Dopo il G20 lo scenario afghano resta incerto

 

 

Sullo sfondo della sfida USA-Cina, gli esiti del summit promosso dalla Presidenza italiana del G20 presentano luci e ombre. Il percorso per affrontare la crisi è appena iniziato, e ora si apre la strada di una “diplomazia parallela”. Per l’Unione Europea rimane l’esigenza di proporsi negli spazi giusti, non solo con gli aiuti economici, per esprimere una maggiore capacità di leadership internazionale. Intanto in Afghanistan permane una profonda crisi umanitaria ed è necessario prendere sul serio la minaccia del terrorismo.

 

Il G20 sull’Afghanistan: priorità all’azione umanitaria

La metafora delle luci e delle ombre è abusata in molte questioni riguardanti l’attuale contesto delle relazioni internazionali. Non meraviglia quindi che questa trovi ulteriore conferma anche per tracciare un bilancio del G20 sull’Afghanistan svoltosi in tre ore di conferenza virtuale. Vanno colti certamente alcuni profili positivi dell’iniziativa promossa dalla Presidenza italiana, ormai al termine del suo turno alla guida del forum delle 20 più grandi economie del mondo, che si concluderà con il vertice del 30 e 31 di ottobre.

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Aspetti certamente positivi riguardano l’aver portato nuovamente l’attenzione sulla crisi afgana e l’approccio “multilaterale” sul tema, sottolineato dal premier Draghi, affatto scontati in un momento in cui gli scenari della sicurezza globale sono stati scossi dall’ultimo capitolo della sfida tra USA e Cina sul quadrante dell’Indopacifico.

E non a caso sono stati proprio i due leader cinese e russo a non intervenire in prima persona ad un appuntamento tanto atteso, per il quale lo stesso Mario Draghi si era speso in tentativi di coinvolgimento con precedenti colloqui telefonici.

In ogni caso, al G20 sull’Afghanistan promosso dall’Italia è stata posta giustamente la questione umanitaria, e una prima risposta concreta è venuta stavolta dall’Unione Europea per voce della presidente della commissione Ursula von der Leyen che ha annunciato la messa in campo di un miliardo di euro in aiuti alla popolazione afghana e per i paesi limitrofi che stanno affrontando il peso dei primi rifugiati. “Dobbiamo fare tutto il possibile per evitare un grave collasso umanitario e socio-economico in Afghanistan.

Dobbiamo farlo in fretta”, ha sottolineato, ricordando il deterioramento delle condizioni di sopravvivenza per “centinaia di migliaia di afghani a rischio con l’inverno in arrivo”.  Altri 300 milioni verranno dagli Stati Uniti e il Presidente Biden ha concluso il suo intervento confermando un’“impegno collettivo a sostegno della popolazione”. Una nota della Casa Bianca ha precisato la volontà di “promuovere i diritti umani fondamentali per tutti gli afghani, comprese donne, ragazze e membri di gruppi minoritari” e di fornire assistenza umanitaria “direttamente al popolo afghano attraverso organizzazioni internazionali indipendenti”, facendo riferimento evidentemente alle Nazioni Unite, alla Fao e all’Unchr.

 

Le posizioni di Cina e Turchia

Xi Jinping non è intervenuto in prima persona con un ruolo attivo, ma il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha indicato quattro strade da percorrere: “aiuti contro la crisi umanitaria; percorso di sviluppo aperto e inclusivo; tolleranza zero sul terrorismo; consenso e sinergie tra vari meccanismi legati all’Afghanistan”.

Con una precisazione: “Imporre la propria ideologia agli altri, interferire negli affari interni di altri paesi o ricorrere all’intervento militare non porterà che a continui disordini e povertà”.

L’annotazione di Pechino sembra richiamare perciò il “principio della non interferenza” cinese, marcando una certa differenza sulla questione controversa della gestione dei  rapporti con il governo dei talebani, che il G20 non ha voluto affrontare, compiendo al momento una scelta di fondo: per l’assegnazione e la gestione degli aiuti alla popolazione occorrerà affidarsi alle agenzie delle Nazioni Unite e non al governo talebano, sulla cui “riconoscibilità” condizionata il G20 non ha voluto pronunciarsi per ora.

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D’altro canto, la scelta presenta indubbi vantaggi: l’Onu opera da tempo nel teatro afghano e può rappresentare una garanzia nella gestione dei fondi, e al momento sarebbe risultato difficile accettare l’alternativa di finanziare direttamente i talebani, i quali però hanno comunque motivi di recriminare il riconoscimento del loro governo.

La questione è stata posta più nettamente dal presidente turco Erdogan: “La Turchia non può permettersi un nuovo flusso di migranti dall’Afghanistan, ne sarebbero colpiti anche i Paesi europei”, ha esordito, indicando quindi la necessità di “dare ai talebani la direzione affinché costituiscano un governo inclusivo”, e di “tenere aperti i canali di dialogo” con i talebani, perché “non ci si può permettere il lusso di abbandonare un Paese reduce da 40 anni di guerra”.

 

Le criticità sul sistema degli aiuti

Il problema dunque per la comunità internazionale sarà come assicurarsi che le Nazioni Unite possano aiutare un Paese che rischia il collasso strutturale senza coinvolgere il governo che lo guida di fatto, cioè dei talebani che sono stati ritenuti comunque rappresentativi del popolo afghano dagli Stati Uniti quando hanno sottoscritto gli accordi Doha. E non va dimenticato che quegli accordi non sono affatto informali o segreti ma sono stati regolarmente sottoscritti e peraltro ratificati anche da una Risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

Rimangono dunque aperte questioni complicate che riguardano diversi aspetti. Il primo concerne la centralità del sistema degli aiuti data alle Nazioni Unite bypassando, almeno così sembrerebbe, il governo talebano. Qui si corre il rischio, già evidenziato da diversi analisti, di replicare l’errore commesso con il trascorso sistema di aiuti, corrotto e inefficace, realizzato con una diffusa parcellizzazione con vari interlocutori locali, che di fatto ha delegittimato e compromesso l’autorevolezza del precedente governo centrale, i cui rappresentanti avevano ceduto anch’essi alle lusinghe della corruzione.

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Hanno quindi trovato spazio le intese con gruppi affaristici dei vari signori locali, strumentalmente presentatisi referenti delle varie etnie, utilizzate in realtà come pretesto per perseguire i propri interessi affaristici.

Strettamente correlato è poi il problema dell’accesso alle riserve del governo afghano congelate nel Regno Unito e negli Stati Uniti, stimate in oltre 9 miliardi di dollari, che a questo punto bisognerebbe capire come e da chi verranno gestite.

Mentre giustamente il premier Draghi ha anche ricordato il ruolo che dovranno svolgere il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale nei finanziamenti di un Paese che dipende per il 75% dagli aiuti esteri e che ha necessità di far funzionare il sistema bancario.

Questo attualmente è ingessato dalla possibilità data solo a pochi privilegiati di accedere a prelievi settimanali non superiori ai 200 dollari dai propri conti bloccati. Ed è dunque difficile pensare che si possano riavviare i flussi bancari ed economici in generale, specie del piccolo commercio di cui ha bisogno la popolazione, senza avvalersi dell’organizzazione amministrativa, seppure in embrione, del nuovo governo talebano, che nel sentire comune avrebbe comunque il merito di non essere corrotta.

Si tratta peraltro di una situazione da non sottovalutare, perché è su questi strati sociali in perenne difficoltà che si autoalimentano la narrazione del “nemico Occidente” e il consenso alla deriva oscurantista dei talebani, in cui peraltro la sharia diventa anche uno strumento di tutela dell’ordine pubblico rispetto al rischio ineluttabile di una violenza predatoria di massa.

 

I corridoi umanitari e la gestione dei migranti

Problemi analoghi si pongono anche per la gestione dei corridoi umanitari, perché se è vero che lo stesso Draghi ha riconosciuto il ruolo svolto da Turchia e Qatar per assicurare l’efficienza dell’aeroporto di Kabul e ha ricordato che il governo italiano ha “assicurato l’uscita dall’Afghanistan di circa 5.000 persone”, è anche vero che ciò è stato possibile solo con un’intesa con i talebani.

Beninteso il tema dei corrodi umanitari dovrà coordinarsi con quello più ampio del flusso dei rifugiati, che se è ancora contenuto lo si deve essenzialmente per due condizioni. Da una parte c’è il controllo del territorio sulla maggior parte delle 34 province afghane ad opera delle milizie talebane, dall’altra parte c’è l’accettazione degli esuli da parte dei paesi limitrofi, perché storicamente legati alle comuni minoranze etniche afghane, come nel caso di Iran, Pakistan e Turchia, o incoraggiati dalle promesse dagli aiuti finanziari ricevuti dall’UE, in particolare per le repubbliche asiatiche ex- sovietiche.

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Il problema si porrà se la crisi umanitaria dovesse aggravarsi, come lo stesso Segretario Generale delle Nazioni Unite Guterres ha denunciato, e dai paesi di prima accoglienza, specie se la pressione migratoria diventasse eccessiva, il flusso comincerà a premere su un’Europa già fortemente in crisi per la “politica dei muri” e dei “respingimenti ad oltranza” dei paesi sovranisti e cosiddetti “frugali”. Non a caso il presidente turco Erdogan, che finora si è proposto come guardiano dei confini europei, traendone indubbi vantaggi economici e strategici, ha ora tenuto a sottolineare che “la migrazione è un problema globale” proponendo che per il prossimo G20 a guida indonesiana sia costituito un gruppo di lavoro sulla migrazione presieduto dalla Turchia.

 

Le questioni del terrorismo e del narcotraffico

C’è poi il tema della lotta al terrorismo e al narcotraffico che necessita di un’azione diretta di chi esercita in atto il controllo del territorio, o dà comunque maggiori garanzie di esercitarlo concretamente, e cioè il governo dei talebani. Sul punto vale la pena analizzare in che termini si è evoluto il loro rapporto con il terrorismo, specie alla luce degli ultimi attentati dell’Isis del Khorasan. Ha infatti colto un po’ di sorpresa un’affermazione fatta nel corso della conferenza conclusiva del G20 dallo stesso Draghi, che così si è espresso: “Non sappiano quali rapporti esistano tra il governo talebano e l’Isis-K, per il momento sembra non siano buoni. In futuro dovremo capire meglio cosa sta accadendo”.

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È molto probabile che il premier facesse riferimento ai dossier sulla corrente minoritaria che è quella che più preoccupa gli analisti perché potrebbe assumere l’egemonia qualora prendesse piede una scelta definitiva di isolamento, o anche di nuove sanzioni per la questione dei diritti umani compromessi, da parte della comunità internazionale nei confronti del governo talebano.

Si tratta della componente più radicalizzata dei talebani, l’ala estremista e militarizzata rappresentata dal Ministro dell’interno Serajuddin Haqqani, leader dell’omonima rete ritenuta più vicina ad al-Qaeda e all’ideologia jihadista, addirittura fino a temerne una possibile evoluzione filo-Isis.

Ma va evidenziato che dall’ attentato dell’Isis del Khorasan all’aeroporto di Kabul, cui si sono succeduti quelli altrettanto micidiali di questi giorni, appare ormai netta la profonda frattura che divide i talebani e lo Stato Islamico. Quest’ultimo ora si vede minacciato dalla supremazia dei talebani sulla umma islamica sunnita, e in particolare in questa chiave di lettura va letto l’ultimo attentato alla moschea sciita di Kandahar.

I talebani, dopo gli accordi di Doha e assumendo responsabilità di governo, devono ora proteggere anche gli sciiti e l’Isis ne approfitta per accusarli di apostasia agli occhi della comunità sunnita.

Al-Naba, organo ufficiale dello Stato Islamico, ha addirittura accusato i talebani di essere “agenti degli Stati Uniti”, una sorta di quinta colonna del nemico occidente, e che in realtà gli studenti barbuti hanno concordato con gli americani la conquista del paese. Un argomento forte di questa tesi è rappresentato dalla circostanza che uno dei principali capi politici dei talebani, il mullah Baradar, attuale vice primo ministro del governo afghano, dopo aver trascorso otto anni di prigione in Pakistan era stato liberato su diretta richiesta degli Stati Uniti affinché conducesse la trattativa di Doha.

Ci sono poi profonde differenze ideologiche tra i due movimenti: Stato islamico e al-Qaeda hanno in comune la matrice salafita e wahabita, più integralista, mentre i taliban si rifanno a quella hanafita – che ammette il ricorso al qiyās e all’istihsan, il ragionamento deduttivo e il confronto di diverse opinioni – fortemente contaminata dalla cultura pashtun e da quella scolastica dei deobandi, i musulmani che in India si opposero al colonialismo inglese.

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Una netta distinzione vi è anche nelle nozioni di Califfato dell’Isis, che prefigura una estensione ultranazionale, e di Emirato dei talebani, che definisce una istanza nazionalista più specifica.

La contrapposizione tra talebani e miliziani dell’Isis è poi emersa in maniera netta il 15 agosto durante la presa di Kabul quando gli studenti coranici, presa d’assalto la prigione di Pul-i-Charki, hanno liberato 5mila reclusi giustiziandone solo uno, Abu Omar Khorasari, uno dei capi dell’IS afghano catturato un anno fa dalla polizia del governo Ghani. Non v’è dubbio dunque che gli attacchi dell’Isis-K nell’area dell’aeroporto di Kabul sono stati rivolti simbolicamente contro l’intesa raggiunta tra Stati Uniti e talebani.

Quanto ai rapporti dei talebani con al-Qaeda, che risalgono ai tempi del sostegno concesso a Bin Laden, Gilles Kepel e Olivier Roy hanno interpretato questo legame non già come piena adesione al jihad ad oltranza contro l’occidente, ma come fine “interno” per sfruttarne la minaccia al fine di ottenere il governo dell’Afghanistan allontanando gli “invasori” occidentali.

Al-Qaeda e l’IS del Khorasan rappresentano comunque una minaccia concreta, anche perché, a parte il network internazionale che li sostiene, sono presenti nei paesi limitrofi ed in alcune sacche ancora non pienamente sotto controllo dei talebani.

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Pertanto certamente deve essere ben chiaro alla comunità internazionale che un eventuale isolamento dei talebani, in sostanza una chiusura di fronte ad una qualche forma di loro riconoscimento, ovvero una scelta volta a sostenere i movimenti di resistenza anti-talebani o a riproporre una presenza militare straniera, potrebbero indurre gli studenti barbuti a rinnovare l’alleanza, specie con al-Qaeda, e quindi a sostenere direttamente il jihad globale.

Di contro, può essere d’esempio quanto già accaduto con la Cina: questa ha di fatto già allacciato da tempo intese non solo economiche con i talebani, i quali in cambio hanno accettato di non sostenere le frangi terroriste e separatiste degli uiguri musulmani che sui comuni confini rappresentano una minaccia per la grande potenza asiatica. Sulla questione del narcotraffico analisti istituzionali e inchieste giornalistiche riferiscono di una attuale fase di stallo dei traffici locali per una linea di contenimento posta dai governatorati locali talebani che non hanno ceduto alla corruzione di trafficanti.

Ma è altrettanto plausibile che narcotraffico e contrabbando possano riprendere se i talebani non riceveranno altre forme di finanziamento ufficiali dalla comunità internazionale, come le già accennate riserve governative afghane attualmente congelate nei depositi anglo-americani.

 

Governo inclusivo e sistema dei diritti

Controverse rimangono anche le questioni di un governo “inclusivo” e del sistema dei diritti, specie con riferimento alle limitazioni sulla condizione femminile e all’abuso della sharia con esecuzioni capitali e pene corporali nei confronti di oppositori e delinquenti comuni.

Sull’inclusività dell’assetto governativo i talebani hanno dichiarato anche una certa apertura, seppure limitata, ma sul punto va detto che per diversi osservatori la componente delle comunità etniche risulterebbe piuttosto enfatizzata dagli Stati limitrofi, che vogliono tutelare alcune comuni etnie comunque minoritarie, e dagli interessi affaristici di signori locali. Nei fatti, la netta prevalenza della componente pashtun giustificherebbe una sua maggiore rappresentatività che attualmente si è espressa nel consenso popolare di impronta nazionalista che ha portato proprio i talebani prima ad assumere il controllo informale del Paese, e ora, dopo gli accordi di Doha, anche quello formale.

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Sul sistema dei diritti va riconosciuto che quello del regime talebano non è molto dissimile da quello praticato in diversi paesi islamici, e che specie l’inasprimento della sharia è ora dettata da esigenze di ordine pubblico interno. In definitiva, vi sarebbero le condizioni per considerare che il governo talebano, una volta che avrà visto superare l’attuale fase di emergenza e di isolamento internazionale, possa aprirsi alle istanze della comunità internazionale anche sul sistema dei diritti. “La società afghana è cambiata”, ha indicato Chrales Kupchan, docente di relazioni internazionali e consigliere dei presidenti Clinton e Obama, ed ha aggiunto “credo che anche i talebani dovranno adeguarsi: diamo loro una possibilità” (Corriere della sera, 13/10/2021).

 

Al via la “diplomazia parallela”

Il ruolo del G20 sull’Afghanistan promosso dalla presidenza italiana segna dunque ancora un passo appena iniziale, salvo che non intervengano altre novità per il vertice finale del 30 e del 31 di ottobre in cui si pensa che dovranno ritrovarsi i Capi di Stato e di Governo, e quindi anche Putin e Xi Jinping.

Dati gli attuali scenari, e considerata anche la difficoltà pratica di pensare ad altri tavoli di lavoro multilaterali del G20 su temi così complessi,  è però molto più probabile che si apra la strada di una “diplomazia parallela”, promossa in particolare in un quadro di “intese regionali” dal Pakistan e proprio in questi giorni dal Qatar, che ha già concretizzato una serie di incontri tra i rappresentanti talebani ancora una volta a Doha con delegazioni statunitensi, tedesche e della stessa UE.

epa09521810 Russian President Vladimir Putin attends a plenary session during the REW 2021 Russian Energy Week international forum at the Manege Central Exhibition Hall in Moscow, Russia, 13 October 2021. The forum takes place from 13 to 14 October. EPA/MIKHAIL METZEL / SPUTNIK / KREMLIN / POOL / POOL MANDATORY CREDIT

Sull’esito degli incontri già svolti, la delegazione tedesca, composta dal rappresentante speciale per l’Afghanistan ed il Pakistan, Jasper Wieck, e dall’ambasciatore in Afghanistan, Markus Potzel, ha definito “una realtà” il nuovo governo talebano, confermando la volontà della Germania di continuare le sue relazioni con l’Afghanistan.

E la delegazione talebana, guidata dal maulawi Amir Khan Muttaqi, il ministro degli Esteri dei Talebani, esperto diplomatico già del primo Emirato, ha assicurato alle autorità tedesche la disponibilità a proseguire i colloqui e a garantire la sicurezza dei diplomatici stranieri e delle agenzie umanitarie internazionali. Quanto all’incontro con le delegazioni statunitensi ed europee, una nota del Dipartimento di Stato parla di “incontro professionale” su “sicurezza, terrorismo, passaggio sicuro dei cittadini statunitensi, di altri stranieri e dei nostri partner afghani” ed anche “dei diritti umani”.

Altrettanto significativo è stato poi l’ultimo incontro appena svolto a Istanbul sempre del mawlawi Mattaqi con il ministro degli esteri turco Cavusoglu, ove risulterebbero sviluppate intese perché Kabul riceva aiuti dalla Turchia e in cambio contenga il flusso dei rifugiati e, se del caso, sia disposta anche riprendersi quelli che giungessero oltre misura.

Il Guardian ha parlato anche di una iniziativa del governo turco di promuovere una missione diplomatica di Paesi a maggioranza musulmana, orientata pure ad affrontare il tema della condizione femminile, in cui un ruolo efficace potrebbe essere svolto dall’Indonesia, un paese con 300 milioni di abitanti e una donna, Retno Marsudi, alla guida del ministero degli esteri.

 

Conclusioni: nuovi ruoli per il G20 e l’Unione Europea

Ma certamente molto atteso è l’incontro promosso dalla Russia, che ha già annunciato l’invito esteso al governo talebano, per una riunione internazionale sull’Afghanistan prevista a Mosca per il 20 ottobre, per la quale è previsto l’intervento di Cina, Iran e Pakistan, i paesi limitrofi più influenti sulla regione. Secondo alcuni osservatori dunque la piattaforma del G20 è stata utile ma non risolutiva, e non rappresenterà una sede prioritaria per affrontare la crisi afghana.

Le grandi e medie potenze sembrano ora orientate a discutere il tema non più sui tavoli del multilateralismo, ma su quello che gli analisti delle relazioni internazionali definiscono del “plurilateralismo”: si parla tra più paesi sotto la guida di una potenza regionale.

Toccherà dunque al nuovo G20, e soprattutto all’Unione Europea sapersi ricavare gli spazi giusti, non solo con gli aiuti economici, per esprimere una maggiore capacità di leadership internazionale. In ogni caso, siamo ancora a un punto di partenza di fronte ai problemi irrisolti di 38 milioni di afghani, che stanno affrontando una grave crisi umanitaria, di cui saranno inevitabili gli effetti anche sull’Unione Europea, se questa non concorre tempestivamente ai rimedi, che non possono essere quelli della “politica dei muri”, se vuole ancora dare un senso all’ “Europa dei valori” e rappresentare adeguatamente la parte migliore della cultura di un Occidente in grande difficoltà.

 

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Membro della International Law Association, dell'Associazione Italiana Giuristi Europei, dell'Associazione Italiana di Sociologia e della Société Internationale de Droit Militaire et Droit de la Guerre - Bruxelles. Docente a contratto presso l'Università Niccolò Cusano, in Diritto Internazionale Penale/Diritto Internazionale dei Conflitti Armati e Controterrorismo, è autore di varie pubblicazioni, tra cui "L'ISIS e la minaccia del nuovo terrorismo. Tra rappresentazioni, questioni giuridiche e nuovi scenari geopolitici", Aracne, 2015. Collabora con diverse testate italiane ed europee.

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