La fortezza Taiwan

 

 

L’isola di Taiwan, nota anche come Formosa, resta la principale spina nel fianco di Pechino. Una spina forse ancor più pungente negli ultimi anni, considerata la posizione assertiva di una Cina in grande crescita, come potenza regionale e nel futuro anche globale: ruolo e aspirazione fortemente ribadite quando si parla dell’isola-stato di Taiwan che occupa una posizione chiave nello scacchiere dell’Indo-Pacifico, forse oggi il punto “più caldo” nel mondo.

Vediamo un momento da dove nasce il termine Indo-Pacifico. Lo ha spiegato, su Aspenia, con chiarezza Andrey Kortunov direttore generale del Russian International Affairs Counci sostenendo che ”questo temine è entrato nel vocabolario della geopolitica grazie alla biogeografia, che studia i modelli di distribuzione geografica di fauna, flora e microrganismi. I biologi hanno attirato l’attenzione sul fatto che la vasta area oceanica che si estende dal sud del Giappone al nord dell’Australia e dalle Hawaii a est fino al Mar Rosso a ovest presenta molte caratteristiche comuni e costituisce in sostanza un unico ecosistema.

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Circa dieci anni fa gli studiosi di geostrategia hanno mutuato questo termine dai biologi, dandogli un significato diverso. I primi a ‘scoprire’ l’Indo-Pacifico geopolitico sono stati gli indiani e giapponesi, a sostegno del rafforzamento della cooperazione bilaterale tra India e Giappone.” Oggi, dall’insediamento dell’amministrazione Trump e ora con quella di Biden, prosegue Kortunov ”la concezione di Indo-Pacifico ha subito una significativa metamorfosi, trasformandosi in una strategia di ispirazione prevalentemente statunitense.

In sostanza è lo sviluppo dell’Eurasia lungo i suoi confini esterni, incentrato sul rafforzamento della cooperazione tra le potenze marittime della periferia orientale e meridionale del continente eurasiatico (dalla Corea del Sud ai paesi della penisola araba) e gli Stati Insulari del Pacifico (dal Giappone alla Nuova Zelanda). Come si può intuire, l’obiettivo principale di questa nuova visione è il contenimento della Cina in termini politici, militari e strategici, tramite la creazione di un rigido guscio, progettato per impedire a Pechino di conquistare una posizione dominante nella regione.”

Prima fu il turno dell’Urss, ad oggi la strategia del containment si ripresenta, in un contesto totalmente differente, per essere applicata nei confronti della Cina. In questo vastissimo quadro regionale complesso vi è la questione di Taiwan, l’isola-fortezza, con un sistema pienamente democratico, abitata da 23 milioni di persone, è notoriamente la storica spina nel fianco di Pechino, un dossier politico oltre che strategico, per la quale non ha mai cessato di prevederne il ricongiungimento per mezzo di un negoziato tra le parti o minacciando il ricorso alla forza. In particolare dal 2016 le dichiarazioni della dirigenza cinese sono state sempre più assertive, anche a motivo dell’elezione della presidente Tsai Ing-wen, difatti la Tsai è membro del partito Democratic Progressive, partito orientato ad arrivare alla dichiarazione formale di indipendenza.

La posizione della ‘One China’ è stata riaffermata nel corso del 110 anniversario della rivoluzione innescata da Sun-Yat-Sen che abbattè la dinastia imperiale Ming nel 1911. Il presidente della Repubblica Popolare Cinese, Xi Jinping ha ribadito con fermezza che l’unificazione di Taiwan è ‘inevitabile’, auspicando una riunificazione ‘pacifica’.

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Dal canto suo la Tsai Ing-wen ha risposto, nel corso delle celebrazioni della festa nazionale taiwanese, che rafforzerà ancor di più le difese per proteggere la sovranità e la democrazia dell’isola. E il ministro della difesa Chiu Kuo-cheng ha anche dichiarato che una data plausibile per l’azione militare di Pechino potrebbe essere il 2025. Nei mesi ottobre e novembre scorsi, vi sono stati sorvoli della Zona di Identificazione Aerea taiwanese (ADIZ), per un totale di oltre 156 velivoli militari cinesi, sia con voli diurni che notturni, con chiaro intento di fare pressione. Taiwan/Formosa è un hot-spot cruciale, della massima rilevanza, che si è riscaldato ancora di più nelle ultime settimane.

I piani delle forze armate cinesi per una riconquista militare dell’isola vengono aggiornati costantemente, così come le esercitazioni ed è credibile che lo strumento militare cinese, valutate le enormi risorse investite, sia pronto per una invasione anfibia, una operazione notoriamente complessa che prevede un complesso coordinamento interforze.

Oltre l’isola-fortezza è bene ricordare che vi è l’arcipelago filippino, che costituisce un’altra posizione strategica nell’Indo-Pacifico che forma la muraglia di isole che bloccano lo sbocco alla marina militare cinese al bacino del Pacifico Occidentale.

Taiwan e le Filippine sono, a detta dei maggiori analisti, l’ostacolo principale per Pechino nella sua ricerca di proiezione di influenza e potenza in una delle zone geografiche chiave dell’Indo-Pacifico. E non a caso, nel mese di novembre, la Casa Bianca ha ribadito la sua posizione tradizionale di nazione alleata di Manila, posizione rafforzata dal nuovo cambio di linea del vulcanico presidente Duterte che ha virato la barra di nuovo verso Washington.

 

Dongsha/Pratas: le isole più esposte

Taiwan possiede diversi gruppi di atolli e isolette, le Matsu nelle acque a nord-ovest, le Penghu vicinissime alle coste taiwanesi, le Quemoy/Kinmen a poche miglia nautiche dalla costa cinese e le Dongsha/Pratas. Le Kinmen o le Matsu o le Pratas potrebbero essere il primo possedimento da occupare da parte dell’Esercito Popolare di Liberazione (People’s Liberation Army).

Oppure potrebbero essere oggetto di un conflitto limitato per porre le basi per una futura invasione, a patto che sia azione rapidissima e nel contesto di una scommessa di non intervento da parte degli Stati Uniti. Una di queste isole, la Quemoy/Kinmen, vicinissima alle coste della Cina, fu oggetto di un breve scontro, nel 1949, tra le truppe cinesi nazionaliste e quelle cinesi comuniste, che ebbero la peggio.

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Pechino inviò oltre 28mila soldati supponendo che tre giorni sarebbero bastati ed invece le trovarono presidiate da 40mila nazionalisti. Dopo questo attacco la Quemoy/Kinmen e le altre piccole isole attorno vennero riempite di bunkers e protette da estesi campi minati. Tra i potenziali casus belli vi potrebbe essere l’atollo delle Dongsha/Pratas, una piccola formazione affiorante costituito dall’atollo Pratas e da due banchi corallini il Nord Vereker e il Sud Vereker, per un totale di circa tre chilometri di estensione.

La geografia colloca Pratas distante dalla municipalità meridionale taiwanese di Kaohsiung di cui fa parte, oltre 548 chilometri in linea d’aria, ma nel contempo è molto prossima a Hong Kong, appena 310 chilometri ed a 700 chilometri dalla munitissima base insulare cinese di Hainan. L’atollo è disabitato, eccetto per la presenza di un distaccamento di 500 marines che costituiscono il presidio di questo atollo (modesto ma molto meno simbolico di quello britannico alla Falkland ai tempi della guerra con l’Argentina del 1982) che ha una sua valenza strategica.

Fin dalla seconda guerra mondiale ne era stata valutata l’importanza, difatti i giapponesi provvidero ad occuparlo installandovi una stazione meteo e una postazione di sorveglianza. Nel 1944, senza incontrare resistenza sbarcò una unità mista di australiani e americani dal sommergibile Bluegill.

L’atollo venne ribattezzato con il nome del sommergibile ma poi nel settembre 1946 ritornò sotto sovranità della repubblica cinese (quella nazionalista, per capirci) rientrando amministrativamente nella provincia di Guangdong; il 12 settembre una nave militare vi sbarcò un piccolo contingente per simboleggiarne il possesso. Successivamente con la nascita della Repubblica della Cina (ROC) e la nascita del governo del generale Chang Hai Chek, Dongsha/Pratas è rimasto parte di possedimenti insulari di Taiwan.

Vale la pena rammentare che Formosa/Taiwan fece parte della Cina dopo il 1662 con la cacciata dei colonizzatori olandesi ma poi dal 1895 l’isola entrò a far parte dei possedimenti giapponesi, che ne avevo colto la valenza geostrategica. Nel 1949, dopo aver perso il controllo della Cina continentale in seguito alla Guerra civile cinese, il governo del Kuomintang si ritirò a Taiwan. Il Giappone rinunciò formalmente a tutti i diritti territoriali su Taiwan nel 1952 con il Trattato di San Francisco.

 

Taiwan si prepara

A Taiwan non stanno certo con le mani in mano. Da molti anni le pur piccole forze armate si sono preparate allo scontro, in particolare nell’ultimo quinquennio hanno acquisito ulteriori dotazioni, soprattutto, con lo scopo di rendere il più complicato e costoso possibile l’attacco, sperando sempre che non avvenga mai.

La strategia tradizionale è quella di reggere il tempo sufficiente per consentire il dispiegamento della US Navy, cosicché l’arrivo delle forze americane consenta di bloccare l’invasione sia con i mezzi militari convenzionali sia con il peso diplomatico della Casa Bianca.

Ma questa opzione militare non è più l’unica dato che in seno al governo e agli alti comandi si è aperto un dibattito su una strategia differente che prevede l’impiego di missili da crociera per colpire la costa cinese del Fujian. Lo scopo di questa strategia è di fungere da deterrente e quindi comunicare un messaggio durissimo in caso di attacco all’isola; una opzione che è anche una scelta di infowar pienamente in linea ai tempi che viviamo.

Secondo i proponenti l’impiego di missili da crociera dovrebbe far desistere i cinesi dal proseguire l’assalto all’isola o ancor meglio agire ‘prima’, ovvero come strumento di dissuasione per bloccare qualsiasi progetto sul nascere. Basilarmente è un’opzione che comporta almeno due obiezioni:

  1. potrebbe costituire il pretesto per una campagna di attacchi aerei mirati cinesi aventi lo scopo di distruggere le basi missilistiche taiwanesi per proteggere le città cinesi del Fujian
  2. autorizzerebbe Pechino a qualsiasi tipo di ritorsione e in caso di attacco a Taiwan ad impiegare il massimo della forza d’urto disponibile per scongiurare attacchi missilistici dall’isola.

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Ad oggi le difese taiwanesi sono basate sulle forze corazzate, sugli aerei da caccia, su grandi quantità di pezzi di artiglieria, su letali difese antisbarco con campi minati e bunker, difese agevolate dalla topografia dell’isola in gran parte montuosa che possiede solo poche spiagge, di fronte alle coste cinesi, adatte per uno sbarco in forze.

Oltretutto nel caso di difesa a oltranza, i soldati, i marines e i parà di Pechino dovranno affrontare anche i combattimenti urbani nelle due zone metropolitane più grandi: la capitale Taipei e Tainan dove vi è l’enorme porto di Kaoshiung e l’Accademia Militare della Repubblica di Cina.

Operazioni a cui i soldati cinesi si sono addestrati ma senza avere una effettiva esperienza sul campo come, per esempio, le forze armate statunitensi o britanniche. Stesso discorso vale per Marina e Aeronautica.

Come evidenziato più volte dagli osservatori i vertici militari cinesi debbono allestire una complessa e coordinata operazione anfibia con annessa protezione aereo-navale per tutti i 180 chilometri di larghezza dello Stretto di Formosa, far precedere l’assalto da attacchi missilistici miranti a mettere fuori uso i centri di comunicazione taiwanesi e il network dei radar della difesa aerea; assicurare l’eliminazione delle squadriglie dei caccia avversari e distruggerne le piste di volo; assicurare la copertura aerea ai marines prima, durante e dopo gli sbarchi; bonificare le spiagge oggetto degli sbarchi e nel contempo eliminare in tempi rapidi le difese avversarie; far funzionare tutta la complessa logistica dietro questa grande operazione e mantenere poi costante il flusso logistico sul campo di battaglia.

Per condurre in battaglia il numero di marines e soldati ritenuti sufficienti a prendere Taiwan, i vertici militari hanno anche ‘arruolato’ le navi civili sia mercantili sia traghetti. Le forze armate dell’isola contano su 170mila soldati ed una grossa struttura di riservisti che ammonta a circa un milione e 700mila uomini.

L’isola è un ‘porcospino’, come l’ha ben definita il think-tank Geopolitical Futures: gli aculei di questo agguerrito porcospino sono costituiti dal fitto arsenale di missili, razzi, e tantissimi pezzi di artiglieria: come per i nord-coreani, anche per i taiwanesi il cannone è una delle armi principali.

Taiwan's military fire artillery from M109 self-propelled Howitzers during the annual Han Kuang exercises in Hsinchu, north eastern Taiwan, Thursday, Sept. 10, 2015. Taiwan's military is simulating attacks by political rival China this week, despite an overall warming of ties, after Beijing staged what appeared to be a strike against the presidential office in Taipei. (AP Photo/Wally Santana)

Così come sono degli aculei micidiali le batterie di missili anti-nave a corto e medio raggio, disseminate nei punti nevralgici. Le difese costiere sono dotate di semoventi M-109 (calibro 155 mm) di obici trainati M-101 (105 mm), M-114 (!55 mm) e M-115 (203 mm) oltre a più di un centinaio di lanciarazzi multipli Kung Fe g VI e RT/LT 2000 mentre i tank un servizio sono un migliaio tra M-6A3TTS, CM-11 e CM-12 (derivati dagli M48A5) mentre tra pochi mesi arriveranno dagli USA oltre un centinaio di M-1A2T Abrams.

Anche se risalenti alla Seconda guerra Mondiale i taiwanesi impiegano tutt’oggi gli obici da 240mm M-1 Black Drafon in postazioni fisse, obici con una gittata di ben 24 km e munizioni da 160kg, ritenuti ancora un’arma temibile. Questi reparti di artiglieria sono integrati, in postazioni mobili e/o protette, da un gran numero di batterie missilistiche anti-nave, i missili Hsiung Feng II (raggio 250km) e i più recenti di terza generazione Hsiung Feng III, aventi un raggio operativo di oltre 400 chilometri.

E’ infatti nel comparto missilistico Taiwan che ha a disposizione una nuova arma con un raggio di azione fino a 1500 chilometri, il missile da crociera superficie-superficie Hsiung Feng 2E (nella foto sotto), con carico bellico di 450 kg e velocità di circa 1000 chilometri orari, come ben dettagliato nel marzo 2017 su Analisi Difesa.

Questi missili potranno colpire le basi militari cinesi così come richiesto dalla nuova strategia impostata dai vertici della difesa taiwanesi. I missili sono progettati e prodotti localmente dal NCSIST (National Chung-Shan Institute of Science and Technology), che è anche un tentativo di rendersi parzialmente autonomi dalle forniture americane.

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Per la difesa ravvicinata delle spiagge le truppe taiwanesi prevedono di usare il missile anticarro Javelin, che ha una testata dual-effect, valido sia contro mezzi corazzati che contro bersagli meno protetti; la sua ottima gittata (4,5km) e il meccanismo di spara-e-dimentica, consentirà di ingaggiare anche bersagli difficili come quei mezzi anfibi aventi un basso profilo sull’acqua.

I potenziali punti di sbarco sono protetti da mine anti-nave, mine anti-carro e anti-uomo; le fanterie verranno dispiegate in postazioni di bunker o in caverna. Sul fronte aereo-navale, la piccola flotta e aereonautica taiwanese prevedono di impiegare fino allo stremo i propri mezzi.

La Marina è dotata di pochi sottomarini datati, mentre in superficie vi sono alcune flottiglie di pattugliatori, mezzi molto veloci e iper-armati (dei piccoli ‘porcospini’) 31 unità lanciamissili, le cui caratteristiche dovranno, nelle aspettative dei militari taiwanesi, scompaginare le forze da sbarco cinesi. Inoltre sono previste nei piani futuri, una dozzina di corvette stealth lanciamissili del tipo Tuo-Jiang, armate con 16 missili Hsiung Feng III ognuna.

Dal canto suo l’aeronautica è dotata di 260 aerei da combattimento F-16, Mirage 2000 e caccia indigeni AIDC F-CK-1 Ching-Huo in grado di contrastare la più potente forza aerea di Pechino all’interno di una grande “bolla difensiva” predisposta, nei piani dei generali e ammiragli taiwanesi, per resistere fino all’auspicato arrivo dei potenti assetti della US Navy e della US Air Force.

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Guadagnare tempo prezioso è imperativo per tutta l’organizzazione difensiva di Taiwan. Dal 2019 il governo taiwanese ha provveduto ad aumentare gli acquisti di armamenti dagli Stati Uniti, acquisti che includono missili e aerei da caccia. Il budget delle spese militari è stato aumentato di 700 milioni dollari nell’anno in corso, portandolp a 16,8 miliardi di dollari, ed una buona parte dell’incremento verrà assorbito dall’acquisizione di 66 caccia statunitensi F-16V, standard a cui vengono aggiornati anche i 114 F-16 già in servizio.

La bolla difensiva potrà essere rafforzata da droni armati e ‘loitering ammunitions’ (cioè droni kamikaze) la cui letale efficacia contro i mezzi corazzati si è vista durante il recente conflitto tra azeri e armeni.

Sul tema invece, sempre delicato, di un possibile invio di consiglieri e/o soldati americani a Taiwan, lo scorso agosto è scoppiato un caso. Un tweet del senatore americano John Cornyn sulla presenza di “30mila soldati statunitensi a Taiwan” aveva immediatamente scatenato la reazione cinese, mentre in realtà questo numero si riferiva alle forze americane stanziate in Sud Corea.

I dirigenti taiwanesi in quel frangente glissarono subito sulla questione. Ma successivamente il tema è tornato a galla e in modo ufficiale: la presenza di reparti americani per fini di addestramento è stata confermata dalla stessa presidente di Taiwan.

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Dal canto suo le forze cinesi conducono sempre più frequenti esercitazioni, come quelle dello scorso agosto con munizionamento reale, svoltesi, volutamente, in una serie di località prospicienti l’isola contesa. L’Aeronautica cinese ha condotto centinaia di accessi nella ADIZ lo spazio aereo taiwanese, come riportato da Analisi Difesa in diversi articoli.

Sorvoli raddoppiati nel 2021 rispetto al 2020, che hanno lo scopo di testare i tempi di reazione della difesa aerea taiwanese, di curare il training dei piloti della PLAAF (People Liberation Army Air Force) e per fini di propaganda interna, un tema che viene attentamente curato dalla dirigenza cinese.

 

USA, QUAD, AUKUS e Giappone

Gli Stati Uniti sono l’armiere di Taiwan: hanno approvato vendite di armamenti per circa due miliardi di dollari, un ‘pacchettone’ includente lanciarazzi, pezzi di artiglieria e sensori inclusi 40 obici semoventi del valore 750 milioni di dollari.

Come noto per il Pentagono il focus complessivo sull’Indo-Pacifico è primario, e questa esigenza geo-strategica si è concretizzata in una richiesta di budget di 23 miliardi di dollari per gli anni fiscali dal 2023 al 2027. Come ha dichiarato l’ammiraglio Davidson davanti ai membri del Congresso, gli obiettivi indicati nel piano di budget sono per coprire 5 macro-aree: “struttura e postura delle forze militari; esercitazioni, sperimentazioni e innovazione; letalità joint-force; abilitatori nel settore logistica e sicurezza; rafforzamento dei rapporti con alleati e partners.”

E ben 5 miliardi di dollari sono previsti per il prossimo anno fiscale nell’ambito della Pacific Deterrence Initiative, una legge ad hoc varata per facilitare il processo di investimenti e dei programmi di spesa in questa regione. In questo contesto è stato, inoltre, richiesto con urgenza, di rafforzare sensibilmente le difese anti-missile di Guam, la base americana sita nel Pacifico Centrale, perché è entrata nel raggio dei missili convenzionali, a più lungo raggio, dei cinesi.

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E proprio la macro-area alla voce “rafforzamento dei rapporti con alleati e partners” assiste nel teatro dell’Indo-Pacifico, nel corso degli ultimi due anni, ad alleanze/partnership che sono state rivitalizzate ed altre sono di nuova costruzione.

Una partnership di vecchia data, risale al 2007, è il Quadrilaterale per il Dialogo e la Sicurezza (Quadrilateral Security Dialogue). Quad nel gergo dei media e dei think-tank, un consesso tra Stati Uniti, Australia, India e Giappone tornato alla luce per fronteggiare la politica assertiva di Pechino e la sua crescita in campo militare. Il Quad resta ad oggi confinato in un ambito comunque poco definito, senza vincoli per iscritto tra i Quattro partecipanti ma il cui orientamento strategico è molto chiaro: l’obiettivo su cui il Quad concorda è di ‘contenere’ la Cina.

Da rilevare in questo contesto la decisa presa di posizione dell’India nei confronti di Pechino mentre anche Singapore potrebbe aderire al QUAD, molto criticato da Pechino che lo considera come una sorta di NATO asiatica.

La nascita dell’AUKUS, patto di alleanza tra Stati Uniti, Australia e Gran Bretagna siglato lo scorso 15 settembre che prevede una partnership nel campo della difesa (con la arcinota vendita di sottomarini nucleari alla Marina Australiana che contemporaneamente stracciava il contratto con la Francia per 12 battelli convenzionali) ha determinato un’altra dura reazione di Pechino che ha tuonato contro “un ritorno alle logiche da Guerra Fredda”, affermando che gli Stati Uniti si comportano da “irresponsabili”.

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E’ ben chiaro che tutti questi accordi, incontri bilaterali, meeting trilaterali, sempre doviziosamente ben pubblicizzati fissano e ribadiscono che il controllo dei punti cruciali delle rotte commerciali e logistiche rimane fuori dalla portata dei cinesi, i quali, a loro volta, da nazione nata con espansioni successive via terra, rimangono de facto confinati nelle acque territoriali, ad eccezione del controllo su gran parte del Mar Cinese Meridionale e dei suoi arcipelaghi ultra-contesi.

Un discorso a parte è sul Giappone che nel corso del 2021 ha cambiato postura gettando sul piatto della bilancia le sue potenti forze armate, tra cui la Marina, che è una tra le prime al mondo. Per inciso la Japan Maritime Self Defense Force si sta dotando di due portaerei, Izumo e Kaga: portaelicotteri su cui sono stati effettuati lavori di conversione per poter utilizzare i caccia F-35B di quinta generazione, nella variante STOVL (Short Takeoff and Vertical Landing).

Impedire che la Cina controlli lo Stretto di Formosa e la stessa isola è per Tokio prioritario per la sicurezza nazionale. La posizione del Giappone si è evoluta dal 2013, da quando ha instaurato un rapporto più diretto con Taiwan sulla collaborazione per la sicurezza regionale. Per gli esperti dell’Osservatorio Asia Ispi: “ad oggi, rispetto al passato, i partiti giapponesi sono tutti concordi nel ritenere che un qualsiasi conflitto regionale avrà automaticamente un impatto sulla sicurezza nazionale del Giappone”.

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In conclusione è significativo riportare quanto Henry Kissinger ha scritto nel suo World Order del 2014, laddove, nel contesto del discorso in cui afferma sia necessario puntare sempre all’equilibrio tra le potenze anziché scivolare verso il conflitto, egli scriveva: “ […] Nella Guerra Fredda la linea di demarcazione era definita dalle forze militari.

Nel periodo attuale, invece, non dovrebbe esserlo. La componente militare non dovrebbe essere l’unico elemento che definisce l’equilibrio o anche il solo principale elemento. Le idee di partnership devono diventare, specie in Asia, gli elementi del moderno equilibrio di potere. […]

La combinazione di strategia dell’equilibrio di potere e diplomazia della partnership non sarà in grado di eliminare tutti gli aspetti conflittuali ma potrà mitigarli. Soprattutto potrà fornire ai leader cinesi e americani esperienze di cooperazione costruttiva, trasmettendo alle loro società l’idea di come procedere verso un futuro più pacifico. L’ordine richiede un sottile equilibrio di moderazione, forza e legittimità.

In Asia deve combinare un equilibrio di potere con concetto di partnership, altrimenti un equilibrio basato solo sulla forza tenderà a divenire confronto. Un approccio solo psicologico alla partnership solleverà timori di egemonia. Uomini di Stato saggi devono tentare di trovare quell’equilibrio, perché al di fuori di esso si profila il disastro.”

Foto Ministero della Difesa di Taiwan, US DoD, Casa Bianca,

 

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Marco LeofrigioVedi tutti gli articoli

Nato a Roma nel 1963, laurea in Scienze Politiche, si occupa da oltre dieci anni di geopolitica, strategia, guerre e conflitti, forze armate straniere, storia navale, storia contemporanea, criminalità organizzata, geo-economia. Ha scritto decine di articoli, analisi e saggi su questi argomenti. E' membro attivo della Società Italiana di Storia Militare. Dal 2011 è co-autore, con Lorenzo Striuli, di diversi articoli di storia navale sulla Rivista Marittima della Marina Militare. Collabora fin dal 2003 con Analisi Difesa.

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