L’esercitazione Defender Europe 2021 e le Multi-Domain Operations dell’US Army

Con l’imbarco e la partenza dagli Stati Uniti di personale ed equipaggiamenti della Guardia Nazionale, della Riserva e di unità regolari, avvenuto nelle scorse settimane, e destinati ad approdare in quattro porti europei ha preso ufficialmente inizio la Defender Europe 2021 (DE 21), la più grande esercitazione a guida americana del dopo guerra fredda. I numeri parlano di 27 nazioni interessate (anche non europee) e di un contesto geografico esteso: dai Paesi baltici al Nord Africa, passando per i Balcani, e di 28.000 partecipanti che agiranno sul territorio di sedici alleati e partner sino al mese di giugno.

L’edizione dello scorso anno (DE 20) prevedeva un numero ancora maggiore di partecipanti (circa 34.000 tra americani e Alleati), ma è stata drasticamente ridimensionata a causa degli effetti della pandemia da COVID-19. Nonostante tutto, sono state svolte alcune attività, ma non in misura tale da conseguire gli obiettivi della grand strategy della regia statunitense, individuati nel corso dei quattro anni che avevano preceduto il periodo del suo svolgimento.

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Le caratteristiche di questa esercitazione, senza precedenti per il numero di soldati statunitensi schierati sul territorio europeo, sono già state oggetto di analisi e commenti di vario genere nel corso dello scorso anno. Questi hanno incluso anche la prospettiva di improbabili “invasioni” americane mosse dall’intento di trasferire sul territorio europeo il confronto strategico degli Stati Uniti con la Russia e quindi colpevoli di provocare Mosca a scapito della sicurezza europea.

In realtà il significato dell’evento va colto collocandolo nel contesto più ampio dell’adattamento che le forze armate degli Stati Uniti (soprattutto) e gli alleati della NATO (con più fatica) stanno operando nel campo della pianificazione e condotta delle operazioni militari del futuro in uno scenario dominato da moltissima tecnologia, ma anche da problemi più banali di mobilità militare da assicurare tra i paesi dell’Alleanza per garantire lo schieramento e il sostegno delle truppe.

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È ancora “l’onda lunga” degli eventi accaduti quasi otto anni fa in Crimea e in Ucraina a dettare l’agenda dei programmi di modernizzazione delle forze armate dell’Occidente. Con l’aggravante che al confronto strategico con la Russia (che riguarda sicuramente anche l’Europa) si è aggiunto anche quello con la Cina.

Vale quindi la pena di descrivere il contesto e la natura dell’adattamento per cogliere la portata dell’evento e le relative sfide che sia gli Stati Uniti che la NATO stanno già affrontando e dovranno affrontare nell’immediato futuro. Adattamento che viene affrontato anche sottoponendo a stress test concetti e modalità operative per mezzo delle grandi esercitazioni.

 

La NATO e le esercitazioni ad alta visibilità

La DE 21 non è l’unica esercitazione su larga scala che l’Europa ha ospitato sul proprio territorio. Il punto di partenza è, sempre e inevitabilmente, quello della crisi in Crimea e Donbass del 2013-14 con la successiva decisione, adottata dalla NATO nel corso del Summit del Galles del 2014, di condurre una serie di esercitazioni militari “di alto profilo” e visibilità sui territori dell’Alleanza.

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Lo scopo era quello di riprendere alla mano la capacità di condurre operazioni difensive convenzionali nei confronti di un avversario (aggressore) “alla pari” dopo quasi un ventennio di operazioni di risposta alle crisi basate su requisiti militari assolutamente differenti.

Contestualmente, si sarebbe mostrata la determinazione degli Alleati nell’applicare i dettami dell’Articolo 5 del Trattato di Washington in caso di ulteriori “avventurismi” russi. Tutto questo, rispecchiava infatti i due principali esiti del summit in termini di principi guida per il prossimo futuro: Assicurazione (Assurance) e Adattamento (Adaptation).

Nel novembre dello stesso anno l’evento di esordio fu costituito dalla Trident Lance 2014, esercitazione svolta in nove località differenti del territorio europeo, ma col fulcro in Germania. Poche truppe schierate, ma soprattutto comandi, comandanti e capi dello staff per comprendere ciò che era avvenuto e per definire le modalità operative della risposta.

Tre corpi d’armata multinazionali della NATO Force Structure, coordinati dal comando sovraordinato terrestre a guida USA di Izmir in Turchia (LANDCOM), appositamente attivato due anni prima, e tutti a loro volta sotto il comando unificato del Joint Force Command di Brunssum in Olanda. L’ultimo impegno addestrativo di questo livello che aveva avuto luogo nella stessa area in Europa risaliva al 1990.

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Nel frattempo, la Norvegia si era offerta di ospitare sul proprio territorio, nel 2018, quella che sarebbe stata la più grande esercitazione dell’Alleanza del dopo guerra fredda: la Trident Juncture 2018. Qui, per rimanere nella dimensione puramente numerica, i partecipanti furono circa 53.000 (quasi il doppio della DE), le nazioni coinvolte 31 (29 membri a quel tempo della NATO più la Finlandia e la Svezia). Gli Stati Uniti schierarono 14.000 uomini e donne, la Germania (secondo Paese in termini di contributo) 10.000, il Regno Unito 2.700 e l’Italia circa 1.200 (appartenenti alla Brigata corazzata “Ariete”), per citare qualche esempio.

Lo scenario prevedeva l’impiego delle NATO Response Forces (NRF) e dei relativi rinforzi, impegnati nel ripristino dell’integrità territoriale della Norvegia violata da un aggressore. Le operazioni terrestri si svolsero interamente su suolo norvegese, quelle navali nell’Atlantico del nord e nel Mar Baltico, mentre le operazioni aeree in Svezia e Finlandia.

Lo scopo era quello di verificare l’interoperabilità della compagine alleata in un ambiente operativo complesso con il focus, soprattutto, sulla logistica di proiezione combat della NATO che doveva gestire l’afflusso e lo schieramento in breve tempo nel teatro scandinavo di 10.000 veicoli, 250 aerei e 60 navi, oltre al già citato personale, provenienti dai territori dei paesi che alimentavano le NRF e i rinforzi. Da San Diego in California, 8.000 chilometri ad ovest, così come dalla Turchia, 3.000 chilometri a sud est.

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Per intendersi, interoperabilità logistica nel settore dei trasporti multimodali in un contesto multinazionale, significa imbarcare carri armati tedeschi su una nave olandese, controllati nel porto di destinazione da funzionari norvegesi, riforniti da mezzi logistici belgi, e fatti affluire in zona di operazioni utilizzando vettori stradali e ferroviari olandesi e polacchi, guidati da unità per il coordinamento del traffico militare statunitensi.

Il tutto, in un contesto burocratico di norme e regolamenti (circolazione stradale, movimento di merci pericolose, rispetto ambientale) che variano da paese a paese, e utilizzando infrastrutture (soprattutto strade, autostrade, viadotti, ponti, ferrovie) non sempre adatte al movimento di centinaia di mezzi pesanti e di convogli. L’aspetto della mobilità militare (lo “Schengen militare”) è diventato, come vedremo, un requisito fondamentale da soddisfare per l’esecuzione delle operazioni terrestri in Europa.

In ogni caso, molti aspetti delle operazioni continentali giocati e sperimentati nel corso degli eventi esercitativi ad alta visibilità appena descritti sono stati ispirati e guidati dalla drastica revisione degli scenari strategici di riferimento e la conseguente modernizzazione dello strumento operativo che gli Stati Uniti avevano avviato a seguito della crisi in Ucraina.

Nel momento in cui la NATO lanciava la Trident Juncture 2018 Washington pubblicava, nello stesso anno, sia la nuova Strategia per la Difesa Nazionale che la US Army in Multi-Domain Operations 2028 (MDO), punti di riferimento essenziali per comprendere il contesto nel quale inscrivere la Defender Europe 2021.

 

La Grand Strategy dello US Army

Nella Strategia per la Difesa Nazionale del 2018 il confronto con la Russia e la Cina ha preso il posto della lotta al terrorismo a livello globale introdotta nel documento precedente dieci anni prima. Le MDO si innestano in questo confronto. Si tratta ancora di un concetto e non di una vera e propria dottrina, tutt’ora in corso di definizione, ed illustrato in una oramai celebre pubblicazione dell’Army Training and Doctrine Command (TRADOC): il Pamphlet 525-3-1. curiosamente disponibile anche su Amazon.

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Nello scenario descritto nelle MDO Mosca e Pechino condividono l’obiettivo generale di dar forma a un mondo coerente con il loro modello autoritario acquisendo il potere di veto e di interferenza sui processi decisionali in tema di economia, diplomazia e sicurezza delle altre nazioni e rompendo le alleanze e le partnership degli Stati Uniti.

L’attuazione di tale disegno avviene mediante lo sviluppo di “confronti” (stand-off) attuati mediante l’integrazione di azioni economiche, diplomatiche e forme di conflitto non convenzionali (uso dei social media, fake news, attacchi cyber) associate con la minaccia dell’impiego o l’effettivo impiego di forze armate convenzionali.

La separazione politica che ne deriva realizza un’ambiguità strategica che riduce la rapidità dei processi decisionali e la capacità di reazione della controparte. Si tratta quindi di un insieme di “azioni competitive”, secondo la definizione delle MDO, attraverso le quali conseguire gli obiettivi strategici del confronto con gli USA e i suoi alleati, idealmente senza ricorrere ad un conflitto armato, ma senza però escluderlo.

Gli obiettivi della sicurezza nazionale vengono quindi raggiunti se l’esercito, di concerto con gli altri Services (Marina, Corpo dei Marines, Aeronautica) prevale nelle competizioni in tutti i domini. La dimensione militare entra in gioco quale elemento fondamentale della competizione esercitando la deterrenza e, se questa fallisce, nella capacità di

1) creare le condizioni perché la manovra strategica e tattica delle forze armate statunitensi sia garantita,

2) sfruttare la libertà di manovra acquisita per sconfiggere l’avversario in tutti i domini,

3) consolidare i successi ottenuti per riprendere la competizione con termini più favorevoli per gli Stati Uniti e i propri alleati.

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Per ciò che concerne l’Europa, le MDO prevedono l’effettuazione, da parte dell’aggressore, di operazioni offensive rapide e risolutive nel fianco Nord, Nord-est ed Est della NATO volte ad occupare la maggior parte possibile di territorio (e quindi potere di negoziazione) prima dell’arrivo dei rinforzi americani dagli Stati Uniti, e della mobilitazione generale dell’Alleanza. Si tratta di un fait accompli scenario con limitate forze USA sul campo, e con l’urto iniziale sostenuto dalle unità della forward presence della NATO con limitata capacità di risposta.

Da qui l’importanza di testare le capacità di schierare velocemente nel teatro operativo europeo le forze necessarie per limitare i successi dell’aggressore facendo affidamento essenzialmente su due fattori: 1) la rapida integrazione dei rinforzi affluiti dagli Stati Uniti con stock di mezzi e materiali USA già preposizionati sui territori di alcuni paesi membri della NATO, tra i quali l’Italia, 2) una mobilità militare garantita in tutto il teatro di operazioni.

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In merito a quest’ultimo aspetto, le sinergie con l’Unione Europea rivestono fondamentale importanza. Nel 2016 la NATO e l’UE hanno siglato accordi per affrontare il tema.

Bruxelles, che finanzia annualmente progetti infrastrutturali dei paesi membri di miliardi di euro, si è impegnata ad aggiungere gli standard della NATO nelle specifiche progettuali stanziando 6.5 miliardi di euro da spendere in sette esercizi finanziari, a partire da quest’anno, per far sì che le infrastrutture strategiche europee siano conformi ai requisiti militari. La questione è talmente importante che gli stessi Stati Uniti sono scesi direttamente in campo chiedendo all’Unione Europea di far parte del Military Mobility Project, uno dei 47 progetti di cooperazione di prevista attuazione nell’ambito della Permanent Structured Cooperation (PESCO).

La richiesta, inoltrata anche dalla Norvegia e dal Canada, costituisce un precedente interessante. È la prima volta che paesi non membri UE chiedono di ricoprire un ruolo in programmi riguardanti la sicurezza e la difesa del vecchio continente sviluppati in ambito comunitario.

 

Integrare la NATO nelle Multi-Domain Operations

Il modello della Defender Europe, del costo approssimativo di mezzo miliardo di dollari, prevede lo schieramento di forze del livello complessivo di una divisione (e relativi supporti) e verrà replicato e collaudato per almeno altri tre anni assiema all’edizione “orientale” giocata nel Pacifico con una connotazione forse meno terrestre. L’idea è quella di alternare annualmente una versione heavy e una light nei due teatri.

L’edizione del 2021 è la heavy in Europa. Tra l’altro, gli esiti della DE 21 forniranno elementi di valutazione per la definizione della nuova dottrina d’impiego dello US Army di prevista pubblicazione nell’estate del prossimo anno.

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La NATO si è inserita nello sviluppo della DE in ritardo rispetto ai tempi di pianificazione dell’esercitazione e il brand dell’Alleanza si è unito a quello degli Stati Uniti solo qualche mese prima dell’avvio dell’edizione dello scorso anno. Ciò è dovuto al fatto che le MDO, mobilità militare a parte, sono basate su una piattaforma capacitiva militare complessiva di generazioni successive a quelle della media dei paesi della NATO, sviluppata per fronteggiare i risultati del programma di modernizzazione russo quasi al culmine del programma di sviluppo e ampiamente testato in Siria. In prospettiva, ora, anche di quello cinese.

In questo contesto parlare di interoperabilità con gli alleati è decisamente arduo poiché le modalità di ingaggio dell’avversario descritte nel Pamphlet del TRADOC si basano sul sistema americano, difficilmente interfacciabile con qualunque altro dispositivo militare alleato. La sfida consiste ora nell’integrare la NATO in questo sistema creando una fighting force coerente e armonizzata.

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La questione va ben al di là dell’aspetto del due per cento del prodotto interno lordo da dedicare alle spese della difesa.

È un gap capacitivo anche politico. Non tutti gli alleati, infatti, condividono le premesse poste alla base con Mosca e Pechino considerati da molti (Italia compresa) insostituibili partner commerciali e perdendo (o ignorando) la percezione di quelle ambiguità strategiche richiamate nello scenario delle MDO, provocate a regola d’arte con le quali già ci confrontiamo quotidianamente.

Ispirare e guidare il salto generazionale della NATO, sia sul piano militare che politico, costituisce una priorità e sarà quindi una sfida importante da cogliere. In ogni caso, ce n’è anche per gli Stati Uniti.

Le MDO descrivono l’esercito americano del 2028 anche se alcuni delle capacità di previsto sviluppo potrebbero non raggiungere il livello di maturità richiesto per quella data. Inoltre, sussiste la sfida di elevare un concetto sviluppato in ambito Army al livello Joint e forse anche superiore, tenendo conto che per sostenere la competizione nei diversi domini sarà necessario un approccio whole of government in grado di mobilitare tutte le risorse del national power. Il progetto Convergence avviato nell’estate dello scorso anno sempre nell’ambito dello US Army e che si protrarrà almeno sino al 2022 e oltre, si prefigge lo scopo di attuare questa integrazione.

Ci aspettano quindi tempi difficili, ma decisamente interessanti. Per il momento, cominciamo a vedere cosa succederà durante e dopo la Defender Europe 2021.

Foto NATO e US Army

 

Nato a Vicenza nel 1960, è stato il vice comandante dell'Allied Rapid Reaction Corps (ARRC) di Innsworth (Regno Unito), capo di stato maggiore del NATO Rapid Reaction Corps Italy (NRDC-ITA) di Solbiate Olona (Varese), nonché capo reparto pianificazione e politica militare dell'Allied Joint Force Command Lisbon (JFCLB) a Oeiras (Portogallo). Ha comandato la brigata Pozzuolo del Friuli, l'Italian Joint Force Headquarters in Roma, il Centro Simulazione e Validazione dell'Esercito a Civitavecchia e il Regg. Artiglieria a cavallo a Milano ed è stato capo ufficio addestramento dello Stato Maggiore dell'Esercito e vice capo reparto operazioni del Comando Operativo di Vertice Interforze a Roma. Giornalista pubblicista, è divulgatore di temi concernenti la politica di sicurezza e di difesa.

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