Guerra in Ucraina: verso la battaglia decisiva nel Donbass?

 

 

In questi primi giorni di aprile 2022 è apparso sempre più chiaro che il conflitto fra Russia e Ucraina si sta radicalizzando, rischiando di assumere l’aspetto di uno scontro epocale fra Mosca e la NATO di cui lo sfortunato paese in macerie, e il suo popolo, finiscono col ritrovarsi soltanto scacchiere e strumento.

Un conflitto caratterizzato da un lato una complessa manovra russa articolata su più direttrici di attacco, sia nel settore della capitale Kiev, sia nel Donbass e nel Sud, lungo le coste, dall’altro lato la notevole resistenza ucraina alimentata da consegne di armi, soprattutto anticarro e antiaeree, occidentali.

Negli ultimi giorni stiamo assistendo a una rimodulazione dello sforzo militare russo con smobilitazione dal settore di Kiev e rischieramento soprattutto nel Sudest, dove potrebbe configurarsi una tenaglia ai danni di quasi metà delle forze ucraine, tuttora schierate lungo la “linea di contatto” nel Donbass e nelle sue retrovie.

Una mossa del genere potrebbe, se attuata nei prossimi giorni, portare le truppe russe a far guadagnare al presidente Vladimir Putin un peso negoziale molto maggiore nell’ambito delle trattative, al momento ancora abbozzate, che Russia e Ucraina stanno intavolando ad intermittenza soprattutto grazie alla mediazione della Turchia.

Data la sproporzione fra le moli dei due paesi in campo, è palese che il conflitto troverà una soluzione tanto più rapida quanto più peseranno sulla bilancia le maggiori risorse, umane e tecniche russe. Sotto tale aspetto, la “grande battaglia nel Donbass” che anche la NATO ha detto di aspettarsi, potrebbe essere davvero decisiva per l’andamento del conflitto.

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Foto Ministero Difesa Russo

 

E’ chiaro comunque che, a contribuire al protrarsi della lotta, è più l’appoggio occidentale, in termini di forniture militari e di incoraggiamento politico del vertice di Kiev. Tutt’altra questione è stabilire qual è il punto oltre il quale, continuare a combattere a costo di far distruggere tutta l’Ucraina, risponda davvero agli interessi del suo sofferente popolo.

In questo quadro si sono inserite, con un tempismo non ignorabile, le notizie relative a ripetuti massacri e abusi di cui sono stati accusati i soldati russi, soprattutto nella cittadina di Bucha, a Nordovest di Kiev. Notizie che hanno scosso l’opinione pubblica europea e americana e che necessitano di tutte le verifiche e inchieste del caso, ma che sono state subito sfruttate dal presidente ucraino Volodymir Zelensky per chiedere ulteriori rinforzi per l’Ucraina.

 

Estensione o risoluzione?

Alla luce degli ultimi avvenimenti, non deve stupire l’avventatezza con cui il 6 aprile il segretario generale dell’Alleanza Atlantica, Jens Stoltenberg, in occasione del vertice NATO di Bruxelles fra i ministri degli Esteri dell’alleanza, ha detto apertamente che “la guerra può durare mesi o anni” perchè “la NATO non ha alcuna indicazione che la Russia abbia cambiato l’ambizione di controllare tutta l’Ucraina e di riscrivere l’ordine internazionale: dobbiamo essere realistici, dobbiamo essere preparati per il lungo termine”.

Lotta a lungo termine che l’Alleanza Atlantica vuole continuare ad alimentare con crescenti forniture di armi destinate all’esercito di Kiev, senza badare alla prospettiva che l’Ucraina possa trasformarsi, se la lotta si prolunga troppo, in una sorta di “Siria europea” il cui scopo, evidentemente, non è quello di riaffermare la libertà del popolo ucraino, ma si riduce a semplice trappola per far impantanare ed esaurire (così almeno si spera in alcune capitali occidentali) il potenziale bellico di Mosca.

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Le parole di Stoltenberg non aiutano certo ad arrivare alla risoluzione diplomatica della guerra e, anzi, lanciano verso la dirigenza russa un segnale di aperta ostilità che, data la peculiare propensione della Russia alla resistenza prolungata, anche con costi umani ed economici enormi, come testimonia la plurisecolare storia del colossale impero eurasiatico, possono servire solo ad aumentare l’instabilità in Europa e l’insicurezza di tutti quei paesi, Italia compresa, a cui invece l’Alleanza Atlantica dovrebbe garantire protezione.

Ancor più rilevante è che lo stesso ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba al vertice NATO abbia il 7 aprile addirittura detto: “Credo che il patto che l’Ucraina sta offrendo sia equo. Voi ci date armi, noi sacrifichiamo le nostre vite e la guerra viene contenuta in Ucraina”. Sembra che Kuleba voglia quasi ammettere che l’Ucraina stia passivamente accettando di essere strumentalizzata dall’Occidente in una guerra per procura contro la Russia, facendo da carne da macello per interessi fondamentalmente non suoi, e nemmeno europei, bensì d’oltreatlantico.

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Foto Ministero Difesa Russo

 

Ancora Kuleba ha poi ribadito la “fame” di armamenti di Kiev: “Chiediamo tre cose all’Occidente, armi, armi, armi. Vogliamo aerei e missili per difendere le coste, veicoli blindati, sistemi per la contraerea pesante. E’ ipocrita distinguere fra armi offensive e difensive”.

L’Ucraina sta, per ora, reggendo senza dubbio in gran parte per le armi giunte dall’Occidente e un punto cruciale sarà, nel tempo, capire se il tasso a cui queste armi vengono “consumate” in combattimento, catturate sul campo di battaglia (nella foto sopra) oppure distrutte dai bombardamenti aerei e missilistici russi sia superiore o inferiore al tasso di effettiva consegna ai reparti di Kiev.

Se infatti i paesi occidentali intendono prolungare il più possibile la resistenza ucraina dovranno investire cifre enormi per compensare i vantaggi marginali che, pur fra molte difficoltà, i russi paiono conquistare progressivamente sugli ucraini anche solo con la demolizione delle loro infrastrutture e basi.

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Foto Twitter

 

Dall’inizio della guerra gli USA hanno donato aiuti per 1,7 miliardi di dollari, la Gran Bretagna per 850 milioni di sterline e la UE per 950 milioni di euro a cui aggiungere gli aiuti forniti dai singoli stati europei e dal Canada. Kuleba ha anche sottolineato l’urgenza del fare in fretta: “Non ho dubbi che l’Ucraina avrà le armi necessarie a combattere, il punto sono i tempi, che sono cruciali”.

Che l’Occidente stia cercando una contrapposizione di “campo”, la quale del resto pareva profetizzata già prima del conflitto, con la “conferenza globale delle democrazie” lanciata dal presidente americano Joe Biden nell’autunno 2021, sarebbe testimoniato anche dalla presenza al vertice NATO del 6-7 aprile di osservatori europei di nazioni esterne all’alleanza come Svezia, Finlandia e Georgia più  perfino di alleati degli USA afferenti all’area del Pacifico, vale a dire Australia, Nuova Zelanda, Giappone e Corea del Sud.

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Foto; Ministero Difesa Ucraino

 

D’altronde, il capo di Stato Maggiore supremo americano, generale Mark Milley ha lanciato l’allarme su una possibile estensione globale del conflitto, osservando davanti a una commissione del Congresso di Washington: “Ci troviamo a fronteggiare due potenze globali: la Cina e la Russia, ciascuna con significative capacità militari ed entrambe volte a cambiare fondamentalmente le regole basate sull’attuale ordine mondiale: stiamo entrando in un mondo che sta diventando più instabile e il potenziale per un significativo conflitto internazionale sta aumentando, non riducendosi”.

Non a caso gli USA stanno pressando l’India, da sempre vicina alla Russia, nonché acquirente di sue armi, per capire da che parte sta. Stando al segretario alla Difesa statunitense, Lloyd Austin: “Continuiamo a lavorare con l’India per assicurarci che capiscano, crediamo che non sia nel migliore interesse (dell’India) continuare a investire in attrezzature russe”.

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Foto Fausto Biloslavo

 

Viceversa, la Russia sta cercando, stando alle dichiarazioni ufficiali, di tenere limitato il conflitto a una questione russo-ucraina risolvibile con negoziati, sebbene ovviamente il Cremlino cerchi di arrivarci dalla posizione di maggior forza possibile sulla base dei risultati ottenuti sul campo di battaglia.

Il portavoce di Putin, Dimitri Peskov, ha dichiarato il 6 aprile che il ritiro dei battaglioni russi dall’area di Kiev dovrebbe “creare condizioni favorevoli ai colloqui di pace”. Ha precisato: “Abbiamo deciso di fare questo passo come gesto di buona volontà per creare condizioni favorevoli ai negoziati. Possiamo prendere decisioni serie durante i negoziati e quindi il presidente Putin ha ordinato il ritiro delle truppe dalla regione”.

In realtà gli scopi sono forse anche militari, ovvero preparare la spallata nel Donbass, ma ciò non toglie che ci sia un fondo di verità nelle parole di Peskov, che l’8 aprile ha aggiunto: “L’operazione militare speciale continua, stiamo raggiungendo gli obiettivi. Si sta svolgendo un lavoro sostanziale sia militarmente, in termini di avanzamento dell’operazione, sia attraverso i negoziatori che sono in fase di trattativa con le controparti ucraine”.

E’ la prima volta che una fonte ufficiale russa allude al fatto che gli obbiettivi siano prossimi e che il conflitto possa risolversi forse entro poche settimane. E ciò potrebbe verificarsi per la manovra in atto in questi giorni, che forse potrebbe vanificare anche l’aumento di sostegno militare dall’Occidente.

 

Tenaglia sul Donbass

Così come all’inizio della guerra, tra febbraio e marzo, le fonti occidentali sostenevano che era in sostanza fallita una presunta “guerra lampo” attribuita a Putin e ai suoi generali, senza però prova alcuna che ciò rientrasse fin dal principio nei loro scopi, allo stesso modo negli ultimi giorni il fattivo ritiro delle truppe russe dai settori che cingevano la capitale ucraina Kiev sull’arco da Nordovest a Nordest è stato spiegato con le ingenti perdite subite dalle truppe russe nei combattimenti.

Ora, sull’esatta entità delle perdite russe, permane ancora oggi un mistero, poiché solo da fonti ucraine abbiamo bollettini costantemente aggiornati, che verosimilmente possono essere “gonfiati” dalla propaganda, mentre il Cremlino tiene la bocca cucita da alcune settimane.

Al 7 aprile lo stato maggiore ucraino rivendicava l’uccisione di oltre 18.900 militari russi, stando al sito Minusrus.com emanazione del ministero della Difesa di Kiev, mentre i feriti russi venivano dati a 56.700 e i prigionieri a circa 1.000. Aggiungendo le perdite di mezzi, a partire dal 24 febbraio, queste ammontavano secondo gli ucraini a 698 carri armati, 1891 veicoli blindati, 332 sistemi d’artiglieria, 55 mezzi di difesa aerea, 150 aerei e 135 elicotteri.

Il 10 aprile le stesse fonti ucraine riferivano di 19.300 soldati russi uccisi dall’inizio della guerra, 152 aerei, 137  elicotteri e  722 carri armati distrutti insieme a 342 i pezzi di artiglieria e 1.384 i veicoli.

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Foto Fausto Biloslavo

 

Gli ultimi dati ufficiali russi sui propri caduti risalgono al 25 marzo, quando il ministero della Difesa di Mosca parlò di 1.351 morti, oltre a 3.825 feriti. Fino al 5 aprile, solo 1.083 caduti russi sono stati identificati per nome, dei quali 217 ufficiali con grado da sottotenente a generale.

Da allora non sono state ancora date cifre aggiornate, ma il 7 aprile Peskov ha ammesso “perdite significative” senza tuttavia quantificarle. Il portavoce della Difesa russa, generale Igor Konashenkov, nel bollettino del 5 aprile dava per annientati finora 125 aerei e 91 elicotteri ucraini, oltre a 398 droni, e 1.969 fra carri e blindati.

Ipotizzando che le cifre sulle perdite nemiche date da entrambi i contendenti siano influenzate dalla propaganda, il divario fra le due nazioni, specie in armi pesanti e aerospaziali rende proporzionalmente più gravi quelle ucraine, pertanto appare improbabile che le perdite siano il solo fattore che ha spinto i russi a lasciare i sobborghi di Kiev.

Tutto, a cominciare dal fatto che si è trattato di un ripiegamento in buon ordine, lascia pensare a una manovra congegnata per supportare una rinnovata offensiva nel Donbass. Molte unità sono state ritirate e rifornite nell’area di Belgorod da dove si preparano a riattraversare la frontiera più a Est.

Sul fronte di Kharkiv i russi tengono, con almeno 5 battaglioni tattici di prima linea e, anzi continuano a martellare con missili e artiglieria depositi di carburante e di armi, nel contempo disponendo “campi minati”, come segnalato l’8 aprile.

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Foto Ministero Difesa Russo

 

Poichè a circa 60 chilometri a Oriente di Kharkiv passa una strategica ferrovia che dallo snodo russo di Valujki attraversa la frontiera arrivando alla città ucraina di Kupjansk costeggiando il fiume Oskol, l’ipotesi più accreditata è che i russi stiano sfruttando la strada ferrata per far affluire carri armati, munizioni e quant’altro fino a Kupjansk per farne la retrovia avanzata della loro puntata verso Sud, oltre Izjum e verso Slaviansk.

Tenere le posizioni a ridosso di Kharkiv permette così di coprire il fianco destro di tale direttrice. Il fianco sinistro è invece assai meno vulnerabile per il semplice fatto che va a toccare aree in cui le forze ucraine sono distratte a Est da quelle russe e filorusse del Donbass.

Già il 5 aprile i reparti della 1° Armata Corazzata della Guardia, forte di almeno 500 carri da battaglia e comandata dal generale Sergei Kisel, sono avanzati fino a 25 km a Sud di Izjum, conquistando il villaggio di Brazhkivka.

Il 7 aprile gli ucraini hanno sostenuto di aver respinto una ulteriore puntata verso Slaviansk, ma è credibile che i russi stiano ancora sondando lo schieramento nemico, in attesa della vera e propria offensiva che potrebbe realizzarsi fra vari giorni, solo quando avranno completato lo schieramento nel settore Kupjansk-Izjum con sufficienti forze di prima linea supportate da riserve.

 

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Foto Eliseo Bertolasi

 

A conferma di un intenso flusso logistico in vista di una grande offensiva russa, l’ 8 aprile immagini satellitari raccolte e analizzate dalla società statunitense Maxar Technologies mostravano un convoglio militare russo lungo circa 12 chilometri che muoveva verso sud attraverso la città di Velkyi Burluk, che si trova a est di Kharkiv, vicino al confine russo-ucraino.  Le immagini, rese note dalla CNN il 10 aprile, evidenziavano la presenza di veicoli blindati, artiglieria e mezzi di supporto.

L’8 aprile il portavoce della milizia filorussa della Repubblica di Donetsk, Eduard Basurin ha confermato la stima di circa 90.000 soldati ucraini lungo la linea di contatto e le postazioni del Donbass.

“Fra Lugansk e Donetsk, a dar retta alla nostra intelligence e alle stesse dichiarazioni ucraine, ci sono 90.000 uomini. La battaglia principale avverrà qui. La maggior parte sono nel territorio di Donetsk, mentre a Lugansk sono meno numerosi” ha detto Basurin.

Frattanto in quel settore si è registrata l’8 aprile una strage alla stazione di Kramatorsk, dove sono stati uccise 50 persone in un attacco di missili tattici che gli ucraini hanno attribuito ai russi, mentre questi ribattono si sia trattato di missili Tochka-U, non più in servizio con l’esercito russo da alcuni anni (ma forse ancora presenti nei magazzini)  ma ancora ampiamente utilizzati dai battaglioni ucraini e che potenzialmente potrebbero essere caduti anche nelle mani delle milizie filorusse del Donbass.

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Foto Fausto Biloslavo

La pressione russa sulla regione di Luhansk si è concretizzata in 81 attacchi missilistici e aerei nella sola notte del 6 aprile, durante la quale sono andati distrutti 10 edifici nella città di Severodonetsk, oltre a un capannone a Lysychansk e una casa a Rubizhne.

L’intelligence militare britannica ha ribadito l’8 aprile che “le truppe russe hanno completamente abbandonato il Nord del paese” e che: “Almeno alcune di queste forze saranno trasferite nell’est dell’Ucraina per combattere nel Donbass. Molte di queste forze richiederanno un significativo rifornimento prima di essere pronte per essere dispiegate più a est. Tale trasferimento richiederà probabilmente almeno una settimana”.

E’ però possibile che siano necessarie anche due o tre settimane. Intanto, il segretario americano alla Difesa, Lloyd Austin, parlando di fronte a una commissione del Congresso USA, ha aggiunto lo stesso giorno che “Putin ha rinunciato a conquistare Kiev. Pensava che avrebbe potuto conquistare rapidamente l’Ucraina, e la capitale. Si era sbagliato. Penso che Putin abbia rinunciato ai suoi sforzi per conquistare la capitale e ora sia concentrato nel sud e nell’est del Paese”.

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Foto Fausto Biloslavo

 

Una volta che i russi abbiano completato i trasferimenti di truppe in atto, tuttavia, non si può escludere che davvero sia imminente una battaglia risolutiva nell’Est che tagliando fuori una parte così consistente dell’esercito di Kiev potrebbe rendere vani gli aiuti occidentali e costringere Zelensky a una resa o ad accettare trattative.

D’altronde, una siffatta tenaglia, da Est, cioè a partire dalle due repubbliche di Donetsk e Lugansk, e da Nord, cioè dalla direttrice da Izjum, potrebbe essere assistita anche da una puntata proveniente dalla costa del Mar d’Azov, una volta “sbrigata” la pratica di Mariupol. Nella disastrata città ormai ci sono poche sacche di resistenza nella zona del porto, nel centro e presso le acciaierie Azovstal, tenute dal battaglione Azov e da tre brigate dell’esercito regolare, ormai considerate a corto di munizioni.

 

La battaglia logistica

Frattanto proseguono le azioni di interdizione dei russi che possono compromettere gravemente, con l’andare del tempo, la capacità ucraina di mobilitare e spostare le proprie forze, oltre che ricevere e distribuire le armi di fornitura straniera. Il che, per inciso, favorirebbe la tenaglia poco sopra delineata poiché potrebbero arrivare meno rinforzi e rifornimenti del previsto ai reparti che si oppongono ai russi nel Donbass.

Certo, le difese antiaeree ucraine funzionano ancora ma sembra in misura insufficiente a evitare gravi danni. Il 5 aprile il portavoce russo generale Igor Konashenkov, ha annunciato che con “missili di precisione” sono state “colpite strutture vicino a Zolochiv, nella regione di Leopoli e a Chuhuiv nella zona di Kharkiv”.

“Gli attacchi – ha aggiunto l’ufficiale- hanno distrutto un posto di comando di una unità di difesa territoriale, un deposito di carburante e una struttura di riparazione di veicoli corazzati”.

Lo stesso giorno, il comando delle forze aeree occidentali ucraine ha denunciato il lancio di 4 missili da crociera da parte di due caccia russi Su-35 che volavano sul territorio della Bielorussia, ma la difesa aerea è riuscita a intercettarli. Secondo gli ucraini, tre dei missili sono stati “distrutti dai sistemi antiaerei, mentre un quarto è stato danneggiato, impedendogli di colpire con precisione il bersaglio”. Sarebbero stati distrutti anche i droni dell’esercito russo, presumibilmente del tipo Orlan, che avrebbero dovuto sorvolare in ricognizione l’area dell’attacco.

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Foto Ministero Difesa Russo

 

Sono invece andati a segno il 6 aprile ben sette missili Kalibr che, stando a Konashenkov, “una nostra nave lanciamissili ha lanciato contro una base d’addestramento di forze speciali ucraine a Ochakov, dove sono stanziati anche mercenari stranieri”.

Ochakov si trova presso Mykolaiv, il centro nevralgico per una possibile avanzata via terra verso Odessa. E proprio vicino a Odessa, a Krasnoselka, l’8 aprile “missili ad alta precisione del sistema Bastion hanno distrutto il centro di raccolta e addestramento dei mercenari stranieri”. Nelle stesse ore altri missili russi “hanno distrutto armi ed equipaggiamenti militari delle riserve ucraine in arrivo nel Donbass alle stazioni ferroviarie di Pokrovsk, Slavyansk e Barvenkovo”.

Il sostegno euroamericano all’Ucraina è stato finora ingente in riferimento ad armi relativamente leggere, ma carente in armi pesanti, il che, unito ad attacchi di interdizione logistica come quelli sopra elencati, complicherà molto la posizione di Kiev e potrebbe non evitarne la sconfitta, se il flusso non viene arricchito abbastanza da equilibrare la, pur lenta, valanga russa. Il 6 aprile il portavoce del Pentagono, John Kirby, ha confermato la consegna di 100 sistemi di droni Switchblade, per un totale di 1.000 singoli droni “kamikaze”, vere munizioni volanti con opzione autonoma o manuale, che facevano parte dell’ultimo pacchetto di aiuti militari USA da 800 milioni di dollari.

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Kirby ha anche citato l’addestramento “di un numero molto ristretto di soldati ucraini che erano negli Stati Uniti e poi sono rientrati in Ucraina per addestrarne altri”. L’8 aprile Washington ha annunciato ulteriori 300 milioni di dollari in aiuti militari. Finora gli Stati Uniti hanno fornito all’Ucraina 1,7 miliardi di dollari in armamenti ed equipaggiamenti per la sicurezza, dall’inizio dell’invasione il 24 febbraio.

Ma si arriva a 2,4 miliardi a partire dal gennaio 2021, quando è diventato presidente Biden. Delle forniture americane finora arrivate fanno parte 1400 missili antiaerei Stinger, 5000 missili anticarro Javelin e 50 milioni di munizioni, nonché i citati droni Switchblade, apparati di visione notturna, giubbotti antiproiettile, elmetti e materiale medico.

Parte di queste armi potrebbe essere stata trasportata su presunti voli da carico partiti dall’aeroporto civile di Pisa, come segnalato da alcune fonti sindacali, e diretti verso la base polacca di Rzeszow, da dove poi raggiungerebbero l’Ucraina. L’uso dello scalo di Pisa lascia pensare che molte di queste armi vengano direttamente dai grandi depositi americani di armi ed equipaggiamenti situati nella vicina base di Camp Darby, che come noto è ben collegata tramite ferrovia, strada e canale navigabile sia al porto di Livorno che all’aeroporto di Pisa.

Frattanto, il premier britannico Boris Johnson promette armi per 100 milioni di sterline, fra cui “missili antinave” di tipo non precisato che potrebbero contribuire ad aumentare le difese costiere di Odessa. Gli inglesi annunciano inoltre di voler mandare blindati ruotati Mastiff e Jackal, certo utili come appoggio alla fanteria e trasporto truppa con protezione leggera e antimina, ma inadeguati di fronte all’abbondanza di carri da battaglia e in genere corazzati pesanti nelle file del Cremlino.

Anche l’Australia si limita a veicoli da fanteria, pur abbastanza protetti, come le blindo Bushmaster che il governo di Canberra ha promesso a Zelensky in numero di 20 unità, per un valore totale di 34 milioni di euro. I primi 4 mezzi sono partiti in volo l’8 aprile caricati a bordo di un aereo da trasporto C-17 decollato da Brisbane.

La Repubblica Ceca ha avuto autorizzazione dalla Germania di fornire alcuni vecchi veicoli da fanteria BMP-1 originari di uno stock dell’ex-Germania Est, mezzi che seppur rimodernati vengono reputati piuttosto scadenti. La Germania, peraltro, si è tirata indietro dall’ipotesi di fornire a Kiev vecchi cingolati Marder.

Inizialmente i tedeschi avevano pensato di dare circa 100 Marder immagazzinati dall’azienda Rheinmetall, i quali però necessitavano di revisione e ammodernamento con un lavorio di molte settimane. Quando gli ucraini hanno suggerito a Berlino di ripiegare sui Marder ancora efficienti e operativi nella Bundeswehr, l’esercito germanico non ha voluto privarsene.

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Importante si è rivelata la fornitura di missili antiaerei S-300 da parte della Slovacchia, che pure ne aveva solo una batteria con 48 missili. L’8 aprile il primo ministro slovacco, Eduard Heger, in visita a Kiev ha annunciato il dono, prezioso in quanto il sistema può ingaggiare più bersagli per un raggio di un centinaio di chilometri: “La nazione ucraina sta difendendo coraggiosamente il suo paese sovrano e anche noi. La donazione degli S-300 non significa però che la Slovacchia sia parte del conflitto”.

La Slovacchia aveva nei giorni scorsi fatto capire che avrebbe dato gli S-300 a Kiev a patto che gli Stati Uniti li rimpiazzassero coi loro missili Patriot.

 

Tragici misteri

Ad alimentare il muro contro muro fra Russia e Occidente ha contribuito la strage di Bucha, la cittadina alla periferia di Kiev da cui i russi hanno ripiegato fin dal 30 marzo, ma nelle cui strade e in una fossa comune sono stati trovati fino a 320 corpi di civili solo il 2 aprile, nonostante i corpi sparsi nelle vie dovessero essere sotto gli occhi di tutti già da alcuni giorni.

Finora, le Nazioni Unite, che sul numero delle vittime si basano sempre su fonti indipendenti, hanno calcolato, fino all’8 aprile, 1.626 civili morti e 2.267 feriti, stando al bollettino dell’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, in tutta l’Ucraina e a partire dal 24 febbraio.

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Da parte russa si è parlato di una messinscena e, in particolare, proprio fonti dei servizi segreti russi SVR hanno evocato responsabilità dei servizi segreti britannici MI6 e in particolare del loro direttore Richard Moore: “Forse è stato in silenzio perchè non solo sapeva, ma ha anche preso parte allo sviluppo di questa cinica azione provocatoria per accusare le forze di pace russe di un peccato così grave?”

Certo è quanto mai strano che corpi di civili vengano lasciati per molti giorni in strada o, in caso di strage, non vengano occultati anche in fosse comuni ma in luoghi isolati lontano dai centri abitati. Rimane aperta la possibilità che i civili di Bucha siano stati trucidati da militari russi che si sono magari lasciati andare a gesti di ferocia gratuita  senza aver ricevuto ordini in tal senso dagli  alti comandi

Può accadere in guerra ma restano aperti di dubbi circa la dinamica temporale dell’evento poichè i cadaveri sono apparsi sulle strade diversi giorni dopo il ritiro dei russi e nessuna istituzione ucraina ne aveva parlato prima.

Ma parimenti non è improbabile che gli ucraini possano aver preso cadaveri di militari o anche di civili uccisi in circostanze diverse o sotto i bombardamenti, mettendoli “in posa” per l’occasione. Un modo di calcare ancora sull’emotività di opinioni pubbliche e classi dirigenti occidentali per chiedere ancora più armi e munizioni.

Le fonti ucraine, d’altronde, ritengono di poter dare nome e cognome ai singoli militari russi ritenuti responsabili del massacro. Sono partiti da dati raccolti da attivisti di InformNapalm, un sito di giornalismo militante ucraino fondato fin dal 2014 da Roman Burko e Irakli Komaxidze per controbattere le fonti d’informazione russa sulla guerra in Donbass.

In tal modo, i servizi segreti militari ucraini, ovvero il GUR, sigla per Direttorato Principale Intelligence, hanno individuato il reparto russo che ha occupato Bucha in marzo, nonché identificato il suo personale. Sarebbe la 64a Brigata di Fanteria Motorizzata, inquadrata nella 35a Armata.

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E’ un’unità nota anche col codice identificativo 51460, la cui base principale è in Siberia, nel quartier generale di Knyaze-Volkonskoye, cittadina nel territorio di Chabarovsk, nel cuore più profondo del cosiddetto Dalni Vostok, il “Lontano Oriente” della Russia, che confina con la Cina e la Corea del Nord.

I servizi segreti ucraini hanno pubblicato sul loro sito un elenco di 87 pagine coi nomi di 1.600 ufficiali e soldati russi della 64a Brigata, compreso il suo comandante, tenente colonnello Omurekov Azatbek Asanbekovich. Gli ucraini hanno anche pubblicato su Telegram i dati personali del comandante e della maggior parte dei suoi uomini, compresi grado militare, nome e cognome, data di nascita e dettagli del passaporto. Sembra che alcuni dei membri della brigata siano originari anche della Cecenia, sebbene il grosso verrebbe dalla Siberia. Ovviamente non esiste, al momento, prova alcuna di un loro ruolo nella strage e secondo fonti russe quel reparto non sarebbe addirittura mai stato schierato in Ucraina.

Occorrerà un’inchiesta davvero indipendente. La Russia intende presentare all’ONU suo “materiale”, come preannunciato dal ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov.

Se il presidente ucraino Volodymir Zelensky e il presidente del parlamento di Kiev Ruslan Stefanchuk hanno parlato di “genocidio e Olocausto del nuovo millennio”, tuttavia il direttore del Centro Wiesenthal di Gerusalemme, Efraim Zuroff, ha invitato alla cautela e, pur definendo il dramma di Bucha un crimine di guerra, ha aggiunto che “Il paragone con la Shoah è fuori luogo”.

Dagli USA, il Pentagono, pur dicendo di “non aver ragione di contestare la veridicità” del massacro, ammette di “non poter in modo indipendente confermare” le denunce ucraine”.

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Foto Governo Ucraino

 

Di sicuro, la strage permettea Zelensky di pretendere dall’Occidente ancor più durezza verso Mosca, mentre per il Cremlino compiere stragi di civili sarebbe controproducente sul piano politico e dell’immagine e inutile ai fini bellici. Per questo se venisse appurato che si tratta di crimini compiuti dai russi, sarebbero con ogni probabilità il frutto dell’iniziativa criminale di singoli militari o reparti.

Nel dubbio non si può escludere neppure l’ipotesi che gli autori possano essere stati gli stessi ucraini (e le vittime possano essere civili che avevano accolto i militari di Mosca) con l’obiettivo di screditare l’avversario e forzare la NATO a un maggior sostegno a Kiev sulla base di una sorta di ricatto morale.

Ricordiamo che la storia è ricca di inganni, come quando nell’agosto 1939 i tedeschi dell’SD, il servizio segreto delle SS, prepararono cadaveri con indosso uniformi polacche sulla frontiera germano-polacca, a Gleiwitz, denunciando un falso attacco nemico alla locale stazione radio e fabbricando così il pretesto per l’invasione della Polonia.

O come nel caso della fossa comune di Racak, in Kosovo, la cui scoperta portò nel 1999 all’attacco NATO contro la Serbia, fosse sulla quale sono poi emersi molti dubbi sulla possibilità che i civili albanesi trucidati dai serbi potessero essere morti in contesti diversi e poi colpiti con un colpo alla testa e seppelliti nella fossa comune.  Nel caso di Bucha, solo indagini accurate e neutrali, senza pregiudizi verso l’una o l’altra parte, sanciranno forse la verità.

 

Duelli diplomatici

Una misura delle chiusure diplomatiche occidentali verso Mosca, che non fanno che esacerbare il conflitto, è data dall’incredibile quantità di ben 315 diplomatici russi finora espulsi a partire dal 24 febbraio 2022, spesso col pretesto, fondato o meno a seconda dei casi, di spionaggio. Secondo l’agenzia russa TASS:

“E’ un numero 2,5 volte più elevato rispetto alla precedente importante ondata di espulsione avvenuta nel 2018 in occasione del caso Skripal”, l’ex agente segreto russo naturalizzato britannico avvelenato e salvatosi in ospedale.

Facendo una classifica, decrescente, i paesi che hanno espulso più rappresentanti russi sono Polonia (45), Germania (40), Slovacchia (35), Francia (35) e Italia (30). Diplomatici russi sono stati cacciati anche da Belgio (21), Paesi Bassi (17), Danimarca (15), Bulgaria (13), Macedonia del Nord (5), Irlanda (4), Lituania (4), Lettonia (16), Svezia (3), Estonia (17), Montenegro (1) e Repubblica Ceca (1). Gli Stati Uniti hanno espulso il ministro Consigliere dell’Ambasciata Russa, e hanno anche dichiarato persone non gradite 12 dipendenti della missione russa presso le Nazioni Unite.

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Il presidente V. Zelensky riceve a Kiev il presidente dell’Europarlamento Roberta Metsola (Foto: Governo Ucraino)

 

Sull’espulsione di 30 diplomatici russi dall’Italia è interessante riportare l’opinione dell’ex direttore del SISMI, il servizio segreto militare italiano, Nicolò Pollari: “Non credo sia una misura di carattere tecnico, sarà una misura di carattere politico. Sono accordi a livello europeo che immagino abbiano portato a questo tipo di iniziativa.

Se fossero state spie, mi chiedo come mai non sia stato fatto prima, ma non entro nel merito di questa considerazione perché la concomitanza con quello che è avvenuto in Francia e in altri Paese dell’Ue mi fa supporre che siano delle misure concordate, in questo senso penso non sia giusto formulare delle valutazioni tecniche su fatti che hanno il sapore di un’intesa politica rispetto a una prospettiva”.

Su una lunghezza d’onda simile, il prof. Salvatore Sechi, storico e accademico, docente di Storia contemporanea e già consulente della commissione Mitrokhin: “Perché solo adesso? Se ci sono 30 persone del corpo diplomatico russo da cacciare perché, immagino, erano delle spie, perché solo ora? Tradizionalmente, alla cacciata dei diplomatici si risponde con l’espulsione di altri diplomatici, un provvedimento alla pari. Ma questo è un gioco di fioretto. Il passo ulteriore della Russia potrebbe essere quello di richiamare il loro ambasciatore, e poi potremmo farlo anche noi col nostro, ma in questo caso significa azzerare i rapporti diplomatici”.

 

La battaglia economica

In Russia, intanto, mentre il presidente Putin gode di un consenso in crescita, stando a sondaggi che gli attribuiscono l’83% di gradimento, notevole anche in una società di solito patriottica come quella russa.

Il presidente della Duma, Vyacheslav Volodin, ha attaccato decisamente il sistema delle sanzioni, sollevando il dubbio che sia in verità l’Occidente a rischiare di isolarsi dal resto del mondo, superiore per popolazione. Inoltre ricorda quanto possa essere fragile la supremazia monetaria del dollaro americano: “La politica di sanzioni degli Stati Uniti mina la fiducia nel dollaro americano. La situazione creata dagli USA si ritorce contro di loro e i loro cittadini. Non è casuale che il Fondo Monetario Internazionale sia giunto alla conclusione che le sanzioni anti-russe minano la fiducia nel dollaro. La sua quota negli insediamenti globali è in declino. Questo è l’inizio della fine del monopolio globale del dollaro”.

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Foto Ministero Difesa Ucraino

 

E prosegue: “Chiunque abbia risparmi in dollari non può più essere sicuro che gli Usa non rubino questi soldi. Il Dipartimento del Tesoro Usa ha proibito al nostro Paese di pagare il debito sovrano dalle riserve congelate sotto le sanzioni, mentre il portavoce della Casa Bianca Jen Psaki ha detto che la Russia deve scegliere tra lo svuotamento delle riserve di dollari rimanenti o il default, afferma Volodin. Ma il nostro Paese ha fondi nei conti per soddisfare pienamente i suoi obblighi anche sotto le sanzioni. La decisione di Vladimir Putin di eseguire gli accordi sul gas con i Paesi ostili in rubli e la discussione di una più ampia lista di beni da vendere in rubli hanno reso il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti isterico”.

In effetti, attorno al 6 aprile, il rublo sembrava in recupero. Archiviate le perdite delle settimane precedenti, la moneta russa è tornata a una quotazione di 81 rubli per 1 dollaro.

Lo stesso livello del 23 febbraio, la vigilia dell’attacco all’Ucraina. Il tasso di cambio era arrivato a 122 rubli per dollaro all’inizio di marzo, pari cioè a una decurtazione del valore prebellico di circa il 30%. Un simile recupero si è avuto anche sull’euro. Anche il cambio euro-rublo ha recuperato, chiudendo il 6 aprile con 90 rubli per 1 euro, anche meglio del 23 febbraio quando era 92 a 1.

Il peggio era stato invece il 7 marzo, con 153 rubli per 1 euro. In generale, comunque, la Russia, per le sue sole dimensioni e ricchezza in risorse, sembra avere tutte le carte in regola per resistere per lungo tempo alla nuova Guerra Fredda, appoggiandosi su numerosi paesi suoi sodali. Questo in prospettiva rischia di spiazzare i paesi occidentali, probabilmente non pronti, nemmeno come opinioni pubbliche, a sacrifici economici che la maggior parte della popolazione può ritenere non commisurati allo scopo.

 

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Nato nel 1974 in Brianza, giornalista e saggista di storia aeronautica e militare, è laureato in Scienze Politiche all'Università Statale di Milano e collabora col quotidiano “Libero” e con varie riviste. Per le edizioni Odoya ha scritto nel 2012 “L'aviazione italiana 1940-1945”, primo di vari libri. Sempre per Odoya: “Un secolo di battaglie aeree”, “Storia dei grandi esploratori”, “Le ali di Icaro” e “Dossier Caporetto”. Per Greco e Greco: “Furia celtica”. Nel 2018, ecco per Newton Compton la sua enciclopedica “Storia dei servizi segreti”, su intelligence e spie dall’antichità fino a oggi.

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