sparati in entrambi i casi dal lato sinistro del loro corpo. In particolare, per quanto riguarda il carabiniere, il colpo mortale potrebbe essere quello rilevato all’altezza del collo, dove sarebbe rimasto un proiettile nel corpo.

L’ambasciatore non è morto subito, tanto che esistono immagini del suo disperato soccorso, mentre viene trasportato d’urgenza all’ospedale di Goma a bordo di un veicolo, con uno dei suoi accompagnatori che lo tiene fra le braccia disteso. Le ferite all’addome erano però destinate a non lasciargli scampo e poco dopo spirava. Questi sono i fatti, nella loro essenzialità, per come sono stati ricostruiti nell’arco delle 48 ore successive alla tragedia e, mentre scriviamo, Attanasio e Iacovacci ricevono le esequie di Stato a Roma.

 

Caccia agli assassini

Non si ha ancora idea di chi possa essere l’autore del tentato rapimento finito così tragicamente. A cavallo fra l’Est del Congo e i vicini stati di Ruanda, Burundi e Uganda sono stati censiti qualcosa come un centinaio di gruppi, fra grandi e piccoli, che operano ormai da decenni alle soglie del puro brigantaggio. Si è puntato il dito dapprima sulla temuta formazione islamista ADF, Allied Democratic Forces, che a dispetto del nome inglese è votata alla jihad e affiliata, almeno nominalmente (forse solo con una sua branca), all’ISIS, tanto da condividere probabilmente alcune fonti di finanziamento illecito con la formazione somala di Al Shabab.

La responsabilità di ADF, si è detto, potrebbe però essere indiretta, nel senso che lo specifico gruppo di fuoco autore dell’attacco potrebbe essere costituito da delinquenti comuni, esperti comunque nel saccheggio e nel taglieggiamento, che avevano intenzione di procurarsi ostaggi “di valore”, cioè occidentali, da “rivendere” poi all’ADF. Uno schema a quanto pare simile a quello seguito nel 2018 in Kenya dai rapitori della cooperante italiana Silvia Romano, poi “rigirata” ad Al Shabab.

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L’analisi delle testimonianze dei superstiti ha permesso di appurare che gli aggressori parlavano in lingua Kinyarwanda, idioma degli Hutu che costituiscono l’ossatura di altre formazioni che nulla c’entrano con l’ADF. Negli ultimi giorni si sta quindi privilegiando una pista che porterebbe al fronte FDLR (Fronte Democratico per la Liberazone del Ruanda), erede delle milizie protagoniste del genocidio ruandese del 1994, oppure ai movimenti Nyatura e M23.

In effetti, gli istituti di analisi Intelligence Fusion e Kivu Security hanno pubblicato mappe che ben mostrano come la strada fatale percorsa dal compianto ambasciatore incrociasse proprio i territori in cui spadroneggiano queste formazioni guerrigliere.

Le prime ricostruzioni dell’accaduto concorderebbero con quanto emerso dal sopralluogo-lampo degli investigatori del ROS dei Carabinieri, recatisi in Congo già fra il 23 e 24 febbraio per interrogare Leone e i tre sopravvissuti congolesi, due guardie e un autista.

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significativo che dai ROS sia emersa la richiesta di verificare se i proiettili letali per le vittime provenissero davvero da armi illegali oppure da armi registrate ed eventualmente in dotazione ai ranger o ai soldati congolesi, non essendo stata ancora del tutto esclusa l’ipotesi, inquietante, che il diplomatico e il carabiniere possano essere stati colpiti per errore in un conflitto a fuoco fra i rapitori in fuga e le autorità in inseguimento.

Promettendo di scovare e punire i responsabili, il governo congolese ha intanto iniziato a dare una stretta agli spostamenti dei diplomatici stranieri sul suo territorio, sollevando più di una perplessità. Infatti, il 23 febbraio il presidente Tshisekedi ha incontrato i suoi maggiori responsabili della sicurezza nazionale e dopo il summit ha fatto subito diramare quella stessa sera dal suo ufficio questo comunicato: “Gli ambasciatori e gli altri capi missione non possono più lasciare Kinshasa per l’interno del paese senza informare il capo della diplomazia congolese e i servizi competenti”.

Il fatto che tutti i diplomatici stranieri in Congo debbano d’ora in poi informare le autorità dei loro spostamenti lontano dalla capitale potrebbe a prima vista sembrare una misura di sicurezza, volta a poter offrir loro la protezione delle forze regolari congolesi.

Ma non tutti la pensano così. Come ha riportato l’agenzia Reuters, infatti, un paio di diplomatici stranieri, sotto anonimato, hanno dichiarato alla stampa che richiedere la notifica di spostamenti del personale diplomatico “potrebbe configurarsi come violazione della Convenzione di Vienna”, che regola la diplomazia internazionale.

E uno dei due ha anche ricordato che potrebbe perfino esporre a rischi maggiori, se è vero, come dicono anche rapporti ONU, che una parte dei militari e poliziotti congolesi è corrotta e in combutta con ribelli e banditi. Da qui al sospetto che la banda di rapitori contasse su un proprio appoggio informativo, in altre parole delatori, per sapere con esattezza orari e itinerario di Attanasio, il passo è molto breve.

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Il governo del Congo ha inoltre ordinato il 24 febbraio una nuova operazione militare, evidentemente per dimostrare alla comunità internazionale la volontà di riaffermare, o perlomeno tentare di riaffermare, la sua autorità sulle zone orientali del paese.

Ma c’è forse un po’ di confusione. Inizialmente, Radio Okapi aveva segnalato che, stando al portavoce militare Antony Mwalushayi, stava iniziando una offensiva del tutto nuova, denominata “Ruwenzori 2”, nella regione dell’omonimo vulcano, ai confini con l’Uganda, e diretta principalmente “a neutralizzare le forze ADF e i gruppi a loro affiliati attivi in questa regione”.

Sono però giunte precisazioni dal generale Sylvain Ekenge, secondo cui non si tratta affatto di una nuova operazione, ma della prosecuzione della già avviata “operazione Sokola 1”, già in atto da oltre una settimana. Secondo Ekenge: “Non ci sono cambiamenti nelle operazioni. L’operazione contro le ADF è ancora in atto a Mayangose.

Ma il comandante del settore, il generale Peter Cirimwami, si è concentrato sul Ruwenzori. È lì con le sue unità, ogni volta che conduce un’operazione, le dà un nome, ma l’operazione non è cambiata. C’è una forte attività delle ADF presso il Ruwenzori e lui vuole la pacificazione. Non c’è cambiamento, solo ci stiamo rafforzando da quella parte”.

Considerato comunque che l’intero esercito congolese non è accreditato di più di 160.000 uomini, piuttosto pochi per un territorio nazionale di oltre 2 milioni di km quadrati, nonché le difficoltà di transito in zone remote, fra foreste e alture nella parte orientale, è difficile che le operazioni dei governativi possano avere un successo risolutivo. Nelle stesse ore, si diffondeva la notizia di un nuovo massacro perpetrato, si dice, dall’ADF, che avrebbe trucidato 11 civili a Kisima, nella medesima regione del Kivu Nord in cui hanno perso la vita i due italiani.

 

Il senno di poi

Attorno alla tragedia sono fioriti dubbi e polemiche di ogni tipo. Anzitutto ci si è chiesti perchè mai l’ambasciatore e i suoi accompagnatori abbiano accettato di percorrere un tragitto in una zona così pericolosa e senza alcuna scorta, a quanto pare senza avvisare nessuno. Qualcuno, a quanto pare, avrebbe suggerito che Attanasio aveva intenzione di effettuare una visita un po’ in sordina, più per interessi commerciali legati ai minerali che per i programmi umanitari per cui si batte da tempo.

Queste insinuazioni sono state però prontamente rigettate il 24 febbraio dall’ambasciatore dell’Unione europea in Congo, il francese Jean-Marc Chataigner, che ha precisato: “L’oggetto della sua missione era duplice.

Un incontro consolare con i cittadini italiani residenti a Goma e una visita ai progetti sul campo del World Food Program su alimentazione e mense scolastiche. Diverse pubblicazioni su Facebook e Twitter tentano di offuscare l’immagine del mio amico ambasciatore Luca Attanasio, assassinato vigliaccamente lunedì con il suo autista Mustapha Milambo e il suo addetto alla sicurezza Vittorio Iacovacci, dicendo che lo scopo della sua visita nel Nord-Kivu sarebbe stato motivato principalmente da interessi minerari. Si tratta di fake news. Ricordo anche che l’Italia non ha società nel settore minerario nella Repubblica democratica del Congo e che è impegnata con l’Unione Europea nella lotta al traffico illecito di minerali dalle zone di conflitto”.

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Dal mondo politico, a caldo, la senatrice di Forza Italia Stefania Craxi ha dato voce a dubbi abbastanza diffusi in questi giorni: “E’ necessario richiedere sicurezza per i diplomatici e i militari. Lentezze e burocratismi nel campo diplomatico possono costare moltissimo. Ad esempio, non si comprende perché un’auto blindata per il nostro ambasciatore, richiesta nell’agosto 2020, non fosse ancora arrivata. Probabilmente dipendeva dall’Onu ma una cosa simile non deve accadere. Bisogna inoltre approfondire il ruolo da svolgere nell’area congolese dove il conflitto prosegue nel disinteresse generale”.

Sulla questione dell’auto blindata attesa dal diplomatico è da notare che l’Ambasciata d’Italia a Kinshasa aveva sviluppato una determina in data 20 agosto 2020, emettendo poi oltre due mesi e mezzo dopo, il 6 novembre, un bando il cui oggetto recita: “Invito alla procedura aperta per la fornitura in conto permuta di una autovettura blindata avente 7 posti a sedere e con un livello di blindatura VR6, CIG 7864299”. Il livello di protezione VR6, secondo la scala internazionale VR (Vehicle Resistance) equivale a una blindatura capace di resistere a proiettili bellici calibro 7,62 x 39 mm, tipicamente come quelli di un Kalashinkov, oltre a schegge di bombe a mano e perfino all’esplosione di una carica di 15 kg di tritolo da una distanza di 4 metri.

Col senno di poi, è quasi certo che un veicolo con simili caratteristiche avrebbe permesso all’ambasciatore di sfuggire a un attacco a scopo di rapimento da parte di una piccola banda di 6 uomini.

Al limite, un’auto blindata del genere sarebbe stata inutile soltanto nel caso di un attentato al preciso scopo di ucciderlo, dato che, ovviamente, una blindatura del genere non avrebbe potuto resistere all’eventuale uso di un razzo perforante della serie RPG o similare, studiato per i ben più pesanti carri armati. Le offerte dovevano pervenire entro “le ore 12.00 del 31 dicembre 2020”, dunque in tempi abbastanza stretti.

Il bando iniziale prevedeva come offerta valore di permuta che il nuovo veicolo avrebbe dovuto sostituire un’auto Toyota Prado già in possesso dell’ambasciata. Ma una rettifica del bando, datata 3 dicembre, ha poi precisato che la macchina da sostituire sarebbe stata invece una “Toyota Land Cruiser 200 GX 5 porte, anno di immatricolazione 2007”.

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Attanasio ha approvato l’8 gennaio 2021 l’assegnazione della commessa, per un valore di 205.000 euro, all’azienda uscita vincitrice dalla gara d’appalto, che è risultata essere la Gruppo Effe Srl con sede a Barlassina, in provincia di Monza e Brianza. Tuttavia l’effettiva consegna del veicolo sembrerebbe essere stata fatalmente ritardata dal termine di 35 giorni che doveva decorrere a partire da quella data, dunque fino al 13 febbraio, termine previsto in base alla direttiva europea 66 del 2007, a tutela degli altri partecipanti al bando, qualora avessero voluto presentare reclami.

 

Zero garanzie

Al di là di questi dettagli, che pure incidono sicuramente sulla tempistica complessiva degli avvenimenti, fatto sta che Attanasio e Iacovacci si sono trovati a dover percorrere quella strada senza un mezzo adeguato di cui erano destinati a beneficiare. Perchè allora l’ambasciatore e i suoi accompagnatori si sono messi il 22 gennaio a percorrere senza scorta apprezzabile e senza mezzi blindati, la famigerata strada?

A quanto si sa finora, sembra che le autorità locali del Kivu avessero assicurato che la strada RN2 era da considerarsi al momento relativamente sicura per il semplice fatto che negli ultimi tempi l’attività criminale, principalmente a livello di sequestri di persona sembrava un po’ diminuita. Per il contingente delle Nazioni Unite MONUSCO, quella strada era classificata “gialla”, cioè “mediamente pericolosa” e da percorrersi “con almeno due mezzi”.

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Secondo un rapporto intelligence dell’ONU, citato dal collega Fausto Biloslavo su Il Giornale, “nessuna richiesta di scorta” sarebbe arrivata dal gruppo di Attanasio, ma ci sarebbe stata in fieri una “autorizzazione di sicurezza per percorrere la strada” che “non è stata processata”. A questo punto è lecito domandarsi se, date le precauzioni imprescindibili in paesi così rischiosi, non sarebbe spettato comunque all’intelligence italiana fare qualcosa di più per garantire la sicurezza o quantomeno dissuadere l’ambasciatore dal recarsi nella zona.

Non si tratta certo di attribuire la responsabilità dell’accaduto all’AISE, la nostra Agenzia Informazioni e Sicurezza Esterna, che ha sempre dimostrato professionalità e abnegazione indiscutibili specialmente nelle varie crisi legate ad ostaggi italiani. Fonti anonime citate da Biloslavo sembrano puntare il dito in questa direzione, asserendo che la competenza per il Congo in fatto di intelligence estera spetterebbe a un ufficiale italiano che ha sede però in Angola, a centinaia di chilometri di distanza.

Ufficiale che, comprensibilmente, anche con tutta la buona volontà, ha energie e tempo limitati per poter adeguatamente occuparsi dei molteplici rischi di un così vasto scacchiere. Inoltre, ancora una fonte anonima riconducibile all’Arma dei Carabinieri ha evocato una sorta di graduale “smobilitazione” di cui sarebbe stato oggetto l’apparato di sicurezza dell’ambasciata italiana di Kinshasa: “Dal 2014 ci sono solo due operatori di scorta, prima eravamo in quattro e prima ancora il reggimento Tuscania aveva otto uomini”.

Una parola definitiva su questi fatti drammatici potrà venire solo dalla conclusione di un’inchiesta che si preannuncia solo agli inizi. Di primo acchito, perchè simili sciagure non abbiano a ripetersi, appare opportuno che il personale diplomatico italiano attivo in paesi ad alto rischio utilizzi al massimo grado, e senza risparmio, tutto il personale e gli apparati di sicurezza di cui dispone, anche in casi e situazioni che le autorità locali non dovessero giudicare particolarmente pericolose.

Pensare sempre al “caso peggiore” e premunirsi di conseguenza è la migliore ricetta in ambiti in cui, come in Congo, non si può essere del tutto sicuri che tutte le forze regolari siano immuni da corruzione ed eventuale complicità con forze irregolari sul territorio, tenuto conto anche dell’estrema povertà generale del paese che certamente incentiva in molti individui la tentazione di “arrotondare” con mezzi illeciti.

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Un attacco a sorpresa, sia esso terroristico, guerrigliero o banditesco, si può verificare anche in contesti giudicati ufficialmente “sicuri”, perfino nel cuore di Parigi o Londra, come si è visto più volte. A maggior ragione, in una nazione in ininterrotto subbuglio da ormai 60 anni prestar fede a valutazioni burocratiche di “maggior” o “minor pericolosità” assegnate su base statistica a una città o a una strada, dovrebbe aver ben poco peso, da una prospettiva più realistica. Sia la guerriglia, sia il banditismo, forti, per loro intrinseca natura, di alta mobilità ed esperienza nel nascondersi, per giunta in ambienti selvatici, possono a loro piacimento decidere di cessare azioni in un settore per riprenderle improvvisamente in un altro da dove mancavano da tempo.

Del resto, la storia registra un precedente ambasciatore straniero ucciso nel Congo, allora chiamato Zaire, ma non su una strada fangosa ai margini della foresta, bensì nel cuore di Kinshasa, mentre era all’interno della sua stessa ambasciata. Si trattava del rappresentante francese Philippe Bernard, morto il 28 gennaio 1993 mentre, stando alla versione ufficiale, stava assistendo dalla finestra dell’ambasciata a combattimenti di strada in corso fra i militari ribelli e quelli fedeli al longevo dittatore Mobutu Sese Seko. Bernard fu colpito, si disse, da “pallottole vaganti”, ma al di là del quesito se fosse stato, oppure no, oggetto di un azione deliberata, ciò che più importa in questa sede è rilevare come anche la stessa capitale congolese possa essere ancora oggi pericolosa.

 

Il Congo Belga

La tragedia del Congo e degli stati vicini ha radici antiche e il fatto che ancora oggi si verifichino massacri indica che le tensioni etniche, acuite dalla competizione per lo sfruttamento delle risorse naturali, il più delle volte a beneficio poi di clienti esteri, i soli ad avere la tecnologia per sfruttare certi minerali indica che dopo decenni non c’è ancora nulla di risolto.

Per una di quelle ironie (amare) di cui è ricca la storia, una nazione oggi praticamente ignorata, salvo per delitti che tocchino occidentali, dal mondo aveva invece smosso, oltre un secolo fa, l’attenzione di tutte le grandi potenze. Fu infatti sotto lo sprone della penetrazione coloniale belga in Congo, attuata fin dal 1876 tramite la maschera della Associazione Internazionale Africana voluta dal re del Belgio Leopoldo II che nacque una disputa con altre potenze, fra cui Gran Bretagna, Portogallo e Francia, che portò infine il “cancelliere di ferro” Otto von Bismarck a convocare nel 1884 la conferenza di Berlino, che diede il via alla vera e propria spartizione dell’Africa.

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Le potenze europee, che fino ad allora avevano controllato solo pochi capisaldi lungo le coste del Continente Nero, si decisero così ad annettersi larghissime fette dell’entroterra, finchè nel 1914, allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, in tutta l’Africa solo l’Etiopia e la Liberia erano rimasti stati indipendenti. Quanto al Congo, dal 1884 al 1908 era stato battezzato “Stato Libero del Congo” ma era in pratica un dominio personale del re Leopoldo II, annesso ufficialmente allo Stato, con la nuova denominazione di Congo Belga, il 15 novembre 1908. Già a quei tempi, nel paese come nel resto dell’Africa, si instaurò quel sistema di rapina delle risorse locali che ancora oggi penalizza il continente.

Il Congo era uno scrigno ripieno di oro, diamanti, legname, stagno, gomma vegetale, per non parlare di minerali rari come il coltan, contrazione di columbite-tantalite, la cui utilità sarebbe emersa più tardi, con il sorgere dell’era elettronica. E’ noto come già i belgi avessero introdotto un sistema crudele per spingere larghe fasce della popolazione a lavorare nelle piantagioni o nelle miniere, affidando l’esazione a sgherri locali, ma comandati da ufficiali belgi, che comminavano punizioni disumane come il taglio delle mani.

Il tutto all’insegna del “divide et impera” di romana memoria, dato che, allora come oggi, in quell’immenso territorio sono state comprese oltre 200 etnie, nessuna delle quali realmente maggioritaria.

Oggi, ad esempio, sul totale di 100 milioni di abitanti stimato, il 47 % appartiene alle tre etnie maggiori, Luba (18%), Mongo (17%) e Kongo (12%), senza contare numerose altre popolazioni, per le quali gli unici collanti sono la lingua francese e un apparato statale da decenni abbastanza evanescente. Dopo che il 30 giugno 1960 il paese ottenne l’indipendenza dal Belgio emerse la contrapposizione fra il presidente della repubblica, il filoamericano Joseph Kasavubu e il primo ministro, il filosovietico Patrice Lumumba. Come se non bastasse, negli stessi giorni i ribelli di Moise Ciombè, sostenuti dai belgi attuarono la secessione della ricca provincia diamantifera del Katanga.

 

Kindu: militari italiani uccisi in Congo

La guerra civile che ne seguì fu costellata di vari e barbari episodi che qui possiamo solo citare per motivi di spazio, come la ribellione dei ferocissimi Simba, il dispiegamento di una delle prime grandi forze di caschi blu dell’ONU e l’accorrere da tutta Europa di centinaia di mercenari, talvolta veterani della Seconda Guerra Mondiale, nelle file dello stato secessionista del Katanga. In tale ambito, un episodio merita certamente di essere narrato per sommi capi, ovvero il massacro di 13 aviatori italiani dell’Aeronautica Militare, che in ambito ONU stavano operando per rifornire una guarnigione di caschi blu malesi di stanza a Kindu.

Erano gli equipaggi di due bimotori da trasporto Fairchild C-119 Boxcar, il classico “vagone volante”, che decollarono da Leopoldville l’11 novembre 1961, uomini della 46° Aerobrigata che ancora oggi li ricorda giustamente come martiri. Erano diretto a Kindu con un carico di medicinali, ma fecero una sosta intermedia a Kamina, per caricare a bordo “altro materiale”, forse munizioni, destinate ai caschi blu malesi a Kindu. Atterrati, andarono a rifocillarsi presso la mensa ONU dei malesi, ma la tragedia era in agguato.

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L’arrivo dei C-119 allarmò le milizie congolesi lumumbiste presenti nella zona, che scambiarono gli italiani per mercenari belgi e li sopraffecero rapidamente, anche perchè i 13 aviatori, guidati dal maggiore Amedeo Parmeggiani, avevano incautamente lasciato a bordo dei velivoli le loro armi d’ordinanza ed erano pertanto inermi.

I caschi blu malesi non poterono fare nulla. Gli italiani vennero così catturati e massacrati senza pietà. Forse (ma non fu mai chiarito) alcuni di loro furono, almeno parzialmente, vittime di cannibalismo, secondo ricostruzioni di prima mano dell’epoca, le quali tuttavia non andrebbero sottovalutate a priori. Kindu è rimasta quindi impressa nel sangue come una pagina tragica del rapporto fra il nostro paese e il Congo.

 

Da Mobutu a Kabila

Comunque, dal 1965 fu un ambizioso ufficiale dell’esercito, Mobutu Sese Seko (nella foto sOtto), a imporre dalla capitale una dittatura corrotta destinata a durare oltre un trentennio. Contro di lui, fin da allora, sorse nell’Est del paese un movimento ribelle guidato dal marxista Laurent Desirè Kabila, che inizialmente si fece aiutare anche da Ernesto “Che” Guevara, a capo di una pattuglia di consiglieri militari cubani.

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Kabila, la cui organizzazione era molto carente, non ebbe però che la forza di mantenere per anni un suo piccolo potentato personale nel Kivu Sud. Mobutu non ebbe quindi seri contrasti al suo arricchirsi facendo affari con i governi occidentali che lo appoggiavano, su tutti USA, Francia e Belgio, svendendo in pratica le risorse del paese e tenendo per sé e per la sua cerchia milioni di dollari di royalties. E fece tutto dietro l’apparenza del capo di stato “indigenista” che, di facciata mostrava di volersi slegare dal passato coloniale propugnando una rivincita culturale africana.

Per esempio, ribattezzando nel 1966 la capitale Kinshasa, ed eliminando del tutto il riferimento residuo a re Leopoldo, oppure adottando nel 1971 il nome Zaire per l’intero paese. Su questa falsariga, e per distrarre la popolazione con una logica da “panem et circenses”, organizzò perfino, nel 1974 un celebre incontro di pugilato a livello internazionale, ospitando a Kinshasa una sfida storica fra i campioni afroamericani Mohammed Ali (ex-Cassius Clay convertito all’Islam) e George Foreman, per la cronaca con la vittoria del primo. La situazione dello Zaire/Congo era destinata a sbloccarsi soltanto negli anni Novanta, quando l’onda lunga dei sommovimenti etnici iniziati oltre la frontiera orientale finì col travolgere Mobutu.

 

Da un genocidio all’altro

Negli stati confinanti con l’Est dello Zaire crescevano le tensioni fra le etnie rivali Hutu e Tutsi, sfociando in stagioni di guerriglia soprattutto in Ruanda. Dopo vicissitudini estremamente complesse, il 6 aprile 1994 un aereo privato Dassault Falcon 50 con a bordo i presidenti di Ruanda e Burundi, Juvénal Habyarimana e Cyprien Ntaryamira, venne abbattuto con missile antiaereo mentre stava per atterrare all’aeroporto di Kigali, capitale del Ruanda.

Poichè i presidenti erano entrambi Hutu, l’evento venne preso a pretesto da milizie estremiste Hutu per scatenare nei giorni e mesi successivi uno spaventoso massacro ai danni dei Tutsi ruandesi, additati come responsabili del complotto.

Ci furono circa un milione di morti, per la maggior parte massacrati a mezzo di machete, economici e non meno mortali delle pallottole, soprattutto adatti a trucidare vilmente civili inermi e disarmati. Machete che, per la maggior parte erano stati importati dalla Cina, il che confermerebbe la premeditazione del genocidio e la paternità degli Hutu estremisti nell’attentato all’aereo dei presidenti.

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Durante il genocidio, sottobanco, la Francia appoggiò gli Hutu, mentre i Tutsi, più vicini agli americani, passarono alla riscossa con loro più organizzato fronte guerrigliero RPF, che prese il controllo del Ruanda entro l’estate. L’effetto della rivincita Tutsi fu la fuga oltre il confine congolese di migliaia di estremisti Hutu che avevano perso il conflitto, oltre a un paio di milioni di profughi della stessa etnia.

Questi squilibri causarono entro un paio d’anni un’alleanza fra Mobutu e gli Hutu esuli da lui accolti, una lega appoggiata dai paesi che flirtavano col dittatore di Kinshasa, come Francia e anche la Cina che iniziava sempre più a insinuarsi in Africa. Dall’altro lato, si creò un fronte unito fra l’organizzazione ribelle AFDL di Kabila, che ancora esisteva nel Kivu Sud, i Tutsi locali Banyamulenge, minoranza residente entro i confini dello Zaire, e contingenti prevalentemente Tutsi degli stati di Ruanda, Burundi e Uganda, presto rafforzati dall’intervento dell’Angola e dal sostegno degli Stati Uniti. Ne scaturì nel 1996 la cosiddetta Prima Guerra del Congo, che portò nell’arco di un anno al disfacimento del regime di Mobutu.

Kabila, grazie ai suoi alleati stranieri, potè così prendere Kinshasa il 16 maggio 1997, mentre Mobutu era già fuggito in Marocco, dove morì poco dopo. Si calcola che siano rimasti uccisi almeno 200.000 civili, vittime delle violenze etniche e dei saccheggi che sempre accompagnano queste guerre africane. Subito Kabila cancellò il nome Zaire e ridiede al paese il suo vecchio nome. Un anno dopo scoppiò una ben più lunga e drammatica Seconda Guerra del Congo, scatenata, in buona sostanza, dalla richiesta di Kabila agli eserciti alleati di lasciare il paese.

Proprio da Goma, ultima città vista dall’ambasciatore Attanasio prima di morire, scoppiò la scintilla del nuovo conflitto, quando il 2 agosto 1998 il Ruanda fomentò per vendetta la rivolta dei Tutsi Banyamulenge contro il governo di Kinshasa. A seguito del rovesciamento di alleanza, l’esercito congolese di Kabila dovette affrontare le forze di Ruanda, Burundi e Uganda che pochi anni prima lo avevano aiutato a scacciare Mobutu, in più accettando l’alleanza di svariate milizie, prevalentemente Hutu, che avevano ciascuna i propri motivi di ostilità verso gli stati orientali.

Molte di queste milizie esistono ancora oggi, come il pittoresco e feroce Esercito di Resistenza del Signore, in inglese LRA (Lord’s Resistance Army), di etnia ugandese Acholi, guidato da Joseph Kony e impostato su una visione sincretistica ed estremistica di un cristianesimo deformato dall’animismo africano, incline a massacri, stupri e arruolamenti forzati di bambini soldato.

Inoltre, l’esercito congolese era appoggiato anche da contingenti inviati da “potenze” regionali esterne, ovvero Namibia, Zimbabwe, Angola e Ciad. Mentre il conflitto proseguiva fra alterne vicende, già l’ONU individuava nella competizione per le risorse minerali, specie il coltan che proprio una ventina d’anni fa a cavallo del 2000, stava diventando strategico a causa del boom mondiale dei computer e della telefonia mobile.

Non a caso il prezzo del coltan che fino al 1998 era di 2 dollari al chilo, schizzò fino ai 600 dollari entro il 2004, per poi arrivare a stabilizzarsi sui livelli odierni di 150 dollari al chilo.

Il 12 aprile 2001 un rapporto delle Nazioni Unite intitolato “Illegal Exploitation of Natural Resources and Other Forms of Wealth of the Democratic Republic of Congo” già accusava i militari ruandesi in Congo di organizzare l’estrazione abusiva di stagno e coltan poi contrabbandato in Ruanda e da lì venduto a compagnie di diversi paesi fra cui Belgio, Germania, Gran Bretagna, India e Malesia.

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Allo stesso modo, lo Zimbabwe aveva ottenuto concessioni di favore per l’estrazione da parte dei congolesi, il tutto condito da un giro di tangenti fra i comandanti militari, ognuno dei quali “capobastone” di una propria zona. Pochi mesi prima di questo rapporto, il 16 gennaio 2001, a Kinshasa una guardia del corpo sparava a Kabila riducendolo in fin di vita. Ancora oggi si confrontano due versioni, l’una che vuole Kabila morto nel suo ufficio, l’altra che lo vuole ricoverato d’urgenza in una struttura specialistica proprio in Zimbabwe, morendo però dopo due giorni.

La cosa sicura è che il 26 gennaio gli subentrava alla presidenza del Congo il figlio trentenne Joseph Kabila, destinato a rimanere in carica fino al 2019. Il conflitto, presto denominato la “Prima Guerra Mondiale Africana”, per la vastità dei combattimenti e il coinvolgimento di così tante nazioni e milizie guerrigliere, terminò il 18 luglio 2003 con una serie di accordi fra le parti, in realtà abbastanza fittizi poiché la conflittualità è rimasta alta nella regione.

Si calcola che siano morte circa 5 milioni di persone, in massima parte civili, per la classica concatenazione fra vendette e controvendette etniche, sgombero forzato dei villaggi a vantaggio degli scavi minerari, intimidazione delle popolazioni per farle fuggire e/o loro riduzione in schiavitù, con paghe da fame, per estrarre i minerali con la minor spesa possibile e il maggior margine di guadagno degli aguzzini.

 

Guerra in Kivu

La “pace” del 2003 si è dimostrata solo un eufemismo. Dal 2004, a più riprese la regione congolese del Kivu è sempre stata preda dei gruppi guerriglieri. Non riesce a evitarlo il contingente di caschi blu ONU schierato nella regione, che in genere può assicurare una protezione solo a ridosso dei centri abitati maggiori. Inizialmente la forza internazionale fu schierata nel 2000, in piena “guerra mondiale africana”, come MONUC (dal francese Mission de l’Organisation des Nations Unies en République démocratique du Congo), poi dal 1° luglio 2010 è stata ridenominata MONUSCO (Mission de l’Organisation des Nations Unies pour la stabilisation en République démocratique du Congo).

La sua consistenza è gradualmente aumentata dalle iniziali poche centinaia di osservatori a circa 10.000 uomini attorno al 2003, per crescere ancora fino ai circa 17.467 effettivi, fra soldati, polizia e funzionari civili, secondo dati aggiornati a dicembre 2020, sebbene l’opzione teorica autorizzata possa prevedere un massimo di 18.316.

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Fra essi le nazionalità più rappresentate sono Pakistan, India, Bangladesh, Indonesia, Sudafrica e Marocco, per quanto riguarda il personale militare, mentre sul lato degli agenti di polizia vanno per la maggiore Senegal ed Egitto, che sopravanzano Bangladesh e India. Degno di nota è il fatto che per un certo periodo, all’incirca fra il 2005 e il 2011, il contingente indiano abbia impiegato un piccolo nucleo di 4 elicotteri da combattimento Mil Mi-35 di fabbricazione russa, la cui potenza di fuoco in più di un’occasione si è rivelata un ottimo deterrente contro le bande ostili.

Il tributo di sangue della missione ONU è stato talvolta pesante, per citare solo alcuni esempi: nel febbraio 2005 un gruppo di 9 caschi blu bengalesi fu ucciso dalla milizia UCP a Ituri, al che il contingente internazionale ha reagito uccidendo almeno una cinquantina di ribelli.

Nel gennaio 2006 i soldati ONU si scontrarono pesantemente con l’Esercito del Signore. Ma ci sono state anche pagine poco chiare, specie nel 2008, quando fu aperta un’indagine su abusi verso civili attuati dal personale indiano, seguita da aperte proteste popolari da parte degli abitanti di Goma, che accusavano i caschi blu di non far nulla contro le scorribande della milizia RCD.

Nel 2012, poi, il contingente MONUSCO non potè impedire la presa di Goma da parte del movimento M23 (Mouvement du 23 Mars), perchè costretto da regole d’ingaggio che gli consentivano solo di proteggere civili.

L’M23 era nato da una costola di un partito ribelle del Kivu e controllò Goma per un anno, fino al 2013, quando abbandonò la città dopo aspri combattimenti contro l’esercito congolese e, stavolta, anche contro l’ONU, grazie a un compromesso finale.

 

I jihadisti dell’ADF

Negli ultimi anni si è espansa nella zona del Kivu l’attività del movimento islamista ADF, o Allied Democratic Forces, che si originò da un’opposizione estremista al governo dell’Uganda e al suo presidente Yoweri Museveni, ma che sfrutta tuttora il territorio congolese come santuario e fonte di finanziamenti illeciti. Dal 2014 al 2016 l’ADF ha ucciso 700 civili nella sola area di Beni, in corrispondenza del parco nazionale di Virunga.

A coronamento di questa strategia del terrore, la notte fra il 13 e il 14 agosto 2016 un gruppo di questi jihadisti ha assalito col favore del buio la popolazione civile di Beni per “punirla” dopo che appena tre giorni prima essa aveva accolto il presidente Joseph Kabila in visita ufficiale.

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Gli islamisti hanno trucidato con machete e altre armi bianche un minimo di 64 persone accertate, sebbene si stima che le vittime dell’attacco possano essere state fino a 101. In parte lo scopo dei terroristi è stato raggiunto, poiché nei giorni seguenti gli abitanti di Beni hanno protestato nelle piazze contro il governo nazionale, colpevole di non proteggere abbastanza la gente, oltre che di attirare l’ira dei jihadisti con le visite dei politici.

L’ADF ha colpito duramente ancora negli anni seguenti nell’area di Beni, ponendo nel mirino il presidio ONU colà dislocato. Nell’ottobre 2017 ha ucciso in un agguato due caschi blu tanzaniani del MONUSCO e ne ha feriti 12, ma era solo l’avvisaglia di quanto si preparava due mesi dopo.

Nel pomeriggio del 7 dicembre 2017, un grande distaccamento dell’ADF, forse di qualche centinaio di miliziani, si è recato presso una base MONUSCO presso il fiume Semuliki, tenuta ancora da truppe in maggioranza tanzaniane. Poichè i terroristi erano travestiti con uniformi dell’esercito congolese, rubate oppure abilmente ricopiate, le truppe ONU, sulle prime, si sono fidate e li hanno lasciati entrare.

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Le ADF hanno gettato la maschera attaccando il centro di comunicazioni della base per impedire che le forze ONU potessero chiedere rinforzi, ma sembra che un primo messaggio di SOS abbia fatto in tempo a partire. Ne è nata una battaglia durata alcune ore, in cui i terroristi sono anche riusciti con granate a razzo RPG a distruggere due veicoli corazzati da fanteria APC. Alla fine i jihadisti si sono ritirati dopo aver ucciso 15 caschi blu tanzaniani e feriti 53. Risultavano caduti anche 5 soldati regolari congolesi, mentre secondo l’esercito governativo i terroristi uccisi nello scontro sarebbero stati ben 72. L’attacco di Semuliki ha fatto particolare scalpore poiché è stato il più sanguinoso subito da un presidio di truppe ONU dopo la missione in Somalia del 1993.

E se l’indignato segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha parlato di “crimine di guerra”, il Vice-Segretario ONU per il Peacekeeping, Jean-Pierre Lacroix, ha commentato: “Loro (i terroristi, n.d.r.) non ci vogliono qui. E credo che questo attacco sia una risposta alla nostra crescente robusta presenza nella regione”.

Nel 2019 le milizie ADF si sono ufficialmente aggregate all’ISIS, realizzando di fatto un collegamento con i somali di Al Shabab. Nello stesso anno il Congo assumeva l’assetto politico attuale, con l’avvicendamento fra Kabila Junior e l’attuale presidente Felix Tshisekedi. In base alla Costituzione congolese, Joseph Kabila avrebbe dovuto cessare il suo mandato fin dal 2016, ma ha cercato di rimanere al potere ancora un paio d’anni, finchè i partiti d’opposizione e il pressing dei paesi occidentali lo hanno spinto a gettare la spugna. Alle elezioni del 30 dicembre 2018 è così risultato vincitore Tshisekedi, che si è insediato il 25 gennaio 2019.

Il nuovo governo congolese ha avviato il 31 ottobre 2019 una grossa offensiva contro i jihadisti in tutto il Nord Kivu, cercando fra l’altro di catturare il loro capo supremo, Musa Baluku. I soldati congolesi hanno scoperto e attaccato il 13 gennaio 2020 una base ADF a Madina uccidendo 40 terroristi, inclusi 5 comandanti, al prezzo di 30 regolari morti. Gli scontri sono proseguiti un po’ per tutto l’anno successivo.

 

Cobalto e saccheggio

Dal 15 dicembre 2019 è iniziata una storica causa giudiziaria depositata negli Stati Uniti, alla corte distrettuale di Washington, dall’associazione umanitaria International Rights Advocates, che ha raccolto la denuncia di 14 famiglie congolesi contro i grandi nomi dell’alta tecnologia mondiale, fra cui ad esempio Apple, Dell, Microsoft, Tesla, per lo sfruttamento del lavoro minorile dei loro figli, bambini anche di soli 6 anni, talvolta fino ai 15 anni, utilizzati per scavare a mani nude il minerale di cobalto, utilizzato per batterie avanzate e altre parti elettroniche.

Il cobalto viene estratto dai ragazzini pagati, i più fortunati 2 dollari al giorno, ma altri anche meno di un dollaro, anche solo fra 70 e 95 centesimi, esposti a fatiche, rischi di morte nei tunnel e anche di avvelenamento. Il tutto per società, principalmente cinesi, che poi riforniscono a loro volta le grandi aziende mondiali con prezzi di favore.

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Ai colossi del chip, stando all’avvocato che cura gli interessi delle famiglie congolesi, Terrence Collingsworth, viene chiesto un indennizzo perchè sarebbe imputabile “ingiusto arricchimento, supervisione negligente, imposizione intenzionale di stress emotivo”. Ovviamente il ruolo dei big, rispetto a quello delle compagnie estrattive senza scrupoli, sarà tutto da definire da parte dei giudici, ma ciò che conta è che la notizia di questa causa fa capire la portata dello sfruttamento.

Fra le aziende cinesi ci sarebbe, ad esempio, la Zhejiang Huayou Cobalt. Alla luce di tutto ciò è interessante notare che il 22 febbraio 2021, la sera stessa successiva alla tragica morte di Attanasio, Iacovacci e Milambo, il missionario comboniano Padre Giulio Albanese, già fondatore dell’agenzia di stampa missionaria MISNA, abbia ricordato, in un’intervista televisiva su La7: “Nel Kivu ci sono fino a 160 milizie armate. Molti di questi gruppi hanno chiesto al governo di Kinshasa di poter depore le armi e poter essere reintegrati, perlomeno i più giovani, nell’esercito regolare. Il governo ha detto di no e il risultato e che questi sono tornati a fare i miliziani. Ma chi c’è dietro questi gruppi? Ci sono le compagnie straniere.

Fra le ditte straniere, i cinesi hanno una predilezione per il cobalto e hanno creato degli enormi ambienti per lo stoccaggio. Fino ad ora non l’hanno esportato, se lo tengono lì, sotto naftalina”. Il quadro è dunque drammatico oggi, quanto lo era venti o trent’anni fa, nessun progresso è stato compiuto, di fatto, per la stabilizzazione del Congo, specie nella regione del Kivu, dove la vicinanza di confini internazionali crea le condizioni ideali per un santuario di guerriglia. I gruppi armati possono così “vendersi” a una serie di attori, dalle aziende straniere (o congolesi stesse) senza scrupoli, ai governi vicini che traggono profitti “pompando” fuori dal Congo le ricchezze e incentivando l’instabilità proprio in competizione con Kinshasa. Il tutto nella cornice della costante violazione dei diritti umani, che serve a ricreare senza fine il circolo vizioso della povertà, del terrore e della disperazione.

Soldier of the FARDC (Armed Forces of the Democratic Republic of the Congo) sit on a military vehicle in an area of exchanges of fire with members of the ADF (Allied Democratic Forces) in Opira, North Kivu, on January 25, 2018. (Photo by ALAIN WANDIMOYI / AFP)

Anche il Covid ha contribuito a peggiorare la situazione e non solo dal punto di vista umanitario, poiché la chiusura al turismo del parco nazionale di Virunga, famoso per i gorilla, ha creato una “terra di nessuno” in cui le guardie armate del parco, hanno dovuto adattarsi in prima persona a combattere non solo i semplici bracconieri, ma anche i terroristi. Che spesso considerano anche i guardiacaccia loro bersaglio.

Il 24 aprile 2020, appena un mese dopo che il parco era stato chiuso per il Covid, un plotone di 60 miliziani dell’FDLR, il fronte Hutu erede degli sterminatori ruandesi del 1994, ha assalito un convoglio di civili scortato dai ranger e ne ha uccisi almeno 12, confermandosi ancora una fra le milizie più pericolose.

E, a quanto pare, ancora foraggiate dal regime militare del vicino Burundi, guidato da  Évariste Ndayishimiye. Il 10 gennaio 2021, uomini armati non identificati hanno inoltre assalito e ucciso altre 6 guardie di Virunga.

Ma in generale tutto il 2020 e l’inizio del 2021 ha visto susseguirsi nella zona almeno un migliaio di rapimenti per riscatto e 1280 morti civili. Peraltro, Kinshasa non può contare sull’appoggio di paesi confinanti come il Ruanda, che pure è sempre sotto la guida del presidente-padrone di etnia Tutsi Paul Kagame, vice presidente dal 1994 e poi presidente dal 2000 a oggi, il quale accusa i congolesi di non fare abbastanza contro gruppi Hutu come l’FDLR.

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Ma in realtà da più parti si sospetta che Kagame potrebbe approfittare proprio della situazione per fare il “suo” gioco nel Kivu, pare anche con infiltrazioni non confermate di truppe ruandesi, in modo da appropriarsi di una larga fetta delle ricchezze della regione, non ultimo il gas naturale abbondante nel sottosuolo del bacino del Lago Kivu, attraversato proprio dalla frontiera fra i due stati.

Alle mai sopite ruggini etniche, l’aggiungersi della variante jihadista non ha potuto che aggravare una situazione da sempre esplosiva. In particolare, l’ADF si è mostrato sempre più pericoloso in una sequenza serrata di azioni nelle ultime settimane.

Il 31 dicembre 2020 la formazione ha massacrato 25 civili nel villaggio di Twinge, ma il giorno dopo, 1° gennaio 2021, è stata respinta con le armi da un altro villaggio, Loselose, grazie all’intervento dell’esercito congolese e dei caschi blu ONU, con uno scontro in cui sono morti due militari governativi e ben 14 jihadisti. Il 4 gennaio si sono registrati altri scontri presso Twinge, Mwenda e Nzenga, sempre con la morte di 25 civili.

Il 4 febbraio 2021, poi, sono stati miliziani definiti “dell’ISIS” ad affrontare soldati congolesi sul confine con l’Uganda, uccidendone tre e rubando armi e mezzi. Mancavano solo pochi giorni al drammatico destino dell’ambasciatore italiano e dei suoi accompagnatori.

E anche se i fatti del 22 febbraio hanno riportato il Congo sotto i riflettori, temiamo che presto questo colosso dell’Africa tornerà nuovamente nell’oblio, da parte della “grande” stampa, condannato a un destino di inappellabile condanna a terra di brigantaggi e carneficine endemici, utili a mantenere prezzi di estrazione stracciati per le sue ricchezze geologiche, così vitali per il consumo dei più costosi gadget occidentali.

Foto: Difesa.it, Twitter, AFP, MONUSCO, News Africa, Africa Center, Reuters, Aeronautica Militare Italiana e RDC

 

Nato nel 1974 in Brianza, giornalista e saggista di storia aeronautica e militare, è laureato in Scienze Politiche all'Università Statale di Milano e collabora col quotidiano “Libero” e con varie riviste. Per le edizioni Odoya ha scritto nel 2012 “L'aviazione italiana 1940-1945”, primo di vari libri. Sempre per Odoya: “Un secolo di battaglie aeree”, “Storia dei grandi esploratori”, “Le ali di Icaro” e “Dossier Caporetto”. Per Greco e Greco: “Furia celtica”. Nel 2018, ecco per Newton Compton la sua enciclopedica “Storia dei servizi segreti”, su intelligence e spie dall’antichità fino a oggi.

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