GUERRA SIRIANA: WASHINGTON INVIA TRUPPE IN GIORDANIA

L’arrivo dei 200 militari statunitensi in Giordania (dove già sono presenti istruttori di CIA e forze speciali per addestrare i ribelli dell’Esercito Siriano Libero) potrebbe costituire l’inizio di una mobilitazione di forze tese a prendere il controllo dei depositi di armi chimiche in mano all’esercito di Bashar Assad.  Il quotidiano panarabo saudita Asharq al Awsat, citando ”fonti giordane ben informate”, ha riferito nei giorni scorsi che circa 300 militari statunitensi lavorano in Giordania da mesi per rafforzare assieme ai colleghi giordani le difese frontaliere del regno hascemita. Le fonti precisano che le truppe americane addestrano i militari giordani in materia di telecomunicazioni e sorveglianza di confine  nell’ambito del progetto detto ”Iniziativa della sicurezza dei confini condivisi”. I 200 militari di imminente arrivo ad Amman sono istruttori ed esperti di comunicazioni e intelligence che dovranno aiutare la Giordania a respingere eventuali attacchi al suo territorio. Una giustificazione un po’ traballante (e contestata dai manifestanti che ad Amman hanno protestato contro l’arrivo delle truppe di Washington) perché l’ipotesi che le forze di Damasco abbiano l’interesse e le capacità di attaccare la Giordania è quanto meno improbabile mentre più che certo sembra essere il tentativo statunitense di non farsi sorprendere da un eventuale tracollo del regime siriano che lascerebbe alla mercé dei miliziani jihadisti gli arsenali chimici.  ”L’arrivo dei 200 soldati Usa rientra nella cooperazione tra la Giordania e Washington”, ha sottolineato il portavoce del governo giordano, Mohammed Mohammani. L’annuncio è coinciso con affermazioni fatte in un’intervista televisiva dal presidente siriano Bashar al Assad, che ha accusato Amman di lasciare passare in Siria dal suo territorio ”migliaia” di miliziani armati che si uniscono ai ribelli e ha avvertito che ”il fuoco” del conflitto potrebbe investire la stessa Giordania. In realtà il governo giordano non solo lascia passare i combattenti dell’ESL ma ne cura l’addestramento con istruttori giordani e statunitensi.

Negli ultimi tempi le crescenti preoccupazioni circa gli arsenali chimici in Siria ha fatto circolare anche in Occidente ipotesi su possibili azioni per “metterli in sicurezza”. Il Los Angeles Times cita un piano per portare a 20mila i soldati americani in Giordania per l’operazione da avviare in caso di collasso del regime e davanti al rischio che le armi di distruzione di massa cadano in mano ai jihadisti. Un numero ridotto rispetto ai 70 mila considerati necessari da una precedente pianificazione ma che potrebbe tener conto che una simile operazione vedrebbe coinvolti anche altri Paesi, probabilmente Gran Bretagna, Francia, Turchia e la stessa Giordania. Del resto per ampliare il dispositivo militare in Giordania il Pentagono potrebbe far rapidamente affluire forze già schierate nel Golfo Persico e in Europa.

Anche Israele sembra interessato a fare la sua parte e secondo Le Figaro ha già ottenuto da Amman un paio di corridoi aerei nei quali fa volare i propri droni diretti sulla Siria a sorvegliare proprio i depositi di armi chimiche. “Israele non è uno stato aggressivo ma ha il diritto di intervenire in Siria se le armi del regime e quelle fornite ai ribelli dovessero finire nelle mani sbagliate” ha detto il premier israeliano Benjamin Netanyahu in un’intervista alla Bbc. “Le armi che ci preoccupano – ha spiegato – sono quelle che sono già in Siria, tra le quali sistemi missilistici antiaerei, armi chimiche e altri tipi molto molto pericolosi, che potrebbero cambiare i giochi” nella regione. Il generale Itai Brun, responsabile della divisione Ricerca e Analisi dei servizi segreti militari israeliani, ha accusato formalmente Damasco di aver impiegato in diversi casi gas nervino Sarin contro i ribelli. Washington non sembra considerare affidabili (per ora) queste accuse che anche gli anglo-francesi hanno rivolto al regime di Assad ma sembra prepararsi al peggio valutando tutti i possibili scenari. “Il Pentagono non vuole ripetere gli errori della guerra in Iraq quando il presidente George W. Bush lanciò invasione sulla base di valutazioni di intelligence sbagliate che Saddam Hussein aveva armi di distruzione di massa”, ha detto al Washington Post una fonte del Pentagono. Damasco respinge le ac cuse di aver impiegato armi chimiche attribuendone l’eventuale utilizzo ai miliziani di al-Qaeda.

Il generale israeliano Brun ha sottolineato che “con il passare del tempo gli sviluppi più verosimili in Siria sono il caos e l’anarchia, che il Paese vada in pezzi. Per noi si tratta di minacce enormi.” Per ora le truppe di Damasco non sembrano però sul punto di cedere e anzi, risultano al contrattacco in diversi settori grazie anche all’appoggio dei pasdaran iraniani e delle milizie libanesi hezbollah contro le quali si sono mobilitati alcuni imam e sceicchi sunniti libanesi proclamando il jihad contro i miliziani sciti. Difficile in questo contesto capire quindi se la minaccia che le armi chimiche cadano in mano ai jihadisti possa provocare davvero quell’intervento internazionale che finora l’Occidente hanno voluto evitare o se sbandierare questo rischio rappresenti un alibi perfetto per fornire un maggiore aiuto ai ribelli. L’impiego limitato di armi chimiche da part delle forze di Assad appare improbabile. Sul piano militare non ha alcun senso utilizzare queste armi alla spicciolata o contro pattuglie di ribelli. Le armi chimiche sono di distruzione di massa e il loro valore è legato all’impiego su vasta scala per annientare interi reparti nemici o migliaia di civili, come fecero gli iracheni negli anni ’80 contro curdi e iraniani. Damasco poi realizzò questo arsenale (dove potrebbero essere confluiti anche gli arsenali segreti di Saddam Hussein trasferiti  prima dell’invasione anglo-americana)  come bilanciamento delle armi atomiche di Israele. Assad non avrebbe quindi nessun interesse a scatenare la reazione internazionale con uso limitato e non certo risolutivo delle armi chimiche.

Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli

Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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