MERCENARI, CONTRACTORS E FOREIGN FIGHTERS PROTAGONISTI DEGLI ODIERNI CONFLITTI

Nonostante  incessanti sforzi siano riusciti a scongiurare (almeno si spera!) quelle grandi ostilità tra Stati che hanno insanguinato l’intero pianeta per secoli, la Guerra non è stata sconfitta: si è evoluta, ha continuato a cambiare aspetto – come un “camaleonte” direbbe Clausewitz – e caratteristiche. Da tempo ormai, si parla sempre più di “guerre asimmetriche”, tuttavia, la novità consiste nella diversa tipologia di “personaggi” che vi prendono parte: mercenari, contractors, volontari, freedom fighters, foreign fighters e lupi solitari.

Spesso i media non fanno alcuna distinzione tra l’uno e l’atro; li bollano con il nome più semplice ed accattivante, oppure li presentano solamente in una delle loro numerose sfaccettature: quasi sempre la più approssimativa e negativa.

Tracciare dei confini netti tra l’una e l’altra figura non è propriamente facile o possibile, anche a causa di sovrapposizioni delle stesse o assegnazioni meramente arbitrarie. Risulta perciò utile fornirne maggiori dettagli ed informazioni per non sfociare in inutili pregiudizi, generalizzazioni ed allarmismi.

Il mestiere più vecchio del mondo, a pari merito con un altro che non attiene alle tematiche di questa rivista, è quello del mercenario. Da quando si sono combattute guerre, essi hanno affollato tutti i campi di battaglia, alternando periodi di grande auge a decadenza, ma non sono mai scomparsi!

Dalla Mesopotamia all’Egitto, dalle guerre del Peloponneso a Cartagine, dalle Signorie e Principati alla Rivoluzione americana, da Waterloo alla Decolonizzazione africana. Soldati di Ventura, Mastini della Guerra, Les Affreux, Guns for Hire, sono solo alcuni tra i pittoreschi nomi con cui ci si è riferiti a questi individui la cui posizione giuridica  – a livello nazionale ed internazionale – è ancora piuttosto ambigua. Una tra le definizioni più accettate di mercenario è quella riportata nel secondo comma dell’articolo 47 del Protocollo aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra del 8 giugno 1977:

Mercenari

Con il termine «mercenario» si intende ogni persona:

a) che sia appositamente reclutata, localmente o all’estero, per combattere in un conflitto armato;

b) che di fatto prenda parte diretta alle ostilità;

c) che prenda parte alle ostilità spinta dal desiderio di ottenere un profitto personale, e alla quale sia stata effettivamente promessa, da una Parte in conflitto o a suo nome, una remunerazione materiale nettamente superiore a quella promessa o corrisposta ai combattenti aventi rango e funzioni similari nelle forze armate di detta Parte;

d) che non sia cittadino di una Parte in conflitto, né residente di un territorio controllato da una Parte in conflitto;

e) che non sia membro delle forze armate di una Parte in conflitto;

f) che non sia stato inviato da uno Stato non Parte nel conflitto in missione ufficiale quale membro delle forze armate di detto Stato

Con la Convenzione internazionale contro il reclutamento, l’utilizzazione, il finanziamento e l’istruzione di mercenari entrata in vigore nel 2001 sono stati aggiunti altri due elementi: “per rovesciare un governo o comunque minare l’ordine costituzionale di uno Stato, o pregiudicare l’integrità territoriale di uno Stato” e “è motivato a farne parte essenzialmente dal desiderio di guadagno significativo privato ed è spinto dalla promessa o il pagamento di un indennizzo materiale”.

Per chiamare un combattente “mercenario” tutti i suddetti requisiti devono esser compresenti. Le tracce più recenti sull’impiego di mercenari provengono dalla Nigeria dove ex militari sudafricani, definitosi contractors, ma ritenuti dai Ministri degli Interni e della Difesa del loro Paese “mercenari” – perseguibili penalmente – sono stati impegnati come consulenti, addestratori e, a quanto pare, anche come parte “attivamente” coinvolta nelle ostilità contro i Boko Haram.

Altre voci giungono dal Donbass dove sia governativi che separatisti si avvarrebbero di combattenti illegali al soldo: oltre a mercenari ceceni inviati a spese di Mosca, sono stati intervistati nostri connazionali che avevano già combattuto per Gheddafi, con lauti guadagni.

Contractor

La figura che viene accostata a quella del mercenario, portata alla ribalta delle vicende di Blackwater & Co in Iraq, è quella del contractor. Tale termine è decisamente generico; sfugge ad una rigida ed univoca definizione ma ben si addice ad un settore dotato di un altissimo livello di fluidità e flessibilità.

Generalmente utilizzato per professionisti privati che forniscono dei servizi di sicurezza senza partecipare attivamente ai conflitti, in esso rientrano Private  Military Companies, Private Security Companies, società dell’industria della sicurezza ed i Contractors veri e propri (grandi colossi dell’industria della sicurezza  che operano a supporto di un governo).

La classificazione più autorevole è quella dello studioso Peter Singer, denominata “Tip of the Spear” (della punta di lancia). Secondo Singer, minore è la distanza dal fronte (rappresentato dalla punta) di queste compagnie e maggiore è la componente militare dei servizi da loro offerti.

Alla “punta” abbiamo le Private Military Companies (PMC) che si occupano d’interventi militari sia “attivi” che “passivi”. Sono specializzate nell’offerta di competenze direttamente in combattimento  o al comando di truppe durante le ostilità.

I clienti sono principalmente Stati o soggetti dalle capacità militari limitate che si trovano a dover fronteggiare situazioni di crisi immediata.  Le più celebri PMC sono state Executive Outcomes, Sandline International e Blackwater: le prime due sono ormai chiuse, la seconda ha cambiato nome, proprietà e caratteristiche.

All’”impugnatura” troviamo le Private Security Companies (PSC) che offrono consulenza ed addestramento, investigazioni, analisi strategiche finalizzate al funzionamento o alla ristrutturazione di Forze Armate, fornitura di servizi di sicurezza, protezione armata per impianti e personale all’estero. La differenza tra il primo ed il secondo gruppo è il cosiddetto “dito sul grilletto”: raramente le PSC sono impegnante direttamente in azioni di combattimento e le armi vengono utilizzate solo a scopo difensivo. Citiamo Triple Canopy , Aegis, Erinys ecc.

Alla “base” della lancia troviamo i Contractors veri e propri: fornitori di servizi logistici e tecnici indispensabili all’attività militare, longae manus di un governo. Tra questi KBR, L3 Communications, DynCorp ecc. A conti fatti, le somiglianze con il mercenariato paiono sicuramente molte, tuttavia, esistono grosse differenze che si riassumono in una riconosciuta e legittimata professionalità a livello globale. Per soddisfare le esigenze degli odierni committenti, infatti si necessita di ampi e capillari networks, strutture permanenti, metodi e procedure efficienti ed ingenti quantità di capitali che solo società come queste riescono a concentrare; un approccio che i gruppi mercenari “vecchio stampo” non sarebbero in grado di offrire.

Le PMSC sono guidate dalla ricerca di un profitto affaristico che perseguono apertamente, senza alcun bisogno di operare nell’ombra. Anzi, utilizzano  la maggior visibilità possibile che le più moderne tecnologie possono fornire.

Contro l’accostamento mercenario-contractor si è sempre schierato Erik Prince, ex patron Blackwater che nel suo ultimo libro, Civilian Warriors ha citato l’opinione del Colonnello dei Marines in congedo, Thomas Hammes: “Non ho mai avuto la percezione che ciò che la Blackwater facesse, fosse per denaro.

Ovviamente lo era, per questioni di sopravvivenza economica. Ma questi ragazzi hanno dedicato la loro vita all’America. Hanno servito nei nostri migliori corpi speciali. Sono americani molto, molto dediti ed impegnati e faranno qualunque cosa, perfino sacrificarsi, per adempiere al proprio dovere”.

Un’immagine che contrasta fortemente con lo stereotipo di combattente senza ideali, fuorché il denaro. Anche David Isenberg, imparziale ed autorevole esperto in materia ha dichiarato sull’Huffington Post: “in verità, ogni volta che sento qualcuno accostare una compagnia di sicurezza privata ai “mercenari”, alzo gli occhi al cielo. E’ un segno di ottusità mentale.”

Foreign Fighters

Con Foreign Fighters – combattenti stranieri – ci si riferisce a quei combattenti che si recano in un Paese straniero per combattere o addestrarsi. Il fenomeno è stato presentato come una tipicità dello Stato Islamico, tuttavia, già negli anni novanta si è assistito al reclutamento di combattenti da inviare in conflitti inter-etnici e religiosi: Balcani, Caucaso, Afganistan.

Se guardiamo alla Storia poi, possiamo notare che il fenomeno costituisca effettivamente tutto tranne che una novità: il privateer Giuseppe Garibaldi al servizio dell’Impero brasiliano, Che Guevara, foreign fighter a Cuba, Congo e Bolivia, Lord Byron morto per l’indipendenza greca, George Orwell arruolatosi nelle brigate internazionali della Guerra civile spagnola, ecc. La vera particolarità dell’odierno fenomeno sono i numeri.

Per le Nazioni Unite sarebbero più di 25.000 – 3.000 gli europei, un’ottantina gli italiani –  provenienti da un centinaio di Paesi di tutto il Mondo. Trattasi prevalentemente di giovani: alcuni già conosciuti, indagati, processati, condannati ed espulsi dalle autorità, altri new entries, outsiders sconosciuti di 2° e 3° generazione, frutto dell’efficace campagna propagandistica dell’IS.

Il maggior pericolo, egoisticamente parlando, non si tratta di  ciò che vanno a fare all’estero – i.e. carne da cannone – quanto il “reducismo”: il loro rientro in patria ed i potenziali atti terroristici che potrebbero organizzare e commettere grazie alle capacità, alla legittimazione ed autorevolezza acquisite sui campi di battaglia.

Nonostante la maggioranze delle reclute sia manipolata direttamente dai reclutatori, molti estremisti sono frutto dell’autoradicalizzazione: soggetti solitari che decidono di combattere contro l’occidente, contro i colonizzatori, contro i crociati ecc.

Nonostante tutto, gli esperti considerano il fondamentalismo religioso come un mezzo di identificazione e realizzazione personale, di condivisione di un obiettivo superiore per cui vale la pena combattere e sacrificarsi: una causa più sociologica che religiosa.   

Per citare qualche caso: Douglas McArthur McCain, il primo cittadino statunitense morto per l’ISIS, il genovese Giuliano del Nevo morto in Siria ed il recente caso della famiglia Sergio, convinta dalla figlia Maria Giulia a raggiungerla in Siria per combattere. Una certa prerogativa legata al fenomeno dei foreign fighters è sicuramente la loro valutazione esclusivamente negativa da parte dei media.

Nessuno osa simpatizzare per le violenze perpetrate dal Califfato, tuttavia, ci si dimentica spesso di considerare che non tutti i fighters sono fondamentalisti. Tra i combattenti stranieri ci sono siriani in esilio, emigrati o loro discendenti che hanno deciso di tornare in Patria per combattere Assad da semplici partigiani o, al contrario, come lealisti per dar man forte al regime alawita. Entrambi non hanno legami col terrorismo, anzi ne sono un bersaglio.

Pensiamo all’Esercito Libero Siriano (o ciò che ne resta): l’unico interlocutore dell’Occidente continuamente bersagliato da Al Nusra, ISIS, lealisti e altri gruppi che si affrontano in Siria. Non avendo legami con l’estremismo, il rientro di partigiani nei rispettivi Paesi non costituirebbe una minaccia.

Una particolare sottocategoria di foreign fighters, utilizzata dai media per riferirsi ai “buoni”, è quella dei “Volunteers”. Questi combattono per le più svariate ragioni: ex militari in cerca dell’adrenalina del servizio attivo o che non hanno  mai provato quando lo erano, una giusta causa da difendere, il desiderio di fermare l’ISIS, difendere le minoranze come Yazidi e Cristiani oppure, per quanto riguarda il contesto del Donbass, difendere la popolazione civile dalle forze occupanti ucraine o, viceversa, aiutare le stesse a fermare il neozarismo russo.

I volontari non ricevono nulla se non vitto e alloggio e qualche soldo per sopravvivere o spostarsi nel Paese; non cercano un tornaconto economico bensì l’appagante sensazione di aver fatto, di aver agito in favore di qualcosa di più grande di loro: un dovere morale insomma!

Come il Califfato, anche i Curdi trovano vantaggio dalla presenza dei volontari. Tra di essi ci sarebbero dalla dozzina al centinaio di americani.

Per essi infatti combattere contro lo Stato Islamico costituisce una doppia opportunità: da una parte l’ISIS è una minaccia globale da fermare, dall’altra si stanno battendo per riconquistare città che erano già costate la vita di decine di marines e soldati americani e quindi, per non renderne vano il sacrificio.

La legittimazione internazionale di cui godono questi volontari è tale che, nel nostro Paese ad esempio, il decreto antiterrorismo ha introdotto pene per chi va a combattere tra le fila del Califfo, ma non per chi lo fa per il fronte opposto. In Gran Bretagna, nei confronti di due veterani che hanno combattuto con i Curdi non è stata intrapresa alcuna azione.

Oltre agli americani ci sarebbero canadesi, inglesi, tedeschi, israeliani ed italiani. La presenza di occidentali in prima linea non è molto gradita; particolari eccezioni a parte, si preferisce impiegarli come consulenti ed addestratori anche per le pressioni esercitate dai rispettivi Paesi che non vogliono loro cittadini nell’ennesimo video in tuta arancione, con il Jihadi John di turno.

Freedom Fighters

Altra tipologia di combattenti è quella dei freedom fighters, organizzati in movimenti di resistenza che costituiscono i  tentativi di una parte della popolazione di un Paese di resistere ad un governo legalmente costituito o ad una forza occupante.

Tali obiettivi possono esser perseguiti con metodi pacifici o violenti. Il termine “resistenza” (e di riflesso “freedom”) è generalmente utilizzato per indicare un’organizzazione considerata legittima da parte di chi scrive o cita.

Un movimento può esser considerato di resistenza o gruppo terroristico a seconda che i suoi membri siano ritenuti combattenti legali o illegali a cui quindi, venga riconosciuto o meno il diritto di resistere.

Se gli uomini dell’Esercito Libero Siriano possono esser considerati freedom fighters, i guerriglieri del Donbass? Durante la Guerra fredda, il presidente Reagan e l’Occidente hanno spesso definito freedom fighters i ribelli di Paesi sotto il giogo comunista; il problema è che spesso questi “partigiani” erano della stessa pasta, se non peggio, degli oppressori.

Vedi i Contras del Nicaragua, UNITA in Angola ecc. Tali giudizi non sono semplici, tantomeno scevri di opportunismi politici.

Lupi solitari

La figura di più recente comparsa è quella del “Lupo Solitario”. Anche stavolta, non che prima non esistessero, ma gli ultimi e subdoli attacchi hanno acceso i riflettori su di un fenomeno i cui numeri stanno crescendo in modo preoccupante, come riportato da un recente report del Southern Poverty Law Center.

Oltre a statistiche sul fenomeno negli Stati Uniti, vengono forniti interessanti dati sul profilo dei terroristi dimostrando che ISIS e altri gruppi jihadisti non costituiscono la principale minaccia per il Paese.

Il “Lone Wolf” è quel terrorista che opera individualmente, senza obbedire a ordini diretti od appartenere ad una precisa struttura terroristica.

Le sue azioni possono essere spontanee o risposte agli appelli all’attivismo violento lanciati dai gruppi fondamentalisti; appelli che adatta al proprio ambiente, alle proprie capacità e possibilità. L’accezzione terroristica di “Lone Wolf” è nata negli anni 90, in seguito agli appelli dei supremazisti bianchi Alex Curtis e Tom Metzger ad attività clandestine ed attacchi a bersagli governativi – e non – da parte di guerrieri solitari o piccole cellule. La stessa FBI ed il Dipartimento di Polizia di San Diego hanno ribattezzato l’indagine sulle attività di Curtis col nome “Operation Lone Wolf”

Alcuni accademici, ritenendo il nome “lupo solitario” troppo romantico ed improprio, preferiscono apostrofarli con un più dispregiativo  “Stray Dogs” (cani randagi), più adatto al loro modus operandi. Per questi terroristi “fai da te”, di fondamentale importanza risulta essere la rete con la quale possono reperire indottrinamento, istruzioni, addestramento e supporto logistico.

Con questo sistema, il “lupo solitario” non necessita di pregresse e/o particolari esperienze militari per trasformarsi in un abile stragista. Il principale punto di forza è che, muovendosi in solitaria, possono godere di un effetto sorpresa addirittura superiore a quello delle organizzazioni più strutturate.

Contro di  esse infatti le forze di polizia si sono mosse efficacemente negli ultimi anni infiltrandosi, sventandone attentati ed arrestandone componenti.

I lupi solitari invece riescono a restare nell’ombra fino a quando colpiscono. Il bilancio è sempre alto perché la predilezione è quella dei “soft targets” che possono colpire con banalissime ma efficaci armi quali coltelli, accette, pistole e fucili di contrabbando o legalmente detenuti, ordigni esplosivi improvvisati e persino veicoli. Il loro livello di pericolosità è considerato superiore a quello delle organizzazioni tradizionali.

Su 60 attacchi terroristici domestici pianificati o compiuti negli Stati Uniti tra il 2009 ed il 2015, il 74% è stato compiuto da “lupi solitari”; nel 90% dei casi hanno avuto come protagonista uno o due terroristi. Alcuni trends di questa tipologia di terrorismo sono il crescente numero di episodi e di Paesi colpiti, il crescente numero di vittime e feriti, crescente accanimento contro personale militare sia in servizio che fuori.

Gli Stati Uniti costituiscono la principale localizzazione ma anche l’Europa è sempre più teatro di questi fanatici: Norvegia, Francia, Danimarca, Austria, Germania, Paesi Bassi, Belgio ecc. Sebbene gli esperti ritengano che non vi sia un profilo preciso di terrorista solitario,  Joe Navarro, ex agente FBI, analista e ricercatore, ritiene che si tratti di individui con un istinto violento maturato da una qualche sorta di malcontento nei confronti del mondo esterno.

Essi collezionano ferite e si isolano nutrendosi di ingiustizie che poi utilizzano per giustificare le loro azioni: praticamente ognuno di quei 60 terroristi solitari è stato motivato da un senso di anarchia o di odio nei confronti di un particolare gruppo sociale. Ognuno ha la propria motivazione/ossessione e più si isolano e più diventano pericolosi.

Non importa l’appartenenza politica o la fede religiosa, infatti troviamo supremazisti bianchi, antiabortisti,  fondamentalisti islamici, estremisti politici o sociali ecc.

Tra i più famosi “lupi solitari” degli ultimi anni annoveriamo Timoty McVeigh, responsabile dell’attacco di Oklahoma City (168 vittime),  l’Unabomber americano, Nidal Malik Hasan, lo psichiatra dell’Esercito americano che ha ucciso 13 commilitoni a Fort Hood, i fratelli Tsarnaev, dell’attentato alla maratona di Boston, Anders Breivik boia di 77 persone in Norvegia nel 2011, i terroristi che hanno colpito il Canada a fine 2014, gli attentatori di Garland (Texas) a maggio e Dylan Roof che ha ucciso 9 afroamericani a Charleston lo scorso 17 giugno.

Per quanto riguarda l’Italia, ci si è mossi sulla prevenzione privilegiando espulsioni di simpatizzanti e reclutatori ad arresti veri e propri. Resta ancora da chiarire la posizione dei due presunti terroristi arrestati a Brescia a fine luglio che paiono più mitomani che non veri e propri lupi solitari.

Tra le caratteristiche  di queste figure, va segnalato infine un loro comune aumento di pericolosità. Se infatti all’inizio essa era limitata dall’inesperienza, la diffusione di conflitti asimmetrici (ma anche delle opportunità del web!) hanno permesso loro di impratichirsi e guadagnare esperienza nel mestiere delle guerra.

Addirittura qualcuno sta cominciando a sfruttare l’addestramento delle Forze Armate occidentali, per poi fare il doppio gioco ed operare a propria discrezione. Eclatante il caso dei soldati francesi raccontato da Analisi Difesa  e quello del ex comandate delle forze speciali tagike, addestrato dalla società privata Academi (ex Blackwater)  Un avversario invisibile è pericoloso; uno che conosce anche i tuoi “trucchi” lo è ancora di più!

Foto: Euronews, AP, IMG Lop, al-Jazira, Stato Islamico, Reuters

Nato nel 1983 a Brescia, ha conseguito la laurea specialistica con lode in Management Internazionale presso l'Università Cattolica effettuando un tirocinio alla Rappresentanza Italiana presso le Nazioni Unite in materia di terrorismo, crimine organizzato e traffico di droga. Giornalista, ha frequentato il Corso di Analista in Relazioni Internazionali presso ASERI e si occupa di tematiche storico-militari seguendo in modo particolare la realtà delle Private Military Companies.

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