IL DIBATTITO SULL’F-35: ENNESIMA OCCASIONE PERDUTA

In Italia le spese militari non portano voti ma talvolta  stimolano la politica italiana (a corto di idee) a cercare facili consensi come è accaduto durante la recente campagna elettorale che ha visto affrontare in modo populistico e semplicistico le spese per la Difesa e soprattutto la commessa per i 90 cacciabombardieri F-35. L’aspetto più ridicolo della vicemnda è che in poche settimane  il Lightning II è diventato un povero orfanello, un figlio di nessuno. Per Pier Luigi Bersani occorre ridurre ulteriormente i jet perché “ abbiamo gli esodati, gli uffici sociali dei comuni con la fila davanti, e si tagliano i soldi ai disabili”. Anche Silvio Berlusconi non li vorrebbe ma ha chiesto al suo staff un dossier completo sul programma. I maggiori partiti italiani, Pd e Pdl, rinnegano un bambino che loro stessi hanno tenuto a battesimo firmando in quanto forze di governo dal 1996 a oggi i progressivi atti che ci hanno coinvolto nel Joint Strike Fighter. I politici che parlano di ridurre o cancellare il programma F-35 senza proporre alternative a quel velivolo sembrano poi dimenticare la necessità di rimpiazzare i vecchi cacciabombardieri Tornado, AMX e Harrier, aspetto indispensabile a meno che non si voglia rinunciare ad avere delle forze armate. I pacifisti vorrebbero tagliare le spese militari senza rendersi conto, nel loro furore ideologico, che far passare il concetto che lo Stato possa abdicare a una delle sue funzioni (la Difesa) costituirebbe un pericoloso precedente che domani potrebbe venire allargato a settori più “sociali” della spesa pubblica. La Difesa sostiene che l’aereo è indispensabile ma non si capisce bene a che cosa perché nessuno ha mai delineato in modo preciso cosa pretenda l’Italia dalle sue forze armate. Ammesso che l’F-35 riesca a superare tutti i numerosi difetti che ancora lo caratterizzano e diventi un aereo da attacco invisibile ai radar, sofisticatissimo ed efficacissimo siamo certi di potercelo permettere? Perché non basta dire che i costi dell’aereo americano sono elevati (e probabilmente cresceranno ancora) senza ricordare che il bilancio della Difesa di questo e dei prossimi anni stanzia un po’ di denaro per acquistare nuovi mezzi moderni ma lo fa a discapito dei fondi per l’Esercizio, cioè per manutenzione, carburante e addestramento. Ha quindi senso acquistare gli F-35 per tenerli chiusi in hangar per mancanza di benzina e manutenzione come già accade per molti aerei, mezzi e navi oggi in servizio? La domanda sembrano porsela gli olandesi chiedendosi se abbiano davvero bisogno di un velivolo di quinta generazione o non sia sufficiente uno più gestibile e meno costoso di quarta generazione aggiornato con le ultime tecnologie (il cosiddetto 4++). L’Olanda è uno dei Paesi che hanno avviato una seria riflessione sulla loro adesione al programma ma tra questi non figura l’Italia dove si affrontano in modo “calcistico” due squadre che rappresentano i fans dell’F-35 contrapposti a pacifisti e populisti uniti dallo slogan “più burro e meno cannoni”. Come Analisi Difesa ha più volte evidenziato sul programma F-35 esistono molti interrogativi senza risposta anche a causa della discordanza tra le informazioni diffuse dai protagonisti del programma. Nei mesi scorsi il nostro web magazine aveva rivelato che i costi annunciati nel febbraio 2012 dalla Difesa erano già saliti considerevolmente ma oggi il problema dell’affidabilità delle cifre fornite si ripresenta. In una recente conferenza stampa Lockheed Martin ha annunciato che entro il 2018 l’F-35 costerà 67 milioni di dollari a esemplare. A dicembre però il Ministero della Difesa italiano aveva informato il Parlamento che a partire dalle consegne in programma nel 2021 alla nostra Aeronautica e alla nostra Marina, la versione convenzionale dell’aereo costerà 83,4 milioni di dollari (64,1 milioni di euro), e quella a decollo corto e atterraggio verticale 108,1 milioni di dollari (83,1 milioni di euro). Differenze non di poco conto forse spiegabili col fatto che l’Italia deve negoziare con il governo statunitense il prezzo degli aerei mentre Lockheed Martin fornisce i costi relativi ai velivoli prodotti per il Pentagono?

Anche sul ritorno industriale per l’Italia c’è poca trasparenza. Lockheed Martin ha dichiarato che il numero di aziende italiane che hanno già ottenuto contratti di fornitura sono 27 per un ammontare di 459 milioni di dollari mentre il generale Claudio Debertolis, alla testa di Segredifesa, in dicembre riferì in Parlamento di 37 aziende per 600 milioni di euro di contratti firmati, più o meno corrispondenti agli 807 milioni di dollari riferiti a margine della recente visita allo stabilimento di Cameri del sottosegretario alla Difesa Gianluigi Magri. Anche il totale dei ritorni industriali previsti nell’arco dell’intero programma non sono chiari. L’azienda statunitense ha parlato di 8,6 miliardi di dollari (ovviamente se il numero di aerei non scenderà sotto quota 90) più la “promessa” di altri 4 miliardi mentre, sempre nel dicembre scorso, Debertolis annunciava un totale di “15 miliardi di dollari di realistiche opportunità”.

Non aiuta a fare chiarezza la posizione ribadita recentemente da Magri, che considera l’F-35 ”attualmente senza alternative” ribadendone gli ”importanti ritorni occupazionali e industriali per il Paese”. Nello stabilimento di Cameri, dove Alenia Aermacchi produce parti delle ali e dove verranno assemblati gli aerei italiani, il sottosegretario ha parlato dell’impiego di “fino a 1.500 addetti e il coinvolgimento di oltre 60 aziende italiane. Di queste, le prime 40 occupano oltre 10.000 persone che avranno, nei prossimi anni, il posto di lavoro garantito dal progetto F35”. Numeri in realtà tutti da verificare poiché per ora e almeno fino al 2017-2018 i ratei produttivi, i contratti e i posti di lavoro garantiti sono molto pochi come ha ben illustrato l’inchiesta di Silvio Lora Lamia pubblicata da Analisi Difesa in febbraio. Inoltre il Ministero va spiegando da tempo – e a Cameri Magri ha confermato – che il  programma che può essere rivisto di anno in anno: ogni volta si andrà in Parlamento, si discuterà e si voterà quanti aerei acquistare. Come si può però sperare che con un simile piano di acquisto il governo americano e Lockheed Martin ci assicurino quel volume di ritorni industriali con le relative ricadute occupazionali?

Problemi e ritardi rischiano di disastrare il programma come del resto sottolineano (con una trasparenza sconosciuta in Italia) i periodici rapporti del Pentagono. Per la fase di valutazione operativa iniziale l’Olanda spenderà il doppio di quanto preventivato nel 2008, e i due esemplari che sta per ricevere resteranno fermi in hangar per due anni, con un ulteriore aggravio di spesa, poiché la fase di valutazione inizierà solo nel 2015. Al di là delle contrapposizioni ideologiche sarebbe auspicabile che in Italia si sviluppasse un dibattito su questi e altri temi che riguardano la nostra industria (nostra forse ancora per poco), gli interessi nazionali, il denaro del contribuente e le nostre scelte strategiche. Negli anni scorsi l’Italia ha speso miliardi (ma con ritorni industriali e occupazionali certi fin dall’inizio) per sviluppare con i partners europei la capacità di progettare, produrre ed esportare jet da combattimento Typhoon del consorzio Eurofighter che sono concorrenziali con i velivoli made in USA. Con l’adesione al programma F-35 la nostra industria perderà questa capacità per diventare subfornitrice dell’americana Lockheed Martin. Questa considerazione basterebbe da sola a mettere in discussione l’acquisizione dell’F-35 tenuto conto che in tutti i Paesi l’acquisto di mezzi militari non risponde solo alle esigenze delle forze armate ma anche e soprattutto a valutazioni politiche e industriali. Ha ancora un senso per l’Italia mettersi militarmente nelle mani degli statunitensi (che avranno l’esclusivo accesso alle tecnologie più avanzate adottate dall’F-35) in un momento in cui gli interessi globali di Washington non sembrano coincidere con quelli italiani ed europei?

Qualcuno può spiegarci perché dovremmo continuare a essere buoni clienti di costosi e traballanti programmi americani quando Barack Obama applica lo slogan “buy american” su tutte le commesse militari e negli ultimi mesi il Pentagono ha tagliato i contratti per i velivoli cargo italiani C-27J destinati alla Guardia Nazionale statunitense e G-222 acquisiti per le forze afghane?  Non sarebbe meglio investire sui nostri prodotti adottando la versione da attacco del Typhoon e finanziando lo sviluppo di droni da combattimento europei con programmi che coinvolgono pienamente la nostra industria ? Con un bilancio della Difesa più che doppio di quello italiano i tedeschi non acquisiranno l’F-35 ma utilizzeranno un solo aereo per l’intercettazione e l’attacco, il Typhoon di cui sono anche loro produttori. L’Italia invece avrà una doppia linea di velivoli, Typhoon ed F-35, con un raddoppio dei costi logistici che non possiamo permetterci con gli attuali budget della Difesa. Una scelta “alla tedesca” ci permetterebbe di salvaguardare meglio la nostra industria e i posti di lavoro acquisendo solo una ventina di F-35 nella versione B a decollo corto e atterraggio verticale davvero indispensabili per la portaerei Cavour. Su questi interrogativi e su questi temi vorremmo vedere svilupparsi un confronto che coinvolga anche quanti pretendono di guidare l’Italia.

Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli

Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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