F-35: L’OPERATIVITA’ LIMITATA E I DUBBI DELLA STAMPA BRITANNICA

Gli Stati Uniti hanno fretta di schierare all’estero (cominciando dall’Europa e dal Pacifico) il loro nuovo aereo da attacco stealth F-35 Lightning II. Potrebbe succedere già nei prossimi mesi, al più tardi entro il Natale dell’anno venturo.

Non è un’impressione ma il dato di fatto che si ricava dalle dichiarazioni ufficiali rese questa estate da esponenti di vertice del Pentagono e dell’United States Air Force dopo il raggiungimento della Initial Operational Capability della versione F-35A. Spicca fra tutte quella del responsabile del programma generale Chris Bogdan, che ha detto che l’annuncio della IOC è un “semplice ma potente messaggio tanto agli amici quanto ai nemici degli Stati Uniti”.

Secondo il comandante dell’Air Combat Command dell’USAF ora l’F-35 è “ready for war”, e anche per lui questa prontezza rappresenta un monito e “un deterrente nei confronti dei nostri avversari” (Russi e Cinesi, si intende).

“Se ci fosse richiesto,” ha aggiunto, “potremmo già mandare i nostri F-35 in Medio Oriente in un battito del cuore” – teatro di guerra, s’è saputo gli ultimi giorni di agosto, per il quale anche i Marines sarebbero pronti di qui a qualche mese con i loro STOVL freschi di retrofit col software successivo Block 3I.

 

Come si è osservato da più parti commentando il sovrabbondante entusiasmo che ha accompagnato la IOC degli F-35A, la capacità iniziale dei Lightning II dell’aeronautica, candidati già addirittura a rischieramenti oltremare, è molto iniziale, cioè poco consistente, data la perdurante impossibilità del velivolo – per dirne due – di usare il cannone, e di ingaggiare i bersagli senza un aiuto esterno.

La fretta si accompagna però alla preoccupazione per la impreparazione e le difficoltà pratico-tattiche di quanti nei teatri operativi per i quali l’aereo sarebbe “pronto alla guerra”, si troverebbero a esercitare il C2 sul velivolo.

Alla immaturità del sistema d’arma si aggiungerebbe infatti quella del Commando-Controllo preposto all’inserimento di questi nuovi aerei da combattimento in contesti operativi complessi.

Israele, come riporta un recente articolo della rivista britannica Air International, ha chiesto agli Americani cosa abbiano imparato dalla prima esperienza pre-operativa che l’USAF ha condotto a giugno rischierando fuori sede una mezza dozzina di JSF.

Ebbene non hanno ricevuto risposte, e il mensile d’oltre Manica, andato in stampa prima che giungesse la notizia che da gennaio cominceranno ad affluire in Giappone i primi F-35B dei Marines, nota come lo stesso comandante delle forze aeree americane nel Pacifico abbia “un disperato bisogno di quantificare cosa siano in grado di offrire i caccia di quinta generazione” in quel particolare contesto operativo.

Insomma, in questa fase di fine sviluppo iniziale, come era facile aspettarsi in un programma così articolato e diluito nel tempo dai suoi stessi ritardi, i necessari cosiddetti Concept of Employment sarebbero ancora in alto mare. Alla faccia di quel “ready for war”.

Ancora molti anni per la Full Capability

C’è comunque grande incertezza anche sui tempi di questa “prontezza al combattimento” dell’F-35. Una prontezza – si parla stavolta della capacità completa (Full Operational Capability, FOC) – che per la versione -A si proietterà verso la fine del 2018.

Scadenza peraltro prematura rispetto al termine “istituzionale” stabilito dal Dipartimento della Difesa, che la fissa solo a valutazione operativa iniziale conclusa.

Questa valutazione sarà possibile soltanto dopo il rilascio della versione di software finale 3F (relativamente alla fase di sviluppo iniziale) e partirà solo nell’agosto di quello stesso anno.

Subirà però verosimilmente un ritardo, dato che, sempre secondo l’attuale pianificazione, configurare i 20 esemplari con i quali dovrà essere condotta non sarà possibile prima del 2020.

Dunque, la Full Operational Capability dovrà spostarsi in là di altri anni, sei o sette dopo la Initial Operational Capability. Tutto questo almeno secondo le procedure stabilite dal Pentagono, che facilmente l’Air Force cercherà di scavalcare.

Interessante anche l’accenno che il già citato giornale britannico, a proposito della futura gestione “internazionalizzata” del velivolo – è questo l’obiettivo sostanziale del programma -, fa della necessità di mettere tutti i velivoli di un pacchetto di F-35 di vari paesi nella condizione di disporre degli stessi dati sulle minacce incorporati nei Mission Data Files.

Argomento al quale abbiamo dedicato un ampio articolo all’inizio di agosto (“L’Italia e l’F-35: confermata la ‘sovranità limitata’”), e che trova conferme là dove Air International scrive che “la generazione di MDF uniformi per tutti gli utilizzatori internazionali dell’F-35 è problematica. Qualcuno di questi utilizzatori non userà i dati sulle minacce, che costituiscono il cuore dei MDF, senza conoscere le loro fonti (chi/quale sensore, come, dove e quando li ha generati, essendo stato il ricettore di quella minaccia; ndr), che potrebbero essere non rilasciabili”.

Israele è l’eccezione che conferma la regola

La questione rimane insomma aperta, e rimanda alla possibilità o meno per gli utenti stranieri del JSF, di impiegare i propri aerei anche fuori da una colazione, ossia per proprio conto o con partner diversi dagli Stati Uniti. Scenari che neppure nessuno dei più recenti sviluppi geopolitici medio-orientali o centro-europei può escludere aprioristicamente.

A quel punto cosa accadrebbe nei Reprogramming Laboratories dove – dapprima sotto il controllo americano e poi dal 2020 in autonomia almeno per l’Italia, come ci ha spiegato il capo di Armaereo – i partner internazionali del programma dovrebbero confezionare i MDF per quelle missioni non guidate dagli USA?

Una prima risposta sta nella constatazione, ancora una volta, che la generazione e l’aggiornamento dei Mission Data Files passa attraverso il sistema ALIS, il cui Comando-Controllo, al di là dei livelli di sovranità acquisita dai singoli utilizzatori, resta americano. Anche per questo Israele, come giustamente ricorda il mensile britannico, chiede a Washington di poter caricare e tenere aggiornati i dati sulle minacce nei MDF dei propri F-35 per proprio conto, con input ricavati dalle proprie fonti sensoristiche.

Il Pentagono, attraverso il DOT&E, boccia la IOC

Mentre discute di questi importantissimi aspetti, la comunità internazionale dell’F-35 si trova nel frattempo come sospesa, in balia del costante botta e risposta fra il Joint Program Office del generale Bogdan e il “collaudatore” ufficiale dei nuovi sistemi d’arma del Pentagono Michael Gilmore, quel Director of Operational Test and Evaluation che si è rifatto vivo con un report interno giusto una settimana dopo la dichiarazione della Initial Operational Capability degli F-35A dell’Air Force.

Il balletto fra i due ormai sfiora la comicità: è come se un giudice dicesse a chi ha commesso un reato: “guarda che hai commesso un reato”, e il colpevole con una scrollata di spalle rispondesse “non mi dici niente di nuovo”.

Il DOT&E, dopo aver fatto sapere all’inizio dell’estate che gli F-35B dei Marines, dichiarata la IOC nel 2015, hanno poi avuto bisogno di 61 kit di modifiche e aggiornamenti per potersi dire veramente IOC, ora segnala ai vertici del Pentagono che il programma si sta incamminando verso l’impossibilità di garantire tutte le capacità promesse.

Per acquisire la capacità operativa completa l’aeroplano  (per i primi 285 esemplari del quale il Pentagono ha già speso più d’un quarto dei circa 400 miliardi di dollari previsti per l’intero programma)  avrà bisogno, ancora prima, di altro tempo e quindi ulteriori fondi per la conclusione dello sviluppo iniziale (SDD).

Inoltre con la release di software con cui l’Air Force ha dichiarato la capacità operativa iniziale, il Block 3I, l’operatività è compromessa da una quantità di problemi.

Quel “ready to war” sarebbe insomma qualcosa di molto vicino al fumo negli occhi, secondo Michael Gilmore.

E’ quest’ultimo, in questa fase, l’aspetto che merita più attenzione. Vediamo.

a) I collaudi hanno evidenziato problemi al cannone da 25 millimetri, e all’installazione esterna (al pilone sub-alare d’estremità) del missile aria-aria AIM-9: il primo quando spara provoca oscillazioni sull’asse di rollio e piccoli sbandamenti laterali, inducendo errori di mira, e il secondo sulla versione -C del velivolo in determinate manovre trasmette carichi eccessivi all’ala.

L’impossibilità di usare il cannone è un limite non da poco nelle missioni di supporto aereo ravvicinato che questa IOC permetterebbe di svolgere; e le cose, dice il DOT&E, andranno ancora più per le lunghe per il cannone in pod esterno destinato alla versione STOVL e a quella da portaerei;

b) l’aereo non può ancora usare armamento stand off, non ha la capacità di illuminare i bersagli per le missioni CAS, ha insufficienti capacità di geolocalizzazione, dovendosi così affidare a fonti esterne (altri aerei, per forza di quarta generazione) per localizzare le minacce e acquisire i bersagli;

c) per acquisire alcune informazioni tattiche le comunicazioni devono ancora essere fatte a voce;

d) il casco del pilota, nella sua più recente versione III, ha ancora problemi nella visione notturna.

e) a detta dei piloti collaudatori di Edwards (la principale fonte di dati per il DOT&E), il problema degli improvvisi spegnimenti dei sistemi del velivolo si fa più acuto ogni volta che si passa da una versione del software alla successiva, con l’ultima, la 3F, che almeno al momento performa peggio di quelle precedenti, la 2B e la 3I.

f) in linea generale, le deficienze nella fusione dei sensori, nel datalink, nelle interfacce aereo-pilota e nella suite di guerra elettronica avranno un impatto sulla efficacia e la stessa idoneità del sistema d’arma.

L’esempio (al contrario ) dell’F-22

Se le cose stanno davvero come dice il DOT&E – c’è chi ne dubita, a dispetto delle evidenze oggettive ricavate dalle fonti interessate, arrivando ad accusare questo ramo del Pentagono di complottismo – bisogna chiedersi due cose. Primo: tutto questo è normale, accettabile per una forza aerea, qualunque essa sia?

Paradossalmente, se si vuole, andrà meglio all’Aeronautica Militare Italiana, che, come ha annunciato in Parlamento il Capo di Stato Maggiore, generale Enzo Vecciarelli, raggiungerà la IOC dei suoi primi F-35A ad Amendola solo fra 6 anni – tanti ne devono passare col rallentamento di ordini e consegne per poter avere un gruppo di volo di consistenza tale da potersi vedere dichiarata questa capacità -, con uno stadio di maturità del velivolo ben più avanzato dell’attuale.

Seconda questione: che rischi corre l’America nel rendere “pronta al combattimento” una piattaforma tanto rivoluzionaria da richiedere ancora tanto tempo per dimostrarsi tale, pensando poi al problema non risolto della sovranità operativa di quanti essa chiamerà – il più presto possibile – a collaborare nei famosi “pacchetti internazionali” di Joint Strike Fighter?

Con l’F-22, tenuto “in panchina” per lunghi anni anche per il timore che ne venissero scoperti i “tesori”, e rimasto vittima di una inevitabile (anche se complessivamente relativa) obsolescenza, gli Stati Uniti hanno fatto il contrario. Una efficace (e onorevole) via di mezzo, appare al momento impossibile.

Foto: Lockheed Martin e Aeronautica Militare

 

Silvio Lora LamiaVedi tutti gli articoli

Nato a Mlano nel 1951, è giornalista professionista dal 1986. Dal 1973 al 1982 ha curato presso la Fabbri Editori la redazione di opere enciclopediche a carattere storico-militare (Storia dell'Aviazione, Storia della Marina, Stororia dei mezzi corazzati, La Seconda Guerra Mondiale di Enzo Biagi). Varie collaborazioni con riviste specializzate. Dal 1983 al 2010 ha lavorato al mensile Volare, che ha anche diretto per qualche tempo. Pubblicati "Monografie Aeree, Aermacchi MB.326" (Intergest) e con altri autori "Il respiro del cielo" (Aero Club d'Italia). Continua a occuparsi di Aviazione e Difesa.

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