Sembra una guerra fredda ma il medio oriente è in fiamme

 

da Il Mattino del 14 febbraio

Doveva essere il palcoscenico da cui rinnovare l’impegno a combattere lo Stato Islamico, invece la Conferenza sulla Sicurezza di Monaco di Baviera si è rivelata la vetrina della rinnovata guerra fredda in atto tra Occidente e Russia.
Un termine sdoganato ieri dallo stesso premier russo Dmitri Medvedev per il quale “siamo in una nuova guerra fredda, le relazioni fra Ue e Russia sono deteriorate”.

Che Washington e più in generale gli angloamericani, che rivestono un ruolo leader nella Nato e stanno trainando contro Mosca gli alleati europei, vedano nella Russia la principale minaccia alla sicurezza globale lo conferma anche l’ultimo documento programmatico del Pentagono in cui dopo Mosca le minacce più preoccupanti risultano essere la Cina, la Corea del Nord, l’Iran e, solo quinto, lo Stato Islamico e il terrorismo jihadista.

Una “classifica” delle priorità strategiche che ben spiega quanto è accaduto al vertice di Monaco dove arabi e occidentali si sono mobilitati contro Bashar Assad e il suo alleato russo invece che contro l’Isis e dove il segretario di Stato statunitense John Kerry ha criticato aspramente il comportamento di Mosca e le sue “aggressioni” all’Ucraina e all’opposizione siriana.

“La Russia sta andando contro la comunità internazionale, appoggiando i separatisti ucraini e intervenendo militarmente in Siria a sostegno di Assad”.
I fronti ucraino e siriano sono del resto complementari nella nuova guerra fredda. Se fosse riuscito del tutto, il colpo di mano del Maidan avrebbe sottratto l’Ucraina alla sfera d’influenza di Mosca riducendone sensibilmente il peso in Europa.

La nuova “strategia della tensione” ha infatti impedito quella progressiva saldatura tra Ue e Russia determinata certo da forti interessi energetici e commerciali ma anche dalla necessità di combattere il comune nemico rappresentato dalla minaccia jihadista.

Senza le basi militari della Crimea, da dove aerei e navi della Flotta del Mar Nero raggiungono il Mediterraneo e l’Oceano Indiano, i russi  avrebbero forti difficoltà ad alimentare lo sforzo bellico in Siria, fronte che nella visione strategica di Mosca costituisce la prima linea del conflitto contro i jihadisti.

Un aspetto che non deve sorprendere tenuto conto che un quinto dei cittadini russi è di religione islamica e che il Cremlino è consapevole che una volta caduto Assad le direttrici di penetrazione del jihad punterebbero sul Caucaso russo e le repubbliche ex sovietiche.

Per questo i toni accesi di Kerry e dei ministri degli esteri turco e saudita tradiscono il nervosismo di arabi e occidentali per i successi che l’intervento russo sta consentendo alle truppe di Damasco affiancate dagli alleati curdi, iraniani ed hezbollah libanesi. Forze che stanno riprendendo il controllo di tutto il nord incluso il confine turco e hanno circondato i ribelli di diverse fazioni jihadiste ad Aleppo.

Non è un caso che ieri Ankara abbia bombardato con l’artiglieria la base aerea di Minagh che le milizie curde siriane alleate di Mosca e Damasco avevano strappato all’Isis pochi giorni or sono. Nessun colpo turco aveva mai colpito la base finché era nelle mani dei jihadisti.

L’obiettivo immediato dell’offensiva, dichiarato dallo stesso Bashar Assad, è tagliare le linee di rifornimento che dalla Turchia alimentano i ribelli: esattamente la stessa manovra attuata nel sud dove i lealisti hanno ripreso il controllo della frontiera con la Giordania da dove filtrano armi e rifornimenti per gli insorti.

L’offensiva sta spiazzando gli avversari costringendoli a scoprire molte carte. Al nervosismo di Kerry che ha chiesto ai russi di “cambiare bersagli” e cioè di smettere di attaccare le forze ribelli siriane anche se si tratta di movimenti per lo più jihadisti, si affiancano le dichiarazioni bellicose di Riad e Ankara che sembrano pronti a inviare truppe in Siria.

A parole per combattere lo Stato Islamico ma con l’obiettivo di fermare l’offensiva delle forze di Damasco che, come ha detto Assad, “proseguirà fino alla riconquista totale del territorio nazionale.

Ankara ha aperto la base di Incirlik alle forze aeree saudite e Kerry ha dato la sua benedizione a un intervento terrestre saudita già bollato come aggressione da Damasco, Teheran e Mosca.

I successi conseguiti sul campo da russi e lealisti siriani minacciano di far saltare quanto stabilito a Ginevra per l’uscita di scena di Bashar Assad dal momento che in pochi mesi l’opposizione armata siriana rischia di venire cancellata dal campo di battaglia e quindi dalla scena politica.

Anche il cessate il fuoco stabilito giovedì da russi e statunitensi e da instaurare entro una settimana ha ben poche speranze di concretizzarsi. Washington lo vuole per fermare il ruolo compressore russo-siriano e dare respiro ai ribelli sotto assedio ad Aleppo, Mosca invece punta a mostrare la disponibilità a fermare le ostilità per fornire aiuti umanitari alla popolazione stremata dopo le accuse di compiere bombardamenti indiscriminati sui civili.

Le forze di Assad continueranno però a combattere per non perdere l’iniziativa, numerose sigle della galassia ribelle hanno già fatto sapere che non lo rispetteranno e gli Stati Uniti hanno precisato che il cessate il fuoco non interesserà le operazioni contro i qaedisti di al-Nusra e lo Stato Islamico che controllano oltre un terzo del territorio siriano.

@GianandreaGaian

Foto SANA, AP, Aeronautica Turca, YPG

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Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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